Stai leggendo: "Com'era strana la mia faccia" di Quinto Moro
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3. Compagni di viaggio
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“Non ce la faremo” ha detto il vecchio a un certo punto, mentre guardava le cime delle montagne schiarirsi ad est.
Manuel ha fermato l’auto per dare il cambio a Nick. I due hanno discusso di nuovo, non ho colto i dettagli, ero distratto. Sofia mi ha detto di andare a fare in culo nei sedili di dietro, così le ho ceduto il posto sul sedile anteriore, accanto a Nick. Sul sedile posteriore, il ragazzino orfano si era addormentato tra le braccia della ragazza dagli occhi grandi e i capelli ricci, con la testa ben accoccolata nella scollatura di lei. Lei mi ha fatto una specie di sorriso, un sorriso di una specie strana a metà tra il curioso, l’imbarazzato e l’impaurito. Sembrava anche sul punto di dire qualcosa, forse chiedermi di togliere il casco, ma le sue labbra si sono schiuse e richiuse senza un suono. Lei ha preso un respiro, si è sistemata i capelli dietro l’orecchio, ha spinto un poco indietro il ragazzino che le stava smocciolando sul petto e ha guardato in avanti, nello spazio tra i sedili, lo sguardo all’orizzonte di chi non vuole guardarti in faccia.
“Non ti sei ancora levato quel cazzo di casco” ha detto Nick con la sua simpatia.
“Ma perché ci stiamo tirando dietro questo ritardato?” gli ha chiesto sofia, contagiata dalla simpatia di Nick.
“Perché è un cecchino” ha detto la ragazza dagli occhi grandi e i capelli ricci.
“E tu che ne sai?” le ha chiesto Sofia.
“L’ha detto Manuel”
“Se l’ha detto Manuel siamo a posto” ha detto Nick.
“Ha ammazzato lui gli sbirri”
“Gli ha sparato a bruciapelo” ha detto Nick “non serve un cecchino per far esplodere le teste di due stronzi a quella distanza. Ogni culo in più su questa macchina è una zavorra che dimezza le nostre chance di sopravvivenza. Passare il confine con una macchina degli sbirri… che idea del cazzo. Tanto valeva arrivarci su un cavallo dipinto di verde e una bella scritta Achtung! Illegale Einwanderer an Bord! O con indosso una giacchetta piena di luci natalizie come quel fottuto cavaliere elettrico.”
“Pensi che il GPS sia attivo?” ha chiesto Sofia.
“Certo che è attivo. Avremo una decina di starlink che ci puntano da quando siamo seduti”
“Potevate sempre andare a piedi” ha detto la ragazza dagli occhi grandi e i capelli ricci.
“Chiudi quella bocca troietta” ha detto Sofia.
Ho tirato un pugno al poggiatesta del sedile davanti a me, la testa di Sofia ha fatto un rimbalzo. Sofia si è arrabbiata molto e mi ha insultato in inglese, spagnolo, e forse qualche altra lingua. La ragazza dagli occhi grandi e i capelli ricci mi ha fatto un mezzo sorriso, avrei voluto potesse vedermi sorriderle di rimando sotto il casco.
Il viaggio è continuato in silenzio, accompagnato dalle ronfate del ragazzino e il rumore delle ruote sull’asfalto consumato, intervallato da dossi e buche e saltelli nei rappezzi di asfalto e cemento buttati alla bisogna sulla carreggiata.
Il colore del deserto è cambiato da grigio a pallido arancio, con rigagnoli e scie d’acqua che scappavano a sud della pianura, striati dalle lunghe scie d’ombra di cactus e cespugli. Le montagne all’orizzonte perfettamente bicolori tra i lati schiariti ad est e quelli anneriti ad ovest. Al crocevia tra le strade l’asfalto è scomparso. Abbiamo attraversato un vecchio casello sforacchiato di proiettili, i vetri in pezzi, la sbarra arrugginita ritorta all’indietro come un dito che grattasse il soffitto del gabbiotto. Nick ci ha spiegato che no, quello non era il confine ma una strada di servizio. Che non c’è più nemmeno mezzo miglio che non sia una proprietà di qualche gruppo finanziario del cazzo che investe in questo e in quello. Le terre del confine non costavano un cazzo, ha detto Nick, finché qualcuno le ha comprate tutte per miglia e miglia. Hanno privatizzato il confine. Lo Stato ha realizzato il suo sogno bagnato. La sicurezza privata di chi ha comprato i terreni ha fatto quello che il più ricco governo del mondo non era mai riuscito a fare. Solo che molte delle aziende operanti al confine sono fallite, o fatte fallire di proposito. Nick ha una dozzina di teorie in merito e lungo il viaggio ha tempo di raccontarcele tutte. Dice che lui conosce questa merda perché ha lavorato per questa e quell’azienda. Dice che fanno un sacco di porcherie nei capannoni al di qua e al di là del confine. Sofia si risente e gli dice di chiudere quella cazzo di bocca, di non dire altro perché non c’è da fidarsi di noi. Noi siamo io e la ragazza con gli occhi grandi e i capelli ricci, e il ragazzino che dorme. Ma soprattutto io.
Nick sta zitto per un po’, poi riprende perché è troppo nervoso per stare zitto e riprende a parlare del paesaggio. Lo fa alla lontana per non far arrabbiare Sofia. Parla dei cactus. Dice che da queste parti si crescono le piante grasse da cui si può estrarre il peyote. Poi torna a parlare delle strade, delle poche arterie interstatali che è possibile attraversare legalmente, ipersorvegliate, coi caselli trasformati in torrette bisquadre alte e coi cecchini dove passano solo i turisti. Niente di tutto questo ha fermato il traffico di disgraziati che pure quello è stato privatizzato. Si tratta con le guardie giurate senza assistenza sanitaria per un passaggio sicuro. Paghi il tuo futuro in cambio delle otturazioni dei denti della moglie cariata, della riabilitazione del figlio che si è rotto una gamba giocando a football. C’è chi ha cominciato a scambiare le mazzette con le assicurazioni d’oltreconfine, e il traffico turistico è diventato un traffico sanitario di zoppi e scoliotici, anemici e malati terminali che da un Paese ricco vanno a curarsi in un Paese di accattoni. Ogni stato fa il cazzo che vuole, dice Nick. Ogni impresa fa da sceriffo al suo miglio di muraglia. Ci sono castelli dell’orrore da qui al Nevada, palazzi prefabbricati dalle mura tanto alte quanto scivolano le fondamenta sottoterra, per bloccare i tunnel. Sofia oppone il silenzio delle mogli arrabbiate, ormai a rinunciato a far tacere il nostro autista.
Superato un complesso di capannoni in rovina – pollai dismessi, dice Nick – e un dedalo di cancelli a rete metallica più o meno bucata, più o meno rattoppata e più o meno arrugginita, scivoliamo in una depressione nel terreno che non sembra una vera strada. Ci sono grumi d’asfalto che paiono resti di qualcosa che si trovava più a monte. Le piogge, dice Sofia. Da quando qua piove come in Nicaragua, fiumi d’un giorno riscrivono le mappe con nuove strade depresse e colline alluvionali. Passata una di queste colline ci ritroviamo in bocca a due camionette della polizia di confine e una jeep addobbata con fari e mitragliatrice calibro 50. Nick fa finta che sia tutto a posto, che almeno uno di questi sbirri – che forse non sono nemmeno sbirri – forse lui lo conosce. Nei dieci secondi che passano dall’avvistamento allo stop dell’auto Nick dice più forse di quanti ne abbia mai sentiti tutti insieme. Gran parola il forse, divinatoria d’ogni incertezza della vita e della morte.
Sofia si slaccia la catenina di iuta e sfila dalla canottiera una bustina di plastica con documenti e soldi, la porge a Nick che scivola fuori con le mani alzate. Posso sentire il suo battito accelerato, il fiato sospeso e tutta la sua scorza di boria cadergli giù tra i rivoli di sudore freddo. Gli sparano prima che sia uscito del tutto dall’auto. La ragazza dagli occhi grandi e i capelli ricci caccia un urlo. Il ragazzino orfano si sveglia ma non emette un suono. Sofia è la più muta di tutti.
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>>> continua