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Stai leggendo: "L'autista" di Quinto Moro

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Capitolo 1

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L’una passata. L’asfalto ribolliva. I clacson erano impazziti all’ennesimo tilt del semaforo. Stridio di pneumatici. Urla. Insulti tra un finestrino e l’altro, e da un guidatore a un venditore ambulante o un giocoliere. I tilt erano ghiotte occasioni per gli ambulanti di prolungare la speranza di vendere un pacchetto di fazzolettini in più agli automobilisti in coda, sudati e furibondi. E per quei ragazzotti senz’arte né parte, al di là dell’abilità circense di far roteare bastoncini di legno in quegli spettacolini della durata esatta tra un segnale verde e l’altro, la possibilità di raccattare qualche spicciolo extra.

Salvo osservava la scena stordito, impalato sotto il semaforo pedonale che strillava il suo segnale acustico. Aveva i capelli appiccicaticci sul collo e ai lati della fronte, come riccioli di un ebreo ortodosso. La barba era lucente di sebo e sudore. Non se l’era lavata quel mattino. Non aveva avuto tempo. Il suo sudore sbuffava dal colletto della camicia bianca, le braccia come mantici per le ascelle pezzate. La giacca aperta sulla pancetta rigonfia sparava in fuori i bottoni, ancora qualche chilo e non sarebbe più riuscito a vedersi l’uccello. La cinta dei pantaloni scivolava presso l’inguine e sulla vescica che premeva per essere liberata. Non avrebbe dovuto bere quella birra a metà mattina, ma già ne desiderava un’altra, bionda e fresca, come quella sedicenne dall’altro lato del semaforo.

La valigetta pesava nella mano destra. Eppure era leggera. Dentro c’erano solo cartacce e una mela sballottata da una settimana, messa lì da sua moglie con quella fissa del mangiar sano e tenersi in forma. Cosa pretendeva di più da lui? S’era trovato quel lavoro solo per farla contenta, ché non si poteva campare di rendita coi soldi del babbo. Salvo sapeva che il suo lavoro era del tutto irrilevante per l’azienda, il grosso della fatica era presentarsi in orario la mattina ed affrontare il rientro a casa nel lerciume del mezzogiorno.

Guardandosi intorno, Salvo odiava tutto. Odiava i passanti, quei ragazzini buoni a nulla con le cuffiette e gli zainetti a spalla, quei vecchi rincoglioniti che ci mettevano una vita ad attraversare la strada, quelle vecchiette coi capelli corti vaporosi e tinti che puzzavano come capre inzuppate di profumo da due soldi. Odiava i vigili che se ne stavano fermi all’angolo della piazza senza far nulla, e poi il traffico e le auto vecchie di trent’anni. Perché quei pezzenti non ne compravano di nuove? Avrebbero aiutato l’economia almeno. Lui cambiava l’auto tutti gli anni, anche due volte l’anno. I soldi non gli mancavano, almeno fintanto che la banca continuava a prestarli, e gli piaceva mantenere una certa immagine presso i colleghi. Un giorno sarebbe diventato caporeparto di qualcosa, su questo non aveva dubbi, poi avrebbe fatto domanda di pensione, benché non avesse ancora cinquant’anni, un modo l’avrebbe trovato. Certo, a quel punto non avrebbe più cambiato l’auto tanto spesso, anzi non avrebbe più dovuto guidare, ma sfoggiare un’auto nuova era sempre una soddisfazione benché l’attrattiva sessuale delle grosse auto non sortivano gli effetti sperati sulle sedicenni.

Salvo attraversò l’ingresso della stazione dei treni, poi nuovamente la strada, in modo goffo. Senza semafori e strisce aveva sempre difficoltà. Doveva passare ancora dalla piazza antistante alla stazione degli autobus prima di raggiungere il parcheggio. C’era una gran folla, più gonfia e rumorosa di quanto non fosse di solito in quell’ora di punta. Era il tipo di folla che poteva crearsi per una disgrazia, qualcuno investito da un’auto o colto da un infarto attraversando la strada. Difficile aggirarla a meno di tornare indietro, attraversare sul lato opposto della piazza e passare dal porto. Troppo lunga, ed era curioso di vedere e sapere cosa fosse successo. Senza contare che gli studenti pendolari stavano riversandosi ora presso la stazione, con un nutrito campionario di giovincelle dai culi sodi e tette straripanti cui avrebbe potuto strusciarsi nella calca. Con l’avambraccio alzato a fendere la folla l’avrebbe strusciato qua e là, chiedendo permesso con tono duro, sguardo alto e severo di chi ha fretta e non si struscia apposta sulle tette di passaggio. Mostrarsi determinato e impegnato al costo di sembrar rude ma non malizioso. E con la valigetta avrebbe potuto impigliarsi tra un paio di gambe troppo larghe, incastrando la mano in qualche culetto sodo o almeno facendo sentire la durezza della valigetta e suscitare un brivido.

Salvo s’infilò nella massa umana provando a raggiungere il centro dei curiosi, ma più si addentrava e più sembrava che nessuno guardasse un punto preciso. Circondato e compresso in quel blob di carne e vestiti appiccicaticci si arrese a chiedere cosa fosse accaduto.

“C’è lo sciopero degli autisti” disse uno sbarbatello.

“E ti pareva” disse Salvo d’istinto, col tono complice di chi queste cose mastica tutti i giorni.

Un signore mezzo pelato, dai lineamenti marcati e il mento volitivo, gli diede un’occhiata e annuì gravemente: “sempre la stessa storia”

“E adesso come si fa?” fece Salvo, appena diventato uno di loro. Lo irritava essere stato attirato da qualcosa di tanto banale, si aspettava qualcosa di ben più drammatico. Non era nemmeno riuscito a palpare un bel culetto, c’erano troppe vecchie e troppi uomini, studentelli e studentesse se n’erano rimasti in sparuti gruppetti sui marciapiedi della piazza più indietro. Addentrarsi nella folla era stato abbastanza facile, tornare indietro sembrava invece un’impresa. Non ci si poteva muovere all’indietro, difficile girarsi e trovare uno spiraglio, come nuotare controcorrente in un carnaio.

“Converrà prendere il treno?” disse sperando che quella massa di idioti rinsavisse, cominciando a sparpagliarsi per raggiungere la stazione dei treni dall’altra parte della strada e liberandolo dallo stallo.

“Eh facile” fece un altro vecchio, meno orgoglioso e composto nell’aspetto e nella parlata “per chi gli passa il treno vicino a casa. A me non mi passa vicino a casa, e come faccio? Devo fermarmi a un altro paese e chiamare qualcuno per farmi venire a prendere?”

“Che poi coi treni non si sa neanche dove si finisce” proseguì una signora “o quando si arriva”

“Eh quando c’era la Buonanima” riprese il vecchio trasandato “allora i treni arrivavano in orario”

“Ci può contare” disse Salvo senza pensare.

“Ma per che cos’è questo sciopero?” chiese la signora rivolta a due ragazzini, come se loro dovessero saperlo più degli anzianotti intorno. Quelli fecero spallucce.

“Lo so io signora” disse Salvo col tono di chi la sa lunga “che non hanno voglia di lavorare ecco perché”

Intorno si alzarono mugugni di approvazione. La signora alzò le sopracciglia ed annuì con fare rassegnato, con l’imbarazzo della mamma con un figlio fannullone. Salvo passò oltre, spingendo e chiedendo permesso senza bisogno di fingere gravità e irritazione. Era ormai a pochi metri dai cancelli, e vide che la gente si accalcava tutta verso un unico ingresso. Il cancello era chiuso per metà.

“Ma li vogliamo aprire questi cancelli?” gridò Salvo. Come avesse appena detto qualcosa d’incredibile, si generò un cono di silenzio nel raggio di qualche metro, quelle teste ipnotizzate dall’oscurità dell’androne principale si volsero con le loro facce stupite, poi qualcuno riprese il grido. Partirono urla da più parti perché si aprisse l’anta chiusa del cancello, e vedendo che nulla si risolveva, Salvo gridò che chi era più vicino l’aprisse. Altri gli fecero eco finché qualche coraggioso trovò il modo di aprire. Ci fu un gorgoglio simile a quello d’un tubo intasato, come un rutto di massa e uno sbuffo mentre la pressione dei corpi inghiottiva nell’androne la fiumana. Salvo s’era messo in testa che sarebbe stato più facile uscire dalla stazione che dalla folla, e una volta dentro cominciò a sbattere contro le persone invasate che si ammassavano presso le banchine oltre le sale d’aspetto. Incrociò un dipendente della stazione, con una camicia sgualcita e la barbetta incolta. Era basso e tarchiato e blaterava maledicendo chiunque avesse aperto il cancello, impugnando il suo anello magico tintinnante di chiavi.

“E’ inutile che entrate, i pullman oggi non partono!”

“Cosa deve fare la gente?” gli gridò dietro Salvo “restare tutta ammucchiata?”

“Ecco, bravo” disse qualcuno di passaggio.

“C’è un sacco di gente anziana” incalzò “se poi qualcuno si sente male con chi dobbiamo prendercela, con lei?”

Il funzionario si fece piccolo piccolo, e partito con l’intento di richiudere i cancelli s’era presto arenato, come avesse finito benzina e volontà.

La folla si riversava sulle banchine, come in ogni sciopero c’era la speranza che qualche buon cristiano avesse scelto di astenersi. Tra una banchina e l’altra si lanciavano occhiate torve, pronte a maledire i fortunati d’una simile grazia.

Salvo, rinfrancato dall’ombra della sala d’attesa interna, aveva ceduto alla tentazione di sedere qualche minuto tra le panchine, lasciando asciugare un po’ di sudore. Un gruppetto autisti – o forse semplici inservienti – se ne stavano con le braccia conserte ed accigliati, borbottando tra loro in una lenta chiacchierata, con lunghi silenzi a seguire ogni frasetta e monosillabo dei colleghi. Salvo li osservò a lungo, sembravano proprio dei pezzenti svogliati e quando si alzò fu sul punto di lanciargli qualche frase piccata, ma li ignorò e imboccò l’uscita presso le banchine.

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