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Stai leggendo: "Danni collaterali" di Quinto Moro

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Se ne stanno seduti fuori dal McDonald’s tranquilli e beati, come una banda di laureandi in libera uscita per scrollarsi di dosso le ragnatele accumulate curvi sui libri. Siedono ai tavoli esterni, nonostante il maestrale di settembre cominci a pungere spegnendo i bollori da maniche corte e bermuda. Da come ridono devono aver fatto il pieno in tutti i bar della zona. Ad ogni risata sussultano presi da violenti attacchi di singhiozzo. Due mi danno di spalle, solo uno sta di fronte, ma da qui non può vedermi neanche lui. Le loro figure si stagliano nere sullo sfondo della vetrata del McDrive, dove coppiette e famiglie ingurgitano patatine fritte in olio stantio e hamburger controfigure dei divi da copertina sui pannelli pubblicitari che troneggiano sul parcheggio, succulenti e ben cotti con foglie di verdura eternamente verde.

Sto indossando la giacca per la prima volta da giugno, avrei preferito il freddo si facesse attendere ancora qualche giorno, anche solo per una sera. Ho più freddo di quanto sarebbe naturale averne. Il vento mi sbatte in faccia sul sudore accumulato durante l’appostamento. Non avrei dovuto bere. Se non avessi bevuto però non sarei qui. E sentirei molto più freddo. Sento il caldo dentro e il freddo fuori. Il sudore spruzzato addosso dai fumi dell’alcool come deodorante scadente a odor di pesce fritto mi gela la pelle a contatto col vento. La maglietta zuppa diventa uno strado di lamiera ruvida, irrigidisce i muscoli e mi fa venire voglia di starnutire. Domani avrò la febbre, sicuro. Avrò una scusa almeno, un alibi con le gambe corte e storte, ma è meglio di niente.

Ho chiuso nel cassetto del comodino la patacca del distintivo, non li fanno neanche più di metallo: plastica dura Made In China. Nella prima partita che ci hanno distribuito la scritta Polizia era diventata Pulizia. È stata come una rivelazione. Un segno di Dio.

Non ho mai creduto in Dio. Mia moglie si. Ex moglie. Andava a messa tutte le domeniche. Pregava per me diceva, e cercava di convincermi ad andare con lei. Ha cercato di salvare la mia anima per anni. Non voleva nemmeno accettare il divorzio, convinta che quella stupida promessa fatta davanti al prete valesse come un giuramento solenne davanti a forze sovrannaturali offese dalla nostra incapacità di mantenerla. Com’è che si dice in questi casi? Ah, sì: stronzate. Non siamo nati per la monogamia. Siamo animali in fondo. Nonostante questo non l’ho mai tradita. Anche se non scopavamo più da due anni. Su cinque anni di matrimonio, due di astinenza dall’orgasmo parrebbero troppi a chiunque. Io non ci pensavo. Non le ho chiesto il divorzio per questo. Arriva un momento in cui scopare non ha più lo stesso significato, nemmeno con la donna che ami. Sì, l’amavo ancora, ma di un amore indurito e distante. A lei sarebbe anche bastato, pure per tutta la vita come pensava andasse fatto, ma avrei solo prolungato la sua agonia. E la mia. Meglio divorziare adesso, prima d’essere ferito o ammazzato in servizio, prima di diventare per lei uno di quei ricordi belli e idealizzati. Meglio farla soffrire e liberarla. Ho dovuto darle uno schiaffo per convincerla. Non le avevo mai messo le mani addosso. Non è stata l’ira. Una decisione lucida. Non avrebbe accettato il divorzio altrimenti. L’ho spaventata. L’ho guardata come volessi ucciderla. Una finzione calcolata, ma ha funzionato. Lei ha pianto, con gli occhi pieni di disperazione e sgomento. Io ho pianto di più quel giorno, come un bambino, giù nel parcheggio, nell’auto di pattuglia. La divisa mi stava stretta, me la sentivo sporca. Non ho più visto mia moglie fino all’udienza del divorzio, e sembrava avermi perdonato tutto. Mi guardava come un cane bastonato, sperando ancora di salvare tutto. Quando il giudice le ha chiesto se voleva divorziare ha esitato. Io no.

Strano mi venga in mente adesso. Ci penso sempre quando cambia il tempo. Quando sento freddo, o quando dimentico di chiamare il tizio che consegna le bombole del gas a domicilio e devo scaldarmi le mani sul fornello elettrico.

Dovrei restare concentrato. Ma c’è tempo. Gli stronzi continueranno a ingurgitare patatine per venti minuti buoni. Non si muovono mai prima delle undici. Per quell’ora il McDonald’s comincerà a svuotarsi, spero. Li seguirò mischiandomi alle altre macchine. Loro lo fanno sempre. Non vanno mai via da soli. È questo il loro talento. Mischiarsi tra la folla, come gente comune. Il fatto è che ci vivono in mezzo senza che la gente comune se ne accorga. Li salutano come si salutano vicino cordiali di cui in fondo non si sa nulla. Finché una pattuglia non si ferma sotto casa. Finché non c’è la perquisa o l’arresto è tutto normale. Cadono dalle nuvole, i vicini onesti. Magari sputano dal balcone per centrare il berretto del collega che sta sul marciapiede a tenere sott’occhio la zona, nel caso arrivino altri guai.

Mi ha sempre fatto rabbia che noialtri siamo gli ultimi a sapere, e gli unici che volendo agire non posso farlo. Gli altri cascano dalle nuvole, o fanno finta di niente. Ma lo sanno che sono spacciatori, magnaccia, ladri e assassini. A nessuno importa. Farsi i cazzi propri è la filosofia di vita nel raggio di duecento chilometri. Un raggio che disegna il cerchio nero di questo buco cui manca un sifone per essere un cesso decente, ché tutta la merda torna a galla e nessuno vuol prendersi la briga di scaricarla, e chi tira lo sciacquone si vede ricoperto di merda da capo a piedi. Ma basta tapparsi il naso, comprarsi una boccetta di profumo da due soldi ed impregnarci tutti i vestiti, per aggiungere tanfo al tanfo. Nel nostro reparto, è la prima cosa che impari: esagerare col dopobarba, col profumo. Gli scapoli costretti a lavarsi la divisa da soli la inzuppano nell’ammorbidente, tanto che certi giorni in caserma sembra di stare in tintoria.

 

Occhio. Iniziano a muoversi. In anticipo. Si separano. No, così non va. Dovevo prenderli tutti insieme. È proprio il Bue che se ne va. Se prendo lui la banda se la cava, e sapranno di non essere più al sicuro. Spariranno per un mese o più. E se prendo loro il pezz’e novanta sparisce per altri cinque anni, latitante fra i palazzoni del quartiere in cui è cresciuto, dove nessuno l’ha visto ma tutti lo salutano.

Il fucile è leggero mentre lo sfilo dalla sacca di canapa del supermercato. Mia moglie le usava per la spesa. Riutilizzabile e solida. Eco friendly. La sua idea di ecologia per salvare il mondo. Il fucile era di mio padre. Andava a caccia lui, io non ho mai voluto. È abbastanza ridicolo per un poliziotto non avere altre armi oltre quella d’ordinanza. Avrei dovuto comprare una pistola quando potevo, o qualcosa di meglio di questo catorcio. L’unica volta che l’ho provato inceppava una volta su tre. Mai risparmiare sulle cartucce, ma lo stipendio è quel che è. Ora ha così tanto olio dentro e fuori che ho paura mi schizzi via dalle mani, piombando sulla testa dei cattivi in una scena alla Willy il Coyote, coi bastardi che si accorgono di me dietro ai cespugli e mi crivellano allegramente.

Per poter nascondere il fucile ho dovuto segare la canna e il calcio. Pure questo è reato. Il solo fatto che me ne stia qui è passibile di così tante denunce da farmi venire il mal di testa. Poco importa che sia un appostamento a farabutti che hanno compiuto scempiaggini fin da quando hanno messo un po’ di pelo sui baffi: sto qui, fuori servizio con un’arma modificata per renderla occultabile, pronto a far fuoco davanti a un fast food pieno di gente. Ho più chance di finire in galera io di questi farabutti.

 

Il Bue se ne sta andando. Fa l’elastico tra il parcheggio e la banda che ancora chiacchiera con lui a voce alta. La vetrata sullo sfondo è tutto un agitarsi d’inservienti che puliscono tavoli e raccolgono vassoi di plastica, ragazzini e ragazzine soffocano tra pancarré e spremuta di manzo in salsa di pomodoro e zucchero.

Ho tanto freddo. Stringo il fucile per sentire le mani più salde col solo risultato di tremare più forte. Stringo il calcio e per poco non tiro il grilletto mentre la bocca della canna mi sta ancora sotto il mento. Che morte stupida sarebbe. “Poliziotto fuori servizio si suicida in un’area di sosta. Criminali di passaggio gli pisciano sulla testa aperta in due.” Segue foto con un’aureola in un disegno tricolore, rosso scuro, materia grigia, giallo paglierino di piscia d’infame.

Basta cazzeggiare, il Bue è già alla macchina e con la chiavetta antifurto fa lampeggiare le quattro frecce. Esco dalle siepi, pronto ad aprire l’impermeabile con un fottuto guardone, non per tirar fuori il cazzo ma un ben più grosso e rigido fucile a canna mozza. Il pezz’e merda se ne accorge e lo vedo portare la mano dietro la schiena, di certo andrà in giro con un ferro carico. Troppo tardi.

Il fucile s’impenna al cielo e quasi mi spezza il polso nel rinculo. Il Bue si piega all’indietro, la sua pancia tonda come un pallone aerostatico sembra gonfiarsi nell’ultimo respiro per poi afflosciarsi. Non avevo mai sparato a nessuno. Per un attimo mi sembra di sentire il puzzo delle frattaglie esplose come stelle filanti, un misto di pesce e coratella di maiale. Sto per vomitare quando le grida ai tavoloni anestetizzano i sensi e mi rimandano alle sagome confuse della banda: ci ha messo un secondo di troppo per accorgersi di tutto, ed io due di troppo per prenderli alla sprovvista.

Mentre scattano in piedi e le sedie schizzano all’indietro come scoregge di ferro e vimini, poi buttano giù i tavoli per nascondersi tipo sparatoria da poliziesco anni ’70. Hanno visto troppa tv. I tavolini sono di plastica e i pallettoni li trapassano come le dita di un bambino bucano un foglio da disegno. Esplodo tutti i colpi che avevo nel serbatoio. Nove colpi. Qualcuno ha provato a sparare ma i colpi sono schizzati imprecisi e troppo tardi. Ero esposto ma non mi hanno colpito. Quando mi avvicino due di loro respirano ancora. Ne riconosco uno, forse è il nipote di un boss morto in galera settimana scorsa. Tutti questi pezzi di merda hanno parenti più o meno importanti. Che io li ammazzi o meno tenteranno le loro rappresaglie in ogni caso. Tanto vale fare piazza pulita. È per questo che sono venuto.

Ho la tasca gonfia di cartucce di scorta. Non pensavo di riuscire ad usarle tutte, sono stato fortunato. Carico il fucile con calma, il serbatoio si riempie con un ticchettio ritmato e dolce. Finisco il lavoro. Nessuno passerà per vittima in un tribunale. Non spacceranno altra droga per le strade, non uccideranno altra gente, non travieranno altri ragazzini. La mafia non si sradica a colpi di fucile. Già domani mattina ci saranno altri come loro pronti a prendere il loro posto, altri che non aspettavano che l’occasione di mostrare il loro valore per le strade di questa città agonizzante. Ma non saranno loro a farlo. Almeno questo. Non loro. Non ho risolto niente, questo lo so. Poi sento le urla. La vetrata del McDonald’s è sfondata, la gente grida, mani si agitano da sotto i tavolini, alcuni bianche, altre rosse. Mi avvicino e spingo la testa attraverso uno dei buchi nel vetro. Ci sono dei feriti. La gente mi guarda implorante, chiedono pietà, chiamano aiuto.

“Tutto a posto” dico, “polizia” ma la cosa non sembra tranquillizzarli.

 

Le sirene ci mettono un’infinità prima di far sentire i loro guaiti lontani. Arriva prima l’ambulanza, poi i miei cosiddetti colleghi. Non li conosco. Sono due ragazzini, dal comando di un altro quartiere. Mi puntano le pistole addosso. Ho ancora il fucile in mano, me ne rendo conto solo ora, lo lascio cadere e quelli mi si avventano contro investendomi col puzzo della loro paura. Sono carne da macello, appena entrati in servizio, forse convinti che la divisa sia una mistica corazza antiproiettile, o l’alternativa ad un’aureola che possa renderti onorevole. Un modo per distinguersi. Un segno di diversità dai criminali. Se vivranno abbastanza impareranno il contrario.

Solo quando scattano le manette mi rendo conto dei feriti dentro al fast food. Sono quattro, e due morti. Non mi tornano i conti. Ne ho ammazzati di più, sono cinque proprio lì tra i tavoli, più il Bue steso nel parcheggio a venti metri. Ma non parlano dei delinquenti. Sanno già chi è civile e chi no. Sono arrivate altre pattuglie nel frattempo. Sembra la vigilia di Natale con tutti i lampeggianti arancioni e blu. Nessuno è grato del regalo fatto alla comunità. Sei delinquenti morti, uno era praticamente un boss. Precedenti per spaccio, rapina, aggressione ed estorsione. Quattro latitanti, due sotto processo. Niente di tutto questo importerà, non più delle vittime civili: due. Due miseri morti. I delinquenti che ho ucciso avrebbero fatto più vittime già entro il fine settimana. Ma non è così che funziona la giustizia, o così dicono. I tg e i giornali non parleranno di tutte le prove e i dossier raccolti negli ultimi anni, solo qualche buffone d’estrema destra che proverà a guadagnare un pugno di voti difendendo il mio operato. Da qui a sei mesi ci saranno le elezioni, e col processo a mio carico avranno modo di organizzare qualche lercia raccolta firme per lo sbirro che ha fatto ciò che i giudici cattivi non erano mai riusciti a fare. E vorrò essere morto.

 

Al processo non riesco a rispondere coerentemente alle domande. Mi contraddico due o tre volte. Nessuno di questi stronzi, il giudice né il pubblico ministero hanno mai fatto un servizio di pattuglia. Non si sono mai ritrovati in una sparatoria. Le loro domande suonano stupide e alla fine smetto di rispondere.

Vengo condannato a venticinque anni di carcere. I famigliari delle vittime fanno causa allo Stato e alla polizia per uno sproposito. Non otterranno niente, lo Stato non può darsi la zappa ai piedi, anche se c’è chi accusa me d’averlo fatto. Mi metteranno coi delinquenti comuni.

Mi danno una camera singola. Non riesco a chiamarla cella di isolamento. Una guardia che m’ha preso in simpatia riesce a procurarmi tutti i giornali che parlano di me. Poi la storia si sgonfia. S’era già sgonfiata alla sentenza di primo grado.

Ogni tanto qualche guardia mi chiede di quella notte. Sono una specie di celebrità del carcere, odiato dai detenuti, ammirato da molte guardie. Non tutte. Quando mi chiedono se ho qualche rimpianto dico di no. Quando mi chiedono cosa si provi ad uccidere dei delinquenti, dico che non si prova nessun sollievo. Quando mi chiedono cosa si prova a uccidere dei civili, dico che erano solo danni collaterali.

 

Fine.

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