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Stai leggendo: "Braccato" di Quinto Moro

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parte IV

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24 gennaio 19xx

Ho sempre ripudiato la violenza. Feci il diavolo a quattro per saltare la leva militare, digiunando fino a ritrovarmi pallido e ciondolante tanto da essere giudicato inadatto. Mi ricoverarono addirittura! Mio padre avrebbe detto che era vigliaccheria. Mia madre che era carità cristiana. È solo che non sopportavo l’idea di sottostare agli ordini di rozzi muli da soma il cui giudizio è regolato dalla gerarchia piuttosto che dal buonsenso. Da allora non ho più riguadagnato peso e ho convissuto con quel tipo di fame che tocca alle menti impegnate, quando le ore di studio si prolungano ignorando ogni appetito a sud del cervello. Certo negli ultimi anni mi sono lasciato andare, imboccando la china che mi avrebbe trasformato in un vecchio professore grasso come quelli che ho sempre disprezzato, ma il mio concetto di grasso e magro differisce da quello degli altri uomini, così come il concetto di fame, e certamente quello di paura dopo questa grigia avventura. Che ancora non è finita, ma è un passo più vicina alla conclusione.

Il mio nemico mi ha raggiunto alla fine, e stavolta non si è limitato a bussare, raschiando sulla porta come un cane rabbioso. L’ho sentito vociare nel cortile, insieme con le voci dei miei anziani ospiti, poverini, ancora chiusi nella loro stanza. Porterò loro da mangiare più tardi.

Quel bastardo ha cercato di buttar giù la porta ma non c’è riuscito. L’avevo sbarrata con tavoli e sedie ammucchiati, ed ora scrivo sul pavimento, accanto al corpo del mio nemico: fuori uno! Non è morto, respira ancora. Li fanno robusti questi schifosi, nonostante sia lo smilzo. Ma l’ho fermato per ora. Rimangono quattro colpi nella pistola. Nella confusione non so quanti ne ho sparati. Lui si è intrufolato dalla finestra, l’ho accolto puntandogli il fucile del vecchio e con che furia s’è avventato contro di me! Me l’ha strappato in un istante ma avevo previsto la sua furia, e che subito si sarebbe avventato sull’arma. Ho lottato con scarsa convinzione e ho lasciato l’impugnasse prima di godermi lo sgomento sul suo volto al mio grido: “è scarico!” Allor ho estratto la pistola ed ho sparato, ho sparato ancora e ancora. E non andava giù! Come se incassato il colpo dovesse digerirlo nelle sue putride budella, e dalla bocca spalancata ho temuto potesse risputarmi addosso i proiettili, come un invincibile demonio-macchina. Poi si è irrigidito, ed è cascato come un sasso, inanimato e pesante fantoccio d’acciaio. L’esultanza mi si è strozzata in gola perché nei sensi acuiti dalla tensione ho visto e sentito il suo respiro. Il petto saliva e scendeva, piano ma inesorabile. Volevo scaricargli addosso gli ultimi colpi ma ho avuto paura. Ho paura ad infierire sul corpo. Ho come il terrore che se sparassi ancora, il botto lo risveglierebbe da questo sonno temporaneo, e sarebbe la fine. Ho trovato una mannaia nella cucina dei miei anziani ospiti. Medito di mozzargli la testa. Quale altro modo per avere la certezza definitiva della sua morte? Le pistole sono armi così rozze. Non che la mannaia lo sia di più, ma è di certo più precisa e netta. Non avendo mai sparato prima, mi chiedo se colpendo allo stesso modo un comune mortale l’avrei ucciso. Ho visto uomini mutilati nel corpo e nell’animo dalle ferite di guerra, cerebrolesi sopravvissuti a proiettili e schegge di granata conficcati nel cranio. E se soldati addestrati non riuscivano ad uccidere uomini in tal modo, e se uomini a cui erano stati amputati gli arti ed asportate le viscere potevano sopravvivere alle granate, mi ritengo già fortunato da aver stordito questo mostro con una modesta rivoltella.

Ho ancora paura – quante sfumature di paura si riescono a provare! Mai mi sarei aspettato una tale varietà in un sentimento così a lungo sopito nella placida vita da accademico, lontana da ogni rischio che non fosse quello di tagliarsi col vetro rotto di un alambicco, o ustionarmi con qualche acido. Ho paura di fare ciò che dovrei, staccare l’orrida testa dal corpo mastodontico. Se anche dopo questo dovesse ancora vivere, la pazzia mi travolgerebbe. Avrei la certezza che tutte le basi scientifiche del mio sapere sono venute meno. O forse raggiungerei un più alto stato di coscienza. È noto che un cervello umano continui ad essere lucido per una manciata di secondi dopo la morte, così come esistono animali che privati della testa continuano a muoversi. Sono ansioso di tutto tranne scoprire gli orridi talenti di quest’essere. Che manna sarebbe per uno studio antropologico. O zoologico. Preti e cardinali venderebbero i loro calici d’oro per impossessarsi della bestia da incatenare ed esorcizzare, non prima di averla messa in mostra sull’altare della cattedrale più capiente, additando l’essere come prova dell’esistenza dei demoni e, di rimando, del loro dio. Le litanie salirebbero alte, ad assordare i pensieri e sovrastare le voci di tutti gli uomini di scienza, i cui infiniti studi finirebbero zittiti da un pretesto o l’altro, in attesa di tempi più laici e vicini alla ragione. Se venisse accertata la natura demoniaca dell’essere, mille anni di scienza finirebbero bruciati in piazza. Se pure la fisiologia fosse umana, la sua deformità resterebbe un sozzo esempio di corruzione dell’anima trasfigurata sulla carne. Pure tra i miei ormai ex colleghi vi sarebbero disaccordi e liti, a tutto vantaggio del disfacimento della ragione. Avessi incontrato quest’orrore in gioventù l’entusiasmo avrebbe cancellato ogni dubbio. Avrei scritto saggi, affilato i coltelli con la smania d’uno sbarbatello alle autopsie didattiche. Gli avrei infilato tante sonde quanti sono stati i sussulti di paura nei giorni da braccato. Avrebbe sanguinato più copiosamente di quanto faccia ora dai buchi degli spari. Se è capace di soffrire, avrebbe sofferto come nessuna cavia nella storia della medicina, e dal torace aperto avrei guardato il cuore pulsare all’impazzata prima di fermarsi del tutto.

Non ho più tanto entusiasmo e tanta pazienza. Questa cosa va distrutta, ancor più che uccisa. Vorrei provare a dargli fuoco, ma prima ci vuole quel gesto netto e meccanico, la separazione tra la testa e il corpo, tra la vita e la morte. Ed esito, perché nella tasca del suo soprabito ho trovato un messaggio indirizzato a un certo Dottor K. Devo accettare l’evidenza che a scriverlo sia stato il demone, in una grafia nervosa ma piuttosto ordinata per le sue tozze mani – portentose per grandezza e vello.

Il messaggio sembra voler rassicurare K. che io sia sopravvissuto al fiume, e reca poche indicazioni sulla zona in cui intendeva cercarmi. E dove poi mi ha trovato. Peggio per te stavolta, bastardo.

 

La rivelazione di un mandante umano (?) dietro la persecuzione di queste creature getta nuove ombre sui miei pensieri già ottenebrati. Ho provato a contare mentalmente i miei colleghi esimi, e quelli abietti. Non mi viene in mente nessun K. Dottore in cosa poi? Un proverbiale scienziato pazzo? Un occultista? Quale uomo si circonderebbe di mostri simili, sempre che non li abbia creati lui stesso! Esperimenti sugli umani, incroci fra scherzi della natura, o peggio evocazioni da quel substrato di realtà invisibile agli occhi. Anche se vorrei ridere di tali paranoie non posso che sentirmi chiudere gola e stomaco, oppresso dallo stato di spugna troppo imbevuta del mio cervello che fatica ad accettare il tutto. Vorrei strizzar fuori scetticismo e dogmi per lasciar spazio al dubbio che entra con stilettate violente, e mi ferisce con l’evidenza. Il volto pallido di quest’essere racconta un’orribile storia, come se K. l’avesse scarnificato, aprendo la faccia in cerca di nuovi accessi al cervello, o se avesse lavorato su deformità preesistenti nel vano tentativo di dargli l’aspetto di un uomo.

Devo attenermi alle realtà essenziali. C’è almeno un’altra creatura là fuori che mi dà la caccia. Sulla busta del messaggio c’è l’indirizzo del Dottor K. Raggiungendolo potrei metter fine a questa storia. O forse dovrei spedire il messaggio del demone. Guai se sospettando d’aver perso uno dei suoi sgherri, il dottore volesse mandarne di più. Sì, spedirò il messaggio e aspetterò gli eventi. Conquistare questa baracca in mezzo al nulla è stata una buona scelta. Per la prima volta ho un vantaggio su di loro.

 

25 gennaio 19xx

 

Stamani ho raggiunto il paese più vicino grazie con la bicicletta del mio anziano ospite. Ieri notte il mio nemico giaceva ancora privo di sensi. Non sono riuscito a mozzargli la testa. Non ho nemmeno tentato. Mi sono limitato a trascinarlo nello sgabuzzino del sottoscala. Non ho mai faticato tanto in vita mia. Ha comunque la forma e il peso di un uomo adulto.

Ho chiuso sigillato il tutto con assi e chiodi presi nel capanno esterno, dove ho trovato la bicicletta ed altri oggetti che potranno tornarmi utili: cartucce per il fucile, un’accetta e una roncola, oltre ovviamente al martello. Ho preso in prestito un po’ di denaro dai miei ospiti, insieme a un bel cappotto, un berretto e vestiti puliti.

Ho spedito il messaggio del demone al Dottor K. pur dopo tante esitazioni, passeggiando per le strade del paesello dove mi sono concesso il lusso di un buon pranzo presso una ristorantino modesto ma dal cibo delizioso. Non ho mangiato molto ma ho assaggiato un po’ d’ogni pietanza.

La passeggiata in bicicletta ha avuto uno straordinario effetto terapeutico. Nonostante la fatica il tempo clemente mi ha restituito vigore, e un pizzico di quella spensieratezza che non sentivo da ragazzo. Sono partito la mattina presto dopo aver passato la notte sul pavimento, accucciato con la schiena contro la porticina dello sgabuzzino. Mi sono addormentato accarezzando la pistola e contando, al posto delle proverbiali pecorelle, gli spari sul corpo dei miei nemici.

Pedalare accompagnato dai primi raggi del sole mi ha scaldato nelle membra e nel cuore. Ho dimenticato tutto per buona parte del viaggio. Dopo pranzo mi sono informato sulle strade e le ferrovie del circondario. Ho acquistato due taniche di cherosene e sono tornato qui. Le assi sono ancora inchiodate alla porta dello sgabuzzino e non sento lamenti, a parte quelli degli anziani chiusi di sopra. Dovevo portargli da mangiare ieri notte ma mi sono scordato. Lo farò stanotte, mentre dormono, per evitare che cerchino di uscire quando aprirò la porta. Vorrei mandarli via, ma dubito di riuscire a convincerli. Se li minacciassi andrebbero alla polizia e non posso permetterlo, non finché il Dottor K. non sarà arrivato.

Saprò accoglierlo come merita, lui e il demone più corpulento. Ho trovato un baule pieno di vecchi vestiti, lenzuola e coperte, ne ho fatto delle strisce imbevute di cherosene e le ho passate tutt’intorno al perimetro della casa. Le ho infine coperte con fascine e assi. Ho raccolto qualche secchio di letame da un campo vicino e l’ho sparso intorno alla casa per coprire l’odore del cherosene. Aspetterò il dottore con la porta aperta, la pistola in una mano e il fucile – stavolta carico – nell’altra. In tasca i fiammiferi. Tanti fiammiferi.

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