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Stai leggendo: "Non è importante" di Quinto Moro

Balliamo?

Ivan alzò lo sguardo dal boccale di birra. Intento a scrutarne il fondo non aveva sentito la richiesta. Una mano invisibile nascosta a ridosso delle vertebre cervicali s’era tesa in un abracadabra da marionettista consumato, tirandogli la testa all’indietro al momento opportuno. Quella mano doveva avere orecchie più buone, più attente delle sue. Le sopracciglia, le palpebre e i bulbi oculari, aperti verso l’alto a quel comando, schiavi dello stesso groviglio di fili organici e inorganici partito dal compatto ammasso delle sue spalle contratte. Gli occhi avevano visto le labbra di Miriam pronunciare la richiesta muta, senza suono, come sottotitolo nella scena di un film. C’era uno sfasamento temporale tra la domanda e le labbra, o la domanda era stata ripetuta una seconda volta. Era possibile. Ed era possibile che non l’avesse udita in ogni caso.

Le dita di Ivan stringevano il boccale, umidiccio per la condensa. Papille gustative che non dovevano trovarsi lì, a metà dell’esofago, sbloccarono il ricordo infantile di un retrogusto amaro, terroso, bruciato della cura ricostituente contro il rachitismo. Non aveva mai amato il gusto della birra e si chiese se l’eterna repulsione per quell’ambrosia schiumante non venisse da quel dimenticato disgusto.

Miriam lo guardava con occhi ammaestrati a mascherare disinteresse e noia, resi disobbedienti all’esercizio dagli effetti del suo Cuba libre annacquato in troppo ghiaccio. Il corpo di lei era impaziente di muoversi e scaricare sui tacchi le tensioni del giorno. Una bambina resa adulta solo dalla data su un documento di plastica, che batte i piedi per mascherare nel ballo i suoi capricci. Non era l’unica. C’era già un’altra donna al centro della pista, che si dimenava davanti alla band.

Tutto, tutto in questa stanza è troppo grande per il nome che porta, pensò Ivan. La pista da ballo era uno spazio irregolare ricavato fra i troppi tavolini vuoti che alimentavano il senso di desolazione e fallimento della scintillante insegna al neon che gridava orgogliosamente “Pub”. Uno squallido bar con musica dal vivo appartenente – tanto il bar, quanto la musica dal vivo – a un’epoca morta e zombificata nei ricordi di una gioventù sfatta i cui sogni di sesso e notti brave scivolavano verso il più sensuale dolce far niente della pensione. La band era un trio di tastiera, batteria, chitarra e voce, rannicchiata sulla pedana rialzata troppo misera per esser chiamata palco. I membri della band sembravano usciti dalla ricostruzione di un pub anni ’80, un gruppo di cinquantenni asciutti il cui frontman avvolto nel gessato grigio sintetizzava le brutture degli altri due. Il ciuffo biondo del cantante cadeva sulla fronte come un riporto franato che non sembrava appartenere alle specie tricologiche conosciute. Occhi palesemente schiariti da lenti a contatto troppo azzurre per essere umane gli davano un aspetto alieno, vampiro da horror di serie b. L’unica cosa umana su quel volto plasticoso, tra un mento troppo rotondo e liscio che sembrava dipinto e un naso arricciato e rigido come una protesi, era il sudore copioso che imperlava la fronte e tagliava le guance a lato in due lacrime perfettamente allineate allo spigolo della mascella. Ivan si chiese se il cantante non stesse aspirando alla più miserabile incarnazione del Duca Bianco. Un nobile fallito il cui ducato è finito all’asta per il prestito mai ripagato di una Mercedes troppo costosa, come quella parcheggiata con troppa arroganza a cavallo del marciapiede d’angolo all’ingresso del pub.

Per quanto patetico nel ritratto della confezione, il trio di musicisti era concentrato e preso dall’interpretazione. Non avevano smesso di suonare un istante da quando Ivan e Miriam erano entrati nel locale. Il batterista aveva l’aria di qualcuno che picchia i piatti per non litigare col primo che lo guarda storto. Il tastierista compensava l’eccessiva motilità degli altri due in un immobilismo surreale, con le mani operose rese invisibili dall’inclinazione degli strumenti e dall’ancheggiare del frontman sul corto confine del palco. Passavano da un pezzo all’altro senza cambi di cadenza o virtuosismi in un’unica esecuzione di pezzi indistinti.

Ivan s’interrogò su quel che passava nella testa di ciascuno dei tre, o se per caso non avessero una mente collettiva intangibile sospesa tra qualche parte sul traliccio delle luci, che tirava i fili di tre pupazzi di carne mandando la musica da altoparlanti nascosti. Ed Ivan si chiese cosa c’era dentro la donna che si agitava davanti alla band, se troppo alcool o qualcos’altro, un animatrone rivestito di pelle umana. Il tintinnio veniva dal cinto a catena e dai vistosi bracciali, dagli ingranaggi e contrappesi che la facevano muovere o dalle monetine con cui era stata riempita? Come un salvadanaio, un jukeboxe, una bambola meccanica a cui era stata data troppa carica perché animasse una pista troppo vuota e troppo stretta. E si chiedeva, Ivan, cosa ci fosse nella testa di Miriam che lo fissava con aria interrogativa, se la domanda fosse ancora balliamo? o nel frattempo fosse cambiata. L’incontro era venuto da un invito privo di intenzione, Miriam gli aveva chiesto di uscire perché non aveva trovato di meglio, o perché era stata piantata in asso da un’amica o da qualcuno da cui si sarebbe fatta portare a letto volentieri, ché non s’era messa in ghingheri per Ivan. Visti dall’esterno la disparità d’abbigliamento ed intenzioni era evidente, nessuno li avrebbe scambiati per una coppia, o al massimo avrebbero scambiato lei per un’accompagnatrice e lui per il cliente pagante. Cosa che di fatto era, almeno per il conto del pub. L’idea lo divertì per un istante e lei sembrò leggergliela in faccia, spegnendo il suo sorriso già tiepido in un ultimo freddo bacio al bicchiere del Cuba libre consumato.

Nel locale non c’erano più di venti persone. Nessuno più rumoroso della band. La donna che si rendeva ridicola nella sua danza solitaria sembrava tenere lontano dalla pista chiunque avesse voglia di ballare. Sotto la finestra chiusa da tendaggi pesanti e logori stava un tavolino minuscolo con due sedie diverse da tutte le altre, dall’aria scomoda, occupate da una coppia sui venticinque anni: entrambi in ghingheri e ingioiellati, tatuati, con le facce impallidite dagli schermi dei rispettivi telefoni. Ivan ebbe un’immagine dei due impegnati in un porno meccanico a favor di pubblico, guardando negli occhi chiunque nella stanza tranne che il proprio partner prima di tornare a sedersi in posa plastica, ciascuno orgoglioso della nudità del corpo tatuato da postare insieme alla foto di un altro drink. C’era qualcosa di poco umano nel loro aspetto. A fissarli per un minuto poteva scorgere la deformazione sotto i vestiti firmati poco adatti ad un locale da due soldi come quello. Era nell’irregolarità degli arti e nel modo sgraziato con cui i vestiti li avvolgevano, concepiti per misure e forme corporee diverse. Ed era nei musi prominenti allungati a suggere i cocktail dalle cannucce, nelle dita rattrappite tra un cellulare e un bicchiere, nei centimetri di pelle scoperta, la bugia di un travestimento svogliato e proprio in questo magistrale a nascondere l’identità di scimmie depilate.

Ivan scorse sui volti camuffati un lampeggiare blu, udì una sirena avvicinarsi ed ebbe la visione di sbirri pederasti fare irruzione per incatenarlo e spingerlo dentro una camionetta, dove l’avrebbero poi denudato, depilato ed esposto in gabbia allo zoo in tempo per l’apertura delle nove l’indomani mattina. Una punizione per aver scoperto il segreto degli animali sostitutivi d’umanità nel grande progetto del governo per l’inversione zooligica, quello che avrebbe portato gli animali cresciuti in cattività fuori dagli zoo abbigliandoli da cittadini, e spogliato gli uomini e le donne di vestiti e dignità nelle gabbie. Si chiese se il processo non fosse ciclico, e se gli umani regrediti a bestie in cattività non potessero tornare in società, così come gli animali umanizzati e ribelli ricondotti alle gabbie. Si chiese se lui e Miriam, la band, il barista, la danzatrice sfatta e scoordinata, la coppia tatuata, non fossero già tutti passati nella macchina rieducatrice, tante volte da non esser più sicuri della loro origine umana o bestiale. E qual era la rieducazione? Quale parte del processo era importante? La schiavitù, la ribellione, o l’impersonazione umana traslata da prove autocelebrative per convincere il sistema d’esser diventati dei buoni umani ammaestrati a bere e ballare.

Ivan si grattò la testa. Guardandosi dal di fuori avrebbe visto una scimmia arrovellarsi sulla propria umanità o un uomo regredire allo stato primordiale per insoddisfazione di sé e del proprio parco giochi. La scelta poteva non essere tra l’una e l’altra cosa, poteva non essere una scelta. Le due cose non si escludevano a vicenda ed Ivan si ritrovò a sorridere. Miriam, stupita dal disgelo sul suo volto, gli sorrise a sua volta.

“Ne vuoi un altro?” le chiese Ivan, indicando il drink ridotto a rimasugli di ghiaccio sciolto.

“Si. Non ce n’era. Era tutto ghiaccio”

Il vecchio trucco dei baristi. Non cercano mai di farti ubriacare, vogliono di tenerti sobrio il più a lungo possibile per farti continuare a bere quarti di drink soffocati nel volume di troppo ghiaccio. Figli di puttana.

Il pub era così pidocchioso da non avere una cameriera che andasse in giro a restituire pulizia e pianura ai tavoli ridotti a skyline di bicchieri e bottiglie vuote tra colline innevate di tovaglioli di carta e fienili di noccioline smembrate. Il bancone del bar stava a non più di sei metri dal tavolino di Ivan e Miriam, con la distanza in passi raddoppiata dal dedalo di troppe sedie. Ivan lo raggiunse il barista inciampando. L’uomo aveva un volto caprino, occhi neri e assenti, il suo panciotto emanava odore di stalla. Il dorso peloso delle mani e le escrescenze corte e gialle davano alle dita l’aspetto di zoccoli da ungulato. Non solo scimmie dunque, pensò Ivan. Il barista si voltò di scatto verso la finestra chiusa, come un animale allarmato, e la fissò per l’eternità di tre secondi prima di dargli ascolto. Mentre il barista preparava il cocktail, Ivan si chiese se quell’aspetto caprino con una musica diversa in sottofondo avrebbe ottenuto un’aura più satanica. La fronte piatta e l’assenza di malignità nello sguardo, intriso di vacua rassegnazione, gli davano più l’aspetto di un agnello che di una volitiva bestia infernale. Avrebbe reagito se Ivan avesse cercato di spillargli sangue dal collo per un Bloody Mary?

Quando Ivan tornò al tavolino fece la conta delle espressioni sul volto di Miriam, tra l’imbarazzo di chi ha fissato troppo a lungo una band brutta da vedere, lo spazientito per la troppa attesa e la delusione per l’aspetto errato del proprio cocktail. Il bicchiere scintillava d’un rosso rubino. Ivan si voltò a cercare il barista che non era più al suo posto.

“Non avevi chiesto un Bloody Mary?” meglio fare il finto tonto. Lei scosse la testa, assaggiò e fece una smorfia.

“Non sa di Bloody Mary. È strano”

“Glielo riporto”

“Lascia stare, non è male” una lunga succhiata alla cannuccia, l’ombra di un sorriso “chissà cos’è, dopo glielo chiedo”

L’alcool in corpo stava facendo il suo lavoro. Le parole scorrevano inutili e rimbalzanti tra questo e quello, finché Miriam non scoppiò in una risata sguaiata e si zittì da sola per l’imbarazzo. La band continuava a suonare imperterrita. Ivan cominciava a distinguere gli odori di tutti gli avventori, catalogandoli mentalmente in base all’aroma e alla distanza a cui si trovavano. Miriam era entrata nel suo flusso infinito di confidenze non richieste, gli scaricava addosso racconti da mal di testa e frustrazioni personali, come aveva sempre fatto negli ultimi anni. Non erano mai andati a letto insieme. Se mai l’avessero fatto, sarebbe stata la prima e ultima volta. Miriam non era mai riuscita a tenersi un uomo. Ivan non era mai riuscito a tenersi una donna. Entrambi risultavano insopportabili a chiunque aspirasse a qualcosa di più che l’avventura di una notte o di un mese. Ridacchiarono della coppia di tatuati che erano passati dal farsi piedino sotto il tavolo a litigare e tornare a tuffarsi nei rispettivi cellulari lanciandosi occhiate d’odio di sottecchi. Ridacchiarono anche del frontman sudaticcio della band e dei suoi mocassini finché le rispettive menti tarlate da ricordi patetici e dilatate dall’ebbrezza rivangarono per la millesima volta episodi stantii dei rispettivi vent’anni e del liceo.

Una banda di scalmanati entrò già ubriaca con l’intento di infastidire le cameriere, e non trovandone uscirono dopo dieci minuti di chiasso, dieci minuti in cui il rossore cronico del batterista scuriva al magenta e il suo picchiare sui tasti sublimava un pestaggio ai maleducati.

All’una di notte, i quindici minuti di pausa della band precipitarono il locale in un silenzio di tomba. Il chiasso all’esterno faceva da rassicurante rumore di fondo. Il barista ricomparve con un cerotto sul collo, all’altezza della giugulare sinistra. Ivan non l’aveva notato in precedenza, immaginò l’uomo spillare il proprio sangue ed altri fluidi corporei colorire i cocktail.

All’una e mezza la sala era avvolta nel fumo che aveva ormai oscurato ogni cartello di divieto tabagista. Il tasso alcolico saliva come la densità degli avventori ora ammassati al centro della pista con bicchieri in mano. Un uomo solo davanti a una dozzina di boccali di birra allungava il collo in cerca di qualcosa o qualcuno, tendendo l’orecchio, ondeggiando la testa al ritmo delle canzoni: era l’unico che sembrasse gradire lo spettacolo dal vivo, se di vita era rimasta nella spugna bianca appesa al microfono ormai strizzata d’ogni liquido corporeo e raggrinzita di dieci anni.

Ivan e Miriam litigarono senza accorgersene. Uno dei due disse qualcosa che irritò l’altro. Interrogati, non avrebbero saputi rispondere sull’argomento di rottura. Dopo minuti di silenzio e sguardi reciproci evitati e dirottati sul bestiario del pub, Miriam riconobbe qualcuno dei suoi infiniti amici, qualcuno che nel giro di mezzora le avrebbe inflitto un vigoroso rapporto sessuale sui sedili posteriori dell’auto.

Quando Ivan passò dal banco a pagare c’era intorno al barista un odore di bruciato, l’aura satanica restituita alla sua figura caprina. L’odore seguì Ivan, bisognoso d’aria fresca, fuori dal pub e giù per il vicolo corto dodici passi, sino all’imbocco del viale immerso in un clima da quiete dopo la tempesta. Un lampeggìo azzurro guizzava nella gola scura tra gli edifici della strada, anneriti dall’incendio che aveva divorato la facciata del palazzo e una decina di automobili. Un manipolo di uomini avvolti in tute a strisce gialle ciondolavano senza urgenza sul sfondo inconsistente del quartiere, bipedi incrostazioni di luce attaccate sulla tela nera della notte raschiata dall’odore acre di cenere, di pneumatici e carne bruciata. Un focolare all’ultimo piano resisteva agli spruzzi dell’ultima manichetta impegnata nella sua pioggia artificiale. I paramedici chiudevano in sacchi neri resti carbonizzati che si sfaldavano nell’ultima vestizione. Le facce dei vigili del fuoco erano spente e pallide, quelle degli sbirri oscillavano tra la fissità assente del tedio e l’iroso piglio da sacra inquisizione, mossi al desiderio di accusare e incatenare chiunque fosse privo di uniforme e ustioni.

Uno sbirro aveva fermato una coppietta lungo la fila d’auto non intaccate dall’incendio, per un interrogatorio improvvisato. L’uomo in divisa, già alto di suo, guadagnava centimetri in cima al marciapiede, ed era facile immaginarlo a fissare la scollatura della ragazza, il cui vestito e i glutei sodi e sporgenti, resi traslucidi dal tessuto schiaffeggiato dai lampeggianti azzurri, erano gli stessi inconfondibili di Miriam. La mano che la palpeggiava impaziente era quella dell’amico che l’aveva accompagnata fuori dal pub. Dopo aver soddisfatto il suo feticismo di documenti e mammelle lo sbirro li congedò con un gesto di fastidio, seguendo l’ancheggiare di Miriam fino alla sua scomparsa nell’auto lucida e fresca di cera dell’accompagnatore. Il rombo del motore gorgogliò arrogante e uscì dal parcheggio per farsi inghiottire dalla notte, col tonfo sordo di un singulto.

Una camionetta dei vigili del fuoco sfiorò Ivan a bordo strada, stordito dall’impasto d’aria umida e fuliggine che si appiccicava a zigomi e guance, colando liquida in un invisibile intruglio, una crema di latte e cenere sulla sua pelle. Anche gli sbirri smobilitavano, nonostante l’aspetto devastato del viale non c’erano vibrazioni d’urgenza o di gravità. Tutto s’era già consumato. Le urla, le sirene, lo schianto dei vetri di finestre e auto esplosi per il calore, il crepitare di cemento martoriato sui balconi abusivi ridotti moncherini di ferro rosicchiato, tutto s’era svolto lontano dagli occhi e le orecchie di Ivan, degli avventori del pub, della città intera. Eppure le auto incendiate fumavano ancora, il metallo incrinato si lamentava a bassa voce, contraendosi al freddo ritrovato dell’aria spenta. Niente nastro bianco e rosso. Niente transenne. I lampeggianti delle ambulanze continuavano a tagliare l’aria, mettendo blu nelle superfici annerite e grigie. In cima al palazzo un pennacchio di luce si agitava oltre il cornicione ma le manichette antincendio avevano smesso di sbuffare.

Il quartiere era calmo, si poteva scorgere una testa alla finestra dall’altro lato della strada. Gli sbirri e i vigili del fuoco ciondolavano intenti nelle loro faccende senza guizzi. Le barelle coi corpi carbonizzati parcheggiavano a bordo strada mentre un paramedico si accendeva una sigaretta e confabulava col collega. Nessuno aveva fretta. I morti no di certo.

Ivan rimase finché glielo consentirono i polmoni. L’odore di bruciato l’aveva impregnato fin nel profondo. Le scorie dell’incendio, sospese nell’aria, gli avevano sudato addosso e i pori della sua pelle, le orecchie, la bocca, ogni orifizio aveva assorbito la sua dose. Rientrò intontito nel pub. La band suonava di nuovo. Cover di rock pop anni ’80 in arrangiamenti improponibili. Cominciava a sembrare una sessione di karaoke tra ubriachi, col cantante che tra un cambio d’intonazione e l’altro deformava volto e postura in una lotta tra personalità multiple e non tutte umane.

Ivan ordinò un drink chiedendosi se stesse spandendo odore di bruciato, se il barista o l’ubriacone al banco lo sentivano. A metà ingollata Ivan si trovò paralizzato a fissare il soffitto dal colore smunto che aveva dimenticato d’esser bianco. Era il bianco della carta di giornale, un bianco sabbia spento, opaco. Se lo immaginava annerire, il tetto aprirsi e vomitare sulla pista da ballo, sui tavolini e gli avventori, i resti delle abitazioni e delle vite bruciate in un tripudio di cenere e carbone. Rimasugli di tavoli e sedie ridotti a tizzoni umidicci e fumanti, di elettrodomestici ridotti a colate di plastica. Cassetti con interi guardaroba ridotti a pagliuzze e stracci raggrinziti. Una frana di casalinghi mangiati dal fuoco. Mucchietti d’ossa di animali domestici mescolate a quelle dei padroni, con occasionali cascate di frattaglie cristallizzate di nero fuori e ancora umide nel cuore. Carne di stomaci e cuori. Pifferi di vertebre. Una rinfusa di scarti giù per il condotto dell’immondizia, a scivolare dritta su boccali semivuoti di birra e brutte imitazioni di cocktail caraibici per tramutarli in frappè d’immondizia e resti organici.

Ivan si domandò quanto fosse stato grave l’incendio. Aveva compromesso l’integrità strutturale del palazzo? Avrebbero tutti fatto la fine dei topi? Nessuno si era accorto di nulla. Neanche lui, se non avesse visto l’apocalisse all’esterno. Ivan non era neanche l’unico ad essere uscito e a vedere la facciata distrutta, le auto incenerite e le barelle adornate di sacchi per cadaveri. Quell’uomo sudaticcio con la smorfia del brillo divertito, non era uscito a fumare? Era stato prima o dopo l’incendio? Un minuto o un’ora prima? L’aveva appiccato lui? E la coppia che sedeva accanto alla finestra, nonostante le tende, non avrebbe dovuto vedere e sentire il trambusto sulla via principale? Uno scoppio, un urlo nella notte, niente? Continuavano il loro gioco del silenzio, adocchiandosi a intervalli sfasati. Quelli al tavolo accanto giocherellavano con la ciotola dei salatini, con le cannucce dei cocktail. La tizia sfatta era tornata alla carica e ballava con rinnovato vigore, ormai sul punto di strusciare la testa sul pacco del cantante. Il cantante aveva l’aspetto di un condannato, strizzato d’ogni passione e fluido corporeo, la posa contorta a contenere una qualche impellente urgenza fisiologica, o uno sforzo per tenere insieme gli arti, le ossa, le viscere. Stava rannicchiato su se stesso come a trattenere un’impellente impulso di diarrea, e per non sciogliersi nei pantaloni a zampa d’elefante modulava un lunghissimo gorgheggio, un mugghiare da cane in preda a dolori di stomaco o solitudine inconsolabile. Quando il muggito finì il ritmo cambiò e venne un’altra canzone. Tutti continuavano a bere e chiacchierare sottovoce.

Ivan contò fino a dieci aspettando di vedere un segno aprirsi sul solaio. Una trave incrinata. Il calore trasmesso al ferro del cemento armato avrebbe dovuto dilatarlo e aprire crepe. Fissò un punto a caso tra le luci mal dislocate del soffitto e contò lentamente fino a cento. Arrivato a ottantadue ci fu un tenue sbalzo di tensione nei faretti. Qualcuno stava entrando nel locale, già brillo, per il bicchiere della staffa. Qualcun altro usciva.

“Forse sappiamo tutti quel che è successo” disse Ivan al fondo del suo bicchiere. “Lo sanno tutti, ma finché siamo qui dentro non è successo niente, e non è importante.”

Fine?

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