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Stai leggendo: "45 minuti" di Quinto Moro

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45 minuti. Tanto quanto una puntata di serie tv. Prima che cominciassero a minutare ognuno come cazzo gli pare. Quarantacinque minuti a partire da ora. È giugno ma piove. Non adesso. Ha sputazzato qua e là intorno alla città per tutto il pomeriggio. Va avanti così da una settimana. Un po’ di goccioloni grandi come quelle chiazze rosse che mi vengono sulla pelle d’estate, quando mi faccio troppe docce. Intolleranza al sapone. Puzzerei come un cane se dessi retta a tutte le desquamazioni e colorazioni bizzarre della mia buccia. Invece ho una fissa per il sapone. Il mondo è un posto lercio pieno di sporcaccioni che spargono il loro schifo. Bisogna lavarsi bene le mani. Sciacquarsi la bocca, e sforzarsi di restare puliti più a lungo possibile.

Eppure mi piace sedermi per terra. E levarmi le scarpe. Ci vuole, levarsi le scarpe dopo sei o sette chilometri, e pure le calze. Di solito, quando esco per lunghe camminate, a metà strada mi fermo e caccio fuori i piedi, a fargli prendere un po’ di sole. Sono bianchi come gechi albini e quasi altrettanto squamosi. Piedi alieni, appendici che sembrano non appartenermi nemmeno. Ma il sole è calato e non si vede quel candore vampiresco. Sono mollicci e allungati come calamari. Il contatto dell’erba sotto, e il curioso benessere che dà mi strappano all’idea d’essere una creatura acquatica vomitata fuori da un vortice dimensionale. Il figlio di alieni scopaioli che disseminano la galassia della loro progenie mezzosangue. Per loro qualche istante di endorfine e per noi una vita a sentirsi estranei e abbandonati tra queste strane scimmie spelacchiate.

Eppure sono umano. Questi sono i miei piedi. Le mie gambe stanche coi polpacci indolenziti. Il mio culo piantato sulla nuda e dura terra. E le braccia cinte a metà tra stinchi e ginocchia, col mento incastonato di sopra.

Il paesaggio urbano ha un che di gentile visto da quassù. Ogni tanto qualcuno se ne esce con la cazzata che ‘sta sgorbia città stia tra sette colli come Roma. Lo dicono in un sacco di posti. Basta che ci sia più di una collina e mezza, qualche strada in salita tra questo e quel quartiere che tutti vogliono sentirsi accoccolati tra sette colli. Questo è l’unico colle di cui m’importa. Si vede un’esagerata distesa di asfalto da qui, non si capisce come sia possibile che questo bubbone umidiccio e verde sia sopravvissuto. C’è la superstrada che taglia a metà una collina poco più a valle, ci passa in mezzo come la rientranza tra due piccole labbra. Ci sono le ali di farfalla del raccordo, col doppio cavalcavia e le corsie di decelerazione. Dall’altra parte, altri due cavalcavia, e in fondo altri due. Se ne stanno appaiati a intervalli di cinque chilometri a perdita d’occhio. Sono tutti illuminati. Arterie nere, animate dai globuli bianchi e rossi dei fari che vanno e che vengono, luminarie natalizie su scala autostradale. C’è una striscia violacea sull’orizzonte che si annerisce, e più su nella grassa massa dei nembo cumuli eretti in verticale, lampi silenziosi di temporali lontanissimi.

Il flusso delle auto è silenzioso da qui, quasi un fruscio misto alla brezza che sa di erba bagnata e pneumatici. Per ultima cena ho scelto una scatoletta di insalata alla messicana, simile a quelle che compravo in quantità industriali quando avevo vent’anni e me ne andavo in montagna. Solo che non le fanno più di quella marca. Questa però ha in più la forchettina di plastica, molto pratica. Non riesco a vedere i colori, ma dall’odore gli somiglia proprio. Fagioli rossi, tonno e mais, e olio piccante, speziato. Il sapore è grasso e intenso, un ricordo rinnovato di quei vecchi pasti. Mi lascia in bocca il sapore del passato.

Per ultimo calice ho scelto una Pepsi al limone. Che poi mi fa schifo, ma non c’era altro al distributore automatico dal benzinaio. La lattina starnutisce e l’ascolto sfrigolare un minuto prima di bere.

Il culo mi si sta infradiciando per colpa dell’erba bagnata. Tiro fuori il telo da mare dalla sacca, lo srotolo per piegarlo e metà e sederci sopra. La pistola scivola fuori. Cade con un tonfo sordo sorprendente, come se l’erba fosse di vetro e porcellana. Per un attimo mi sono spaventato all’idea che potesse partire un colpo. Preoccupazione sciocca per un aspirante suicida. Pensa alla figura di merda, morire per un colpo accidentale, che non sai dove ti prende, o in quanto tempo ti fa tirare le cuoia.

Sto a godermi ancora un po’ le luci della superstrada. Ci saranno brave persone che tornano alle loro famiglie, e una manica di pezzi di merda che renderebbero il mondo un posto migliore lasciandolo piuttosto che stare qua a consumare ossigeno, togliendolo a chi ne ha più bisogno. Punto la pistola a braccio teso, prendo la mira alle auto che rallentano all’imbocco dei cavalcavia, più facili da colpire, e faccio bang! a voce alta. Una, due, cinque volte. Occhio però, è un revolver. Deve restare un colpo. A questa distanza dubito riuscirei a colpire qualcosa.

Prurito. Qualcosa mi ha punto. Che fastidio passare gli ultimi istanti di vita a dovermi grattare. La pelle si gonfia sul braccio. Sono svanite le ultime luci dall’orizzonte e posso solo immaginare il rossore crescente della mia pelle molliccia. Sono diventato una sagoma in scala di grigi. Ho già i colori d’un necrologio ma sento il bollore del sangue tutt’intorno alla puntura. Almeno le zanzare sono oneste. Ti fanno sentire che ti hanno portato via qualcosa, ti lasciano irritato e pulsante d’un caldo fastidio. Le zecche sono stronze invece, ti succhiano fino a scoppiare, e ti lasciano i loro denti e zampe avvinghiati ad ammorbarti con febbre ed infezioni. La vita è una zecca che s’ingrassa succhiandoti via tutto quello che pensavi di fare, ti svuota a poco a poco, lasciandoti addosso la sete. Pungiglione calibro trentotto, come gli anni che speravi bastassero per arrivare a un qualche traguardo.

Però che fastidio morire così, con questo prurito addosso. Doveva essere un momento importante. Come si dice, insomma, è la prima volta che muoio, vorrei farlo con calma, senza dovermi grattare fino a sanguinare.

Il cellulare vibra. Nessuna chiamata. È la sveglia. Il tempo è già scaduto. Quarantacinque minuti dopo le nove. L’ora in cui sono nato trentotto anni fa. Mi sembrava giusto chiudere puntuale. Un ultimo sguardo. Un delirio di colori tutt’intorno, e chi l’avrebbe detto? Non ci sono più soltanto i fari rossi e bianchi. Si distinguono quelli a luce fredda o calda. E s’è acceso tutto un tripudio di insegne luminose, di centri commerciali, alberghi, benzinai. Luci blu, gialle, rosse e viola. Tanti germogli che spiccano sullo sterminato prato nero, e laggiù un quadrifoglio verde, la croce lampeggiante d’una farmacia. Magari è di servizio. Avranno qualcosa contro le punture di zanzara. Non credo di aver lasciato contanti nel portafogli, solo i documenti per l’identificazione. Ma a chi servono i soldi, se stringo in mano una pistola.

 

Fine.

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