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Stai leggendo: "Nostalgia" di Quinto Moro

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Mi mancano, quegli anni. Gli anni del vigore infinito, dell’invincibilità dipinta sui contorni dei miei nomi. Gli anni dell’ispirazione. Dell’arroganza. Del fulgore perpetuo, che accecava tutto e tutti, compreso me. E i molti me, i noi moltiplicati dallo sguardo degli osservatori più disparati: una forma diversa per ogni spirito affine o contrario. C’erano quelli interessati. Quelli ansiosi e innamorati. Quelli ostili, a volte solo vigliacchi.

Alla fine è stato un bel viaggio, per quanto l’abbia passato ad osservare sempre lo stesso mondo, per tanto tempo che non basterebbero duemila vite degli uomini per raccontarlo. Né duemila vite di duemila uomini, donne e progenie delle loro progenie. Né quelle di tutti gli animali nati, cresciuti, cacciati, allevati, masticati e cacati su quello stesso mondo. Né la somma di ciascuno di quei frammenti di tempo nel tempo visto dai loro occhi liquacciosi. Nessuno potrebbe raccontarlo, il viaggio. Non nella sua interezza. Potendo unire tutti i punti delle stelle in un interminabile disegno, ciascuno racconterebbe una storia diversa. La sua. Con un tenue riflesso e scintille sparse di quelle altrui. Ma è anche questo il bello. Siamo luce che arranca per spiegarsi nella coscienza delle tenebre, dell’avvolgente ignoto, arrancando per crescere, espansi tenendo stretto il calore che custodiamo gelosi, ché senza, tutto sarebbe freddo e buio.

 

Da giovane non sapevo cosa volesse dire essere giovane. Semplicemente ero. Sono cresciuto scoprendo di giorno in giorno la grandezza di ciò ch’era possibile fare, trasformare, colorare, uccidere e far nascere.

Il bambino sa d’esser tale perché ha il paragone dei genitori. Si vede piccolo al cospetto di giganti venuti da epoche senza tempo. Essere bambini è venire al mondo senz’altra luce che quella di se stessi, senza sapere come o perché sia venuta quella luce che non può spiegarsi da sola, ed è massima gioia nell’ignoranza e crescente angoscia nell’incessante martellio delle domande, della scoperta e del divenire. Risplendono di nostalgia, i bambini.

 

Ho passato l’esistenza cavalcando quel tempo che nemmeno la vecchiezza di un’età infinita può spiegare. Non so spiegarla. Osservo e ascolto divertito chi ci prova. Non ch’io riponga speranze negli immensi e così deboli sforzi dei miei pulcini per penetrare il mistero. Né posso accettare questi o quegli inni che mi vengono rivolti, solo per il tornaconto di vedersi regalare un’eternità che non mi appartiene. Eppure dagli inni trovo di tanto in tanto un conforto simile a quello di chi, spossato e schiacciato dalle incombenze terrene, abbraccia il buio lasciandosi cullare dalle musiche lasciate in eredità da defunti uomini, defunte epoche e spazi lontani e diversi. Lo vedranno, questi cacciatori di eternità, d’avere intorno infiniti viaggi nel tempo che dell’eternità si fanno beffe.

Vorrebbero me eterno. Pure quegli scienziati e filosofi affannati a rinnegare l’esistenza del tempo, ch’è la sola cosa divina ch’io abbia conosciuto. Io che sono cresciuto nel tempo di un sogno continuo, in divenire perpetuo mentre le cose si scoprivano man mano che le facevo, le vedevo e le sentivo. La luce e il buio ed insieme i colori. Il caldo e il freddo. Poi gli odori intorno alle forme tutte, ripiene di quanto sembrava giusto metterci dentro. Il succedere e succedersi di casualità affastellate le une sulle altre, ricche d’incastri, versi e rime che mi sbalordivano mentre ne leggevo i versi, componendoli io stesso.

 

Ricordo la squisita novità dell’acqua, sfuggente e malleabile, squisita manifestazione della materia. Trasparente eppur visibile e densa, avida di colori da indossare. Vogliosa di carezze e farsi mescolare, specchiandosi al sole, salire al cielo e danzare lontana dalla pesantezza degli oceani. Poi su e giù dalla terra al cielo in forsennati amplessi a scavare fiumi e leccare spiagge. Pur stando così addentro le cose tutte ci volle tempo per misurarne l’estensione, e capire. Gli occhi giovani, egoisti, non si soffermano sul concatenarsi degli eventi incontrollabili, su quanto avviene fuori dal proprio controllo pur influenzato dall’esistenza. La propria, o quella altrui. Così ero io, come il bambino che poco sa di quanto gli accade intorno, eppure centro del suo stesso universo, convinto d’essere il motivo per cui le cose accadono. Come il bambino d’ogni specie vivente, frammento più piccolo replicato nella sfida d’esistere e replicarsi, animale o pianta. Coraggioso nella mischia della sopravvivenza, a divorare luce ed acqua, a crescere e cadere, nutrirsi per replicarsi nel tempo.

I cuccioli d’albero a germogliare, bruciandosi al gelo e al vento, seccati al sole, costretti a respirare per i loro padri antichi saldi al suolo, e cader giù per marcire a nutrirli di nuova linfa.

I germogli animali a rincorrersi nella danza macabra degli artigli, dei denti, del sangue e delle viscere ritorte a processare vite d’altri per far la propria. Chi fatto per durare e chi no. Nessuno eterno, perciò degno d’essere visto. Quant’ero degno io allora, nell’immortalità vera o fittizia attribuitami da salmodianti servi sinceri o infidi, d’esser visto da tutti?

Non per superbia rimasi invisibile.

 

Erano belli, i fiori, visti cogli occhi innamorati della gioventù. Gli insetti con le piante, le piante con la terra e la terra con l’acqua. Si rincorrevano nella risacca del tempo, giocando tra regole bizzarre e severe. Alleanze di simbiosi e battaglie di spine e veleni. E regole. Regole ovunque, prima d’imparare a leggerle e scriverle. Prima di dettarle a chi veniva dopo, a chi ti avrebbe dato la colpa di averle fatte.

È ingannevole, la divinità. Pretende dal basso un controllo che quassù non si trova. Il controllo di tutto e tutti, mentre qui non esiste nemmeno un sopra e un sotto. Non esiste un qui. Non è un posto, mentre tanti vorrebbero raggiungerlo e meritarselo. Ognun per sé lo immagina diverso, o come gliel’hanno descritto se d’immaginazione non ce n’è. Come l’assenza di immaginazione fosse virtù per raggiungerlo, il nessun dove.

 

L’umanità venerante e vogliosa d’obbedire e ribellarsi, emancipata e schiava delle divinità tutte mentre rinnega padre tempo. Ignora l’obbedienza che pure i divini ad esso devono, unico giudice che di prole in prole gratta via un po’ menzogna dalla grandezza degli antichi sino a punirli con l’oblio. Eterei o carnosi che siano.

L’umanità marcia, lenta, aspira all’eternità scaduta. Si trascina nella ripetizione dei giorni, come i bambini nella risacca dei giorni di scuola, prima di strisciar fuori dall’obbedienza dovuta ai genitori. Prima di scoprire che altro oltre scuola, famiglie, se stessi. Che non c’è fissa ragione né fisse risposte, e c’è tanto da scoprire nel poco che sembra alla superbia, all’apice della sua virtù.

 

Mi manca, il tempo della divinità prescelta indiscutibile e forte. Il divenire delle cose ignari di starle scrivendo noi stessi, illusi d’essere identità uniche e distinte. Serviva tempo per capire ch’eravamo tasselli nel mosaico delle regole. È stato difficile abbandonare l’infantile onnipotenza dell’immaginazione che ci legava con l’istinto le forze del mondo, la pianta all’animale, la preda al cacciatore, l’umano al divino.

Fu dapprima portentoso, triste e infine noioso vedere l’umanità ergersi dal rimestare di accuse e discolpe, cercando sempre altrove la spiegazione dell’errore e il merito della giustizia. Sentir raccontare delle mille divinità glorificate nei secoli dei secoli, alla disperata ricerca d’una voce unica per tutte le risposte, e trasmetterne la memoria al prezzo di fiumi di sangue. Fra preghiere e canti al cielo, santificazioni e condanne in una confusione di zucchero e letame raffinati d’epoca in epoca, tra opere d’arte e massacri.

 

Sono stanco. Sono invecchiato. I miei figli mi hanno invecchiato e smembrato in mille facce che non so più riconoscere. Dovrei rendere conto della mia esistenza, della mia età, di ciò che ho fatto e non ho fatto. Ché i miei figli non furon fatti a mia immagine e somiglianza, ma io cosiddetto padre, dipinto entro i contorni della loro superbia, della loro arroganza e violenza, di ciò che volevano rendessi giusto per loro.

Dell’infanzia celeste e della meraviglia lì custodita non dispongo più, come il bimbo invecchiato cieco all’antica magia dei giocattoli, dell’ignota magia in ogni cosa spogliata dalle biblioteche di risposte infuse da mille voci e mille vite.

Tutto ciò che non ho spiegato per superbia, pigrizia o ignoranza, va spiegandosi nel frammento di mille voci, per studio o invenzione, e l’una per l’altra non sembra importante. Il mio silenzio ha riempito le bocche di prediche per mio conto, con le voci moltiplicate a ridisegnare passato e futuro come gli pare e piace. Questo si patisce a passare l’eternità nel sonno della ragione infantile. Vengono a disegnarti addosso il mondo a modo loro, con la spietata arroganza di lo fa in tuo nome e per bene supremo.

Il padre è diventato figlio minore. Il creatore s’è fatto creatura, animaletto da compagnia, filastrocca ciancicata da bocche traboccanti reflussi acidi, di sensi di colpa e malumori. Tanto resta al creatore che nulla creò, invischiato nella nostalgia di cose solo immaginate. Mentre le mie colpe si ingrandiscono sulla bocca degli scontenti, la realtà si ingrandisce nei miliardi di anime che mi si aggrappano come uncini alle guance, trasformando l’antico sorriso in una smorfia grottesca e triste. Non ho altre parole per rispondere sopra ciò che mai dissi eppur si fece legge sulle labbra e i cuori di troppe generazioni.

La scienza chiede conto di più sofisticate leggi, di nuove specie e nuovi mondi oltre il solo sguardo che per me fu scritto. Ed io solo questo mondo conosco. Perciò muoio. Di nostalgia per la giovinezza onnipotente, per la spietatezza esercitata fuori dal senso di colpa per la coscienza del bene e del male.

Muoio bambino negli occhi e invecchiato nel cuore, nel racconto del tempo dell’eternità cui non potrò chieder conto per gli anni passati. A scontare colpe sconosciute. Si può morire di dimenticanza. Si può di metamorfosi, tramutati in quel che non ci somiglia senza più il potere di cambiare volto o maschera. A chi importa il testamento di un dio se ciascuno rivendica per sé quel tanto d’immortalità che basti a soddisfare il breve schizzo di vita che gli tocca, in un mondo che non appartiene ad altro che al presente.

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