Stai leggendo: "Com'era strana la mia faccia" di Quinto Moro
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1. L'elmo
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Questa storia, come molte, comincia in una notte buia e tempestosa. Un corpo disteso sull’asfalto avvolto in un giubbotto di pelle nera, pantaloni di jeans strappati sulle cosce e sulle ginocchia, stivaletti marroni e guanti color caffellatte. Quel corpo era il mio, e non avevo idea di come ci fossi arrivato.
La prima cosa che ricordo, oltre al duro dell’asfalto e il peso sulla schiena di chi sta schiacciato sotto il tallone di un gigante invisibile, è il freddo. Un gelo avvinghiante dal collo in giù sulla pelle madida, ad eccezione delle estremità del corpo insensibili: le dita dei piedi e delle mani che, insieme alla testa, erano le sole parti asciutte. La prima cosa che ho scorto nell’oscurità sono state le mie dita avvicinarsi al volto. Le sentivo aliene, come appartenenti a qualcun altro, ritrovando la connessione tra me e loro soltanto al tocco sulla visiera imperlata di pioggia. Indossavo un casco, e lo sentivo tanto stretto da non aver percezione d’altro che del suo peso. Quando ho cercato di rialzarmi, il peso dell’elmo mi ha tenuto la testa schiacciata a terra. Fronte pesante. Forze troppo scarse per vincere la gravità. Ho consumato tutte le energie per mettermi a sedere e sono rimasto là non so quanto, col culo in ammollo in una pozzanghera mentre i rigagnoli mi venivano incontro come tentacoli d’inchiostro viscido giù per la strada. Davanti a me un accenno di salita, sopra di me lampi appena accennati, lontanissimi. Il grosso del temporale sfogava la sua violenza ad alta quota in banchi di nubi torreggianti ad altezze vertiginose. La pioggia ticchettava sull’elmo come rumore bianco. I rivoli e le gocce prendevano forma, minuscoli, proiettati dalla visiera alla parte più interna del mio cranio in un frastaglio di bianco e nero, schiarendosi nel lume di due fari.
Due fari mi sono venuti incontro, giù dal pendio. Il grugnito d’un motore molto grosso o molto vecchio, già più alto del rumore della pioggia. Lo strillo sdegnato di un clacson, lo sgusciare sfuggente delle gomme sull’asfalto, un guizzo di luce alla mia destra e il rumore di uno schianto. Ero troppo stordito per fare qualcosa, sono rimasto lì a guardarmi intorno, a cercare di estrarre dalla notte contorni di qualcosa di familiare che non c’era. Niente lampioni. Niente traffico. Niente luci di città che potessi additare mentalmente chiedendomi se quella fosse casa. Poi altri fari, tondi e abbaglianti, bianchissimi, accompagnati da sfarfallii rossi e blu. Fari più cauti, che rallentavano incoraggiandomi a rimettermi in piedi, e come in una grande tregua dal caos anche la pioggia era cessata.
I lampeggianti rossi e blu, così come gli abbaglianti dell’automobile erano attenuati dalla visiera scura dell’elmo, un’unica grande lente da occhiali da sole. Ho sentito gli sportelli aprirsi e la voce di un uomo, più fredda della notte, chiedere cosa facessi in mezzo alla strada.
“Non lo so” ho risposto francamente. Il silenzio che ne seguì sapeva di disapprovazione e sospetto. Altre domande.
“Dov’è la tua motocicletta?” chiede una seconda voce.
“Quale motocicletta?” rispondo io.
“Non sei un motociclista? Hai avuto un incidente?”
“Non lo so”
“Ha con sé dei documenti, Sir?” la voce del primo uomo, più alta, più profonda, più severa. Non li potevo ancora vedere, intuivo appena le sagome spuntare da dietro gli sportelli aperti dell’automobile, abbagliato dai fari puntati su di me.
“Le dispiace togliersi il caso?”
“No” ho detto ancora, ma non ci sono riuscito.
“Si tolga il casco”
“Non riesco”
“Può mostrarmi i documenti?”
Passi pesanti, l’ampia sagoma di un uomo con la mano sul fianco destro si stagliava sui fari. Feci per tastarmi il petto e le tasche quando tutto precipitò.
“Fermo! Le mani in alto e bene in vista” urla uno.
“Mani dietro la testa!” urla l’altro.
“Mettiti in ginocchio!”
Stavano a quattro metri da me, tutti e due, uno con la pistola puntata al mio casco, l’altro col fucile, come fossi un pericolo pubblico, ma lo ero? Non sapevo come fossi finito lì, dove fosse la mia moto o se ne avessi mai avuta una. Non so cosa mi fece reagire a quel modo, abbassai semplicemente le braccia e dissi che non c’era bisogno di urlare. Uno di loro rispose con un urlo più forte, breve, assordante, scoppiato dalla bocca del suo ferro.
Mi ritrovai lungo disteso sull’asfalto. Dopo tutta la fatica fatta solo per mettermi a sedere. Ero contrariato, ma vivo. Li sentivo ancora parlare.
“L’hai preso?”
“In piena faccia”
“Sarà stato uno di quelli del camion?”
“E’ probabile, sarà caduto o l’avranno spinto giù, ha le ginocchia sbucciate”
“Ma perché il casco?”
“E che ne so?”
“Del corpo che ne facciamo?”
“Direi di spostarlo a bordo strada”
“Mandiamo una pattuglia a raccoglierlo?”
“Col cazzo. Non voglio dividere la taglia, né far sapere agli altri di questa strada. Se ce la giochiamo bene e il traffico diventa regolare ci faremo bei soldi. Questo sacco di merda può restare qui fino a domani”
“Non se lo mangeranno i coyote?”
“Gli lasciamo il casco, almeno la faccia resta intatta. Lo identificheremo poi”
“Quanto sarà lontano il camion?”
“Non molto. Gli stavamo addosso, e se vogliono passare il confine la strada è obbligata. Potrebbero aver scaricato questo qui per rallentarci, o per alleggerirsi. I tornanti sulla montagna non perdonano. Li raggiungeremo prima dell’alba vedrai. Ora dammi una mano, voglio levargli il giubbotto, sembra pelle vera”
Il tipo più grosso s’era piegato su un ginocchio con grande sforzo, la pistola ancora in una mano, e con l’altra allungava le dita sulla mia visiera. Non lo feci scientemente, scattai a sedere, con tanta veemenza da tirargli una testata dritta sul muso. Quello si rovesciò all’indietro come un sacco di patate. Il suo naso esploso mi aveva dipinto di rosso la visiera. Si premeva entrambe le mani sulla bocca e in naso. La pistola non era più nella sua mano, era nella mia. L’altro, quello col fucile, aveva già sparato. Lui mi ha mancato, io no. E mentre il collega si affannava a raccogliere il fucile, annaspando con le dita inviscidite da sangue e bava, non ho mancato neanche lui.
>>> continua