
Stai leggendo: "L'insonne" di Quinto Moro
Inizia con un risveglio. Tachicardia. Respiro veloce, allentato dall’oppressione dell’ansia. I polmoni sono spugne strizzate. Si dà la colpa all’incubo, all’acuta angoscia di un viso amico il cui mento prominente s’abbassa mentre il resto del cranio si piega all’indietro, come se un sioux volesse prendergli lo scalpo. La mandibola si allarga, l’elasticità della pelle ai lati della bocca giunge al punto di rottura, i filamenti si staccano, inumiditi e arrossati, scattando come elastici. Fra i brandelli di pelle sbocciano fiori bianchi d’osso, file di denti spinti in fuori da una lingua gonfia. Più giù, il gargarozzo si fa mantice, pulsa e pompa aria. Il respiro del metamorfo si sincronizza con quello dell’osservatore. L’io trasla venti centimetri in fuori per guardare il corpo in un misto di pietà e ira.
Sbuffi da locomotiva. Fischio da teiera. La scrollata di capo manda gli occhi a vedere che ne è stato del resto del corpo. Il respiro è ormai insostenibile, i polmoni saturi smettono d’incanalare ed espellere. L’epiglottide, sbirro adirato al via vai d’un ingorgo si mette in mezzo e blocca tutto. Di qui non si passa. Inizia l’apnea. Il panico cresce. Le costole s’incrinano con un suono di legno morbido che si piega e strappa lentamente, verso l’esterno, squarciando la camicia e la pelle.
Le ginocchia cedono, il tonfo alla schiena annuncia la caduta e l’impotenza. Più su, la sagoma ingigantita del volto d’un vecchio amico, canide, sorride con la comprensione di chi non ha mai smesso di osservare quell’agonia e ne conosce ogni putrido anfratto.
Impossibile chiudere gli occhi. Le palpebre sono rientrare nel cranio, stufe di far da scudo agli orrori del mondo. Senza più polmoni, col cuore appeso tra due costole scheggiate, frutto rubizzo e invitante alle fauci della bestia, l’angoscia della fine cala gelata sulle viscere esposte all’aria. L’odore di carne macellata si sparge, invitando la belva al banchetto. Solo allora la speranza della morte erompe fra i pensieri, da quella diga che fino all’ultimo sperava in un lieto fine, una fuga, un risveglio. Morire perché tutto finisca, mentre quel che un tempo era corpo e vita sparisce fra i denti del canide che vigila sospeso, un angelo sadico che fa compagnia e tortura. Non è dato sapere se voglia banchettare coi resti del cadavere, quando il cuore e i polmoni si saranno arresi, o se il dolore del suo morso, spezzando l’apnea, restituirà vita e pace. Solo quando la speranza si trasforma in resa, nel freddo delle membra macinate dal tremore, consapevole che la morte è venuta, ha visto e se n’è andata, solo lì, nella disperazione di eterna inedia, eterno dolore e sconfitta, giunge il risveglio.
La liberazione dai demoni del sonno, il sollievo per la fine di quel tormento e quella paura durano poco. Un’altra ansia bussa. Il respiro rallenta, il cuore no. L’oppressione alle membra si sparge per il corpo, dalle braccia indolenzite alle ginocchia molli. I muscoli cervicali sono ispessiti, ritorti, come lunghe e nodose dita di strega penetrate sottopelle i cui artigli grattano per guadagnare terreno verso il cervelletto. Lo stomaco sottosopra vorrebbe liberarsi ma non ha altro da espellere che succhi gastrici nudi e acidi.
L’orologio ha il volto arcigno delle due di notte. Il corpo si trascina per una selva interminabile di lenzuola che strangola respiro e movimenti, finché liberandosi dall’appiccicaticcio di sudore e stoffa, conduce il grosso del suo peso al bordo del letto, e assapora il tappeto con le piante dei piedi raggelati. Il sollievo è effimero. Ciondola verso il gabinetto, malfermo sui piedi come un neonato obeso sui trampoli. Gli echi dell’incubo mordono ancora le caviglie, mandano su per le gambe altri due respiri di paura. Oltre la finestra la calma notturna si prende gioco di tutte le angosce. L’acqua fresca non aiuta, non quanto dovrebbe.
La riluttanza s’impadronisce delle viscere in subbuglio. Il letto sembra pasta lievita, resa sporca e irregolare da impronte di uccelli unghiati. La stanza stessa è diventata ostile. Il patto di fiducia tra la fragilità del corpo e la sacralità del rifugio ormai infranto dall’aggressione degli incubi. L’io fatica a spazzar via i dettagli più truculenti del recente sonno. L’angoscia resta. Il guardiano spazzino di tutti i traumi ha fatto il suo dovere in fretta, troppo in fretta, rimuovendo il grosso degli orrore e lasciando le tracce del massacro, come un assassino fuggito sul più bello portandosi via il cadavere, senza il tempo di ripulire sangue e resti della mattanza.
Deve tentare. Scivola verso l’impasto di tessuto e sudori freddi. Il battito non ha rallentato e non è dato sapere se il formicolio venga da una torsione innaturale o da un’avvisaglia d’infarto. I sintomi sono tutti lì. Morire adesso, in quella stanza. L’orrore per la vita vissuta e non vissuta irrora ogni vasi sanguigno in una vampata calda, preludio d’altri sudori freddi. Ogni sbaglio e minuto sprecato. Ogni speranza tradita. Ogni desiderio irrealizzato. Il passato tramutato in un unico blocco indistinto. Niente di prezioso. I bei momenti smembrati, diluiti e persi nel mare di scorie come poche once d’oro in un mare di ferro vecchio, escrementi e ruggine. L’ombra ingombrante della morte non lascia distinguere nemmeno fra i rimpianti. Il rimpianto è solo uno, più grande della somma di tutti i rimpianti possibili: quel che non vedrà domani.
Il corpo reagisce più rapidamente dell’animo, si alza e passeggia su e giù per la stanza, va in cucina, beve un sorso d’acqua, una tisana, un antinfiammatorio. Medicine. La dispensa è ben fornita. Serviranno a qualcosa, se non al corpo allo spirito, lenito dall’effetto placebo. Per poco. L’effetto dura un’ora. Due giorni. La riga sotto la porta si schiarisce appena, la luce dell’alba entra in casa, rimbalza squarciando appena il buio. Il corpo ha sete. Il corpo ha fame. La nausea striscia dentro e fuori, lo trascina verso la dispensa. Fuori il cielo è grigio. Fuori tramonta. Fuori sorge ancora. Dentro è sempre notte. Ricomincia senz’aver conosciuto fine. L’ansia. Il respiro. Il cuore. L’infarto. Il corpo cede. La mente non c’è più. Sembra sonno. È immaginazione. Sogno lucido. Dormiveglia. Come l’altra notte e quella prima ancora. Il cuore rimbomba. Stanotte. Stanotte cederà all’ansia di sopravvivere senza che cambi nulla.
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