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Stai leggendo: "Com'era strana la mia faccia" di Quinto Moro

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4. Un mucchio di cadaveri e poi... com'era strana la mia faccia

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Manuel mi guarda come se fossi stato io a sparargli. Il tipo che gli ha sparato era quello a cavalcioni sulla cassone della jeep con la calibro 50, ma non gli ha sparato con la calibro 50 o Manuel non avrebbe mantenuto la sua forma da primate con quattro arti. Manuel è ferito, forse gravemente, ma vivo, mentre il mitragliere ora sta con la testa mezzo affondata nel terriccio ancora molle per la pioggia notturna. A schiacciarlo nella melma un altro cadavere, quello del nerboruto tatuato, che un minuto prima se ne stava tronfio a coccolarsi il fucile a tracolla manco fosse il suo uccello duro. Ora i due stavano avvinghiati in un bizzarro abbraccio di passione cadaverina, uno con la testa premuta contro il culo dell’altro come pagliacci imbranati in un numero da circo. Corpi obliqui, sghembi, gli arti ritorti e tinteggiati di fango e sangue. E Manuel guarda me come se fossi un mostro. Per la prima volta dal risveglio sull’asfalto ho avuto l’impressione che potesse vedere il mio volto sotto il casco.

Chi ci aveva teso l’imboscata ora stava riverso in pose più o meno bizzarre nel fango. Uno era ancora vivo. L’avevo colpito al collo e non al centro della faccia come con tutti gli altri. Due sul naso, tre in piena fronte, uno all’occhio destro, due al sinistro, uno tra i denti. Al tizio che rantolava addossato al corpo di un compagno avevo fatto una tracheotomia calibro 9. Ha cercato di dire qualcosa. Non ho capito. Una cosa tipo grogle-gofolog, poi è morto come gli altri. Come il nostro Nick.

Sofia si è avventata sulla ferita di Manuel con prontezza, ignorando il cadavere di Nick come se d’improvviso non le importasse più di lui. Le importava eccome, ma l’avrebbe fatto notare più tardi. Sofia era una donna pratica.

“Li hai uccisi tutti” ha detto la ragazza dagli occhi grandi e i capelli ricci, con più freddezza di quanto mi aspettassi. Anche lei sembrava una tipa piuttosto pratica. Eppure anche lei, come gli altri, sembrava spaventata da me.

La sparatoria è stata breve. I primi tre li ho centrati direttamente dall’interno della macchina, attraverso il parabrezza, ancora seduto. Manuel è stato rapido a far tuonare il fucile, la carica a pallettoni ha spolverato via la faccia di due gradassi sul lato destro, troppo tranquilli e sicuri di sé, con la schiena contro la camionetta e senza nemmeno i fucili in pugno.

Undici uomini a terra nello spazio di quattro secondi scarsi. Avevo fatto la cosa giusta per tutti, dagli sguardi sembrava fossi io il cattivo.

“Ora che si fa?” ho chiesto per spezzare la tensione del momento. Tutti si sono guardati intorno, spaventati all’idea di veder comparire un’altra pattuglia o chissà, un cecchino appostato sulla collina. Non c’era nessun altro, di questo ero sicuro.

“Ce ne andiamo di qui” ha detto Sofia tamponando il petto insanguinato di Manuel “dobbiamo medicarlo o morirà presto”

“Lasciatemi qui” ha detto Manuel.

“Chiudi quella cazzo di bocca” ha detto Sofia “e tu guida” ha ordinato alla ragazza dagli occhi grandi e i capelli ricci.

Il vecchio ha ordinato al ragazzino di raccogliere le armi della pattuglia, poi mi si è fatto vicino e mi ha teso la mano perché la stringessi.

“Sergio” si è presentato.

“Guy” ho risposto accettando la stretta. Sembrava l’unico veramente grato per quanto avevo fatto. Mi sono tastato il casco, ho sentito il thud! secco del calcio della pistola contro la visiera. Ho guardato Manuel e poi dagli occhi grandi e i capelli ricci e dicendomi che alla fine sì, sono un cecchino.

 

Da qui in poi i ricordi si sono fatti un po’ più confusi, come capita a un cervello scosso dal risveglio, lucidissimo e consapevole di sé mentre sogna, poi strangolato dalla nebbia che porta con sé la luce del mattino. Ora che mi sono specchiato e ho visto il mio volto, non ne so più tanto di prima. Mi chiedo però se sono in grado di sognare, e come so le cose che so. Ma la storia non è ancora finita. Cerco di rimettere insieme i pezzi di quanto accaduto dopo la sparatoria.

Dunque: il ragazzino era troppo lento e il vecchio si è affrettato a raccogliere pistole e fucili. A guardarli muoversi, il giovane e il vecchio sembravano spiriti imprigionati l’uno nel corpo dell’altro. Il ragazzino aveva come un tic al collo che faceva vibrare la testa, sembrava avere una molla al posto di vertebre e muscoli. Era pallido ma di un pallore strano, giallastro, gli occhi iniettati di sangue, le labbra rinsecchite, e sui pantaloni un alone umido.

Abbiamo messo il corpo di Nick nel bagagliaio e l’abbiamo coperto con le armi come fossero mazzi di fiori. Siamo ripartiti in silenzio. La ragazza dagli occhi grandi e i capelli ricci al volante, io sul sedile passeggero e in braccio a me il ragazzino, i suoi pantaloni bagnati inumidivano i miei ma il casco impediva all’odore di urina d’infastidirmi. Sofia stringeva Manuel come avrebbe stretto un bambino, tra le sue braccia l’uomo sembrava rimpicciolire. Tremava pallido. Le ossa emergevano dalla pelle tirata sul viso, sulle mani, sul costato, come se la perdita di liquidi tra sudore e sangue lo stesse prosciugando rapidamente.

Sofia ha indicato la strada. Ho sentito la sua voce alleggerirsi mentre leggeva i nomi sui cartelli stradali di luoghi che dovevano suonarle amici. Avevamo passato il confine ma non eravamo al sicuro. All’imbocco di una strada sterrata presso un complesso di recinti, cisterne d’acqua e mulini a vento ho sentito il suo cuore sobbalzare e salire di ritmo, mentre quello di Manuel rallentava di pari passo, come se i battiti dell’uno andassero a vantaggio dell’altra.

Siamo entrati in un capanno bianco sovrastato dal disegno sbiadito di un gallo dalla cresta seghettata, come fatta di tante scariche elettriche, un manifesto in stile manga sbiadito dal sole e stracciato dal tempo. Il sorriso piacione e i gli occhi sproporzionati facevano sembrare il gallo più un tossico in acido che una mascotte nata per ingozzare i bambini di pollo fritto e gadget di plastica Made in P.R.C.

Due uomini dalle facce identiche e i fisici opposti – uno secco e accartocciato su se stesso, l’altro grasso e piegato all’indietro per impedire al pancione di farlo rotolare avanti – ci hanno accolti con misto di diffidenza e affetto. Sofia ha sparso ordini e insulti qua e là. Il ferito Manuel è stato scaricato come un sacco di patate e sbattuto su una panca dove gli hanno tagliato i vestiti a colpi di forbici e ricucito le carni alla buona. Il tizio secco ha bucato a tutti le dita per fare un test del gruppo sanguigno e sono stato il vincitore della lotteria, collegato con tubi e pompe alle vene del cadaverico Manuel. Le domande sul casco sono arrivate mentre il mio sangue andava a ricolorire il volto del ferito.

“Devi mangiare qualcosa” ha detto il secco dopo avermi dissanguato.

Sofia ha spiegato la situazione. Sembrava sinceramente interessata ad aiutarmi o quantomeno a guardarmi negli occhi prima di stringermi la mano. Non sembrava più così spaventata da me, anzi s’era già informata su quali e quante armi ci fossero in loco qualora fossimo stati raggiunti dai guai. Mi avrebbe messo in mano qualunque arma adesso. Sofia era una donna pratica. Era un uomo pratico anche il tizio grasso che si è messo a studiare il mio elmo tastandolo con le sue dita grassocce, esploratrici abili da chiropratico.

Il blocco inferiore dell’elmo avvolgeva il mento fino al pomo d’Adamo ed insieme ad una robusta appendice cervicale ne rendeva impossibile l’estrazione. Non c’erano segni di viti né cerniere per la visiera. Il tipo grasso e il secco si sono messi a discutere sul fatto che avessero visto o meno altri caschi come quello, altri tizi vestiti come me che scorrazzavano a sud del confine in sella a delle motociclette. Il tizio grasso disse che avrebbe chiesto in giro e mi avrebbe aiutato a contattarli, se quella era la mia gang. Aveva un sorriso buono e tatuaggi da galeotto sulle braccia e sul viso. Sembrava uno di cui potersi fidare, a patto d’essergli amico.

Sofia e il vecchio Sergio seppellirono il corpo del defunto Nick sul retro del magazzino. Mentre il tipo grasso armato di scalpellino cercava un punto d’incrinatura nel mio casco, il secco spogliava il ragazzino giallognolo d’ittero svelandone le vistose cicatrici sul costato, a destra e a sinistra, per poi attaccarlo ad un groviglio di tubi e flebo. Benché fosse più morto che vivo, il ragazzino non smetteva di fissarmi, forse pensando che in fondo stavo peggio di lui, o per la curiosità di vedere finalmente la mia faccia prima che il veleno nel suo sangue l’uccidesse.

Le attenzioni intorno alla mia persona sembravano distogliere gli altri dalle rispettive perdite e disgrazie. La curiosità per la liberazione del mio cranio aveva raggiunto l’apice a pomeriggio inoltrato, quando le ombre si allungavano e i colori dentro il capannone si scaldavano d’arancio. Anche il ragazzino col fegato spappolato stava meglio, nonostante i tubi gli uscissero da sotto la maglietta per finire in una macchina che sembrava troppo sporca e vecchia per fare anche solo un caffè.

Il grasso e il secco mi hanno fatto stendere su una lastra di ferro e fissato l’elmo in una morsa meccanica da banco. Non sentivo stringere. Dopo due giri di manubrio l’involucro friniva pianissimo per la pressione delle ganasce. Ho sentito la voce di Sofia opporsi, dire che quella era proprio un’idea del cazzo e mi ha scaldato il cuore, sembrava tenere alla mia incolumità. La ragazza dagli occhi grandi e i capelli ricci mi teneva la mano. Sentivo per la prima volta il contatto pelle contro pelle, da che mi avevano tolto guanti e giacca per la trasfusione a Manuel, lui ormai dormiente e fuori pericolo.

Il tizio grasso e il tizio secco si consultavano su come migliorare la leva del manubrio, ormai giunto al limite della pressione. Mentre discutevano sulle mie chance di sopravvivenza alla fiamma ossidrica, la ragazza dagli occhi grandi e i capelli ricci cercava di scovare i miei occhi attraverso la visiera, e seguiva con le dita le linee appena visibili dell’elmo, sotto il mento. Così ha scovato con la punta dell’unghia il segno d’una linea impercettibile, forse una spaccatura o l’incavo di una giunzione, ha preso il bisturi ancora sporco del sangue di Manuel ed è riuscita ad incastrarlo nella fessura. Un tac mi è schioccato in testa. L’hanno sentito anche gli altri perché si sono precipitati ad allentare la stretta delle ganasce, poi hanno gioito per la breccia apertasi poco sotto il mento. A turno si sono litigati l’onore e l’onere di far leva con un piede di porco, affilato a colpi di smeriglio per l’occasione.

Ricordo d’aver sentito un rumore in lontananza, ammutolito d’improvviso. Ora so che non era un’allucinazione uditiva né qualcosa prodotta dall’elmo. Gli altri non l’hanno sentito, animati dalla momentanea euforia per svelare il mistero della mia faccia. Non si sono accorti dei passi felpati che ci circondavano. Ricordo l’ultimo sguardo al tipo grasso di cui non sapevo il nome, il volto trionfante curvo su di me mentre si accingeva a da dare il colpo di leva che avrebbe fatto saltare il sottomento, liberandomi dal casco. Ho visto il suo sangue coprirmi la visiera, ne ho sentito il calore bagnarmi il petto nudo.

Eravamo stati seguiti. Il commando doveva aver trovato i cadaveri che c’eravamo lasciati dietro al confine, loro amici o loro concorrenti. Non era importante. Sofia è stata la prima a rispondere al fuoco e la seconda a morire mentre proteggeva l’orfano e la ragazza dagli occhi grandi e i capelli ricci. Con la testa incastrata nella morsa non potevo far nulla per aiutarli.

Non hanno ucciso tutti. Solo quelli che s’erano allungati a prendere un’arma, solo quelli che rappresentavano una minaccia. Non il ferito Manuel sedato e accasciato sul lettino, non un adolescente attaccato al macchinario per dialisi epatica, né una ragazza dagli occhi grandi e i capelli ricci. Il grasso, il tipo secco e Sofia sono morti in un soffio.

Le ganasce ai lati della visiera mi impedivano di scorgere gli assalitori. Avevo sentito i passi, gli spari. Erano stati rapidi, precisi. Quando sono riuscito a torcermi per afferrare il manubrio e allentare la presa delle ganasce era troppo tardi. Vedevo tutto storto ma distinguevo le armi puntate contro di me. Tre semiautomatiche Heckler & Koch calibro 9x21. Dietro i loro mirini, tre visiere nere di tre caschi bianchi lucidi e senza scritte, col rigonfiamento sotto il mento a sigillo. Sotto quei caschi giubbotti di pelle nera, e più giù jeans e stivaletti marroni. Il tipo al centro si è avvicinato, la pistola puntata al mio petto, incerto sul da farsi. Con la canna ha fatto cenno perché togliessi il casco.

Mi faceva male il collo. Il piede di porco aveva fatto forzato la placca sottomento che ora mi  graffiava la pelle. Ho sfilato l’elmo a fatica, ancora molto stretto ai lati del cranio. I tre si sono scossi come per una frustata alla schiena. Quello che s’era fatto più vicino ha indietreggiato come alla vista d’un mostro, non abbastanza in fretta. Ho usato l’elmo come una mazza sulle braccia e l’ho disarmato. Vedevo tutto più chiaramente senza visiera. Ho afferrato la pistola prima che potesse cadere. La vista del mio volto gli aveva fatto perdere il sangue freddo e i loro corpi sforacchiati stavano già perdendo tutto il sangue caldo. Sei colpi. Due ciascuno. All’addome e al centro del torace. Avrei dovuto lasciarne in vita almeno uno, per avere risposte.

Fissavo quei tre tizi vestiti come me, con caschi uguali al mio ancora ben ficcati in testa. Eravamo identici a prima vista, eppure diversi. Io non avevo esitato. Alzando lo sguardo dai loro corpi, dopo essermi accertato che non respiravano e non si sarebbero più rialzati, ho incrociato gli occhi del ragazzino orfano. Uno sguardo atterrito, disgustato. Quando mi sono voltato per tendere la mano alla ragazza dagli occhi grandi e i capelli ricci, per dirle che andava tutto bene, che era salva e nessuno le avrebbe fatto del male, lei ha urlato in preda al terrore più cieco. Ho sentito le sue urla allontanarsi mentre correva via e poco dopo, più silente ma altrettanto scomposto, il ragazzino strisciava via dalla macchina che gli stava salvando la vita, lasciandosi dietro due tubicini che perdevano sangue. Restava Manuel, svegliato dalla sparatoria e dalle urla. Sofia gli aveva lasciato una pistola sotto il cuscino ed ora la puntava contro di me. Anche lui mi guardava con orrore.

“Che cosa sei?” chiedeva, ripetendolo. La mano gli tremava, teneva la pistola a fatica. Avrebbe potuto mancarmi se avesse sparato. No. Da quella distanza non serve essere un cecchino. Gli ho chiesto di metterla giù, lui non mi ha ascoltato. La mano continuava a tremare. Il grilletto pronto a scattare. Ho dovuto sparagli. Il mio colpo non sarebbe stato mortale, non su un uomo sano, ma lui aveva già perso troppo sangue. Eppure non l’ha ucciso il proiettile. L’ha ucciso la paura. Gli scatti di paura su un corpo che riapriva le ferite pur di allontanarsi da me. Il cuore impazzito che pompava fuori quel poco di vita che gli restava. Stava ributtando fuori tutto il sangue che gli avevo dato. Che spreco.

Guardandomi intorno c’era solo il riflesso sul lago rosso del pavimento insanguinato, troppo sporco, frastagliato e bugiardo per credergli. Ho raggiunto l’auto degli sbirri con cui eravamo arrivati sin lì, nascosta da un telo verde militare. Attraversando lo spiazzo tra il capanno e l’auto il sole calante era tiepido sul mio petto e freddo sul mio volto insensibile a quella luce, troppo forte senza l’attenuazione della visiera.

Mi sono seduto al posto di guida, aspettando di mettere a fuoco le mie mani sul volante, i contorni del cruscotto e dello specchietto.

Com’era strana la mia faccia. Com’era piatta la fronte segnata da righe di cromo e spilli di stagno. Com’erano frastagliati gli zigomi innestati di fili e relè. Com’era squadrato il grugno dissipatore di calore. E com’era verde la mia faccia, di silicio e rame, punteggiata di condensatori e transistor neri e azzurri. Nera di plastica e grigia d’alluminio e zinco.

 

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Fine?
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