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Stai leggendo: "Miasma" di Quinto Moro

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1.

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Impazzirò. La cucina è un casino. Pentole e padelle su tutto il pavimento. Nemmeno sapevo di averne così tante. Tante che non ho mai usato. È quello che fanno i parenti quando vai a vivere da solo, ti regalano piatti e padelle, specie le mamme e le nonne che pensano morirai di fame. Io ne avrò usate si e no due. Cucino sempre le stesse cose. Ma niente di quello che cucino ha quest’odore che infetta la mia casa e mi sta facendo impazzire.

Sono giorni che lo sento crescere e ora non ne posso più. È già successo in passato, ma mai un fetore di quest’intensità. Mi è capitato di lasciar marcire cipolle, teste d’aglio, frutta. Una volta una patata mi si è ridotta a una poltiglia liquida che ha appestato la cucina e l’interno della dispensa per giorni prima che capissi da dove veniva la puzza. Ci sono voluti altrettanti giorni per liberarmi di quell’odore. Una volta ho conservato il pane in frigorifero e il pesce nella credenza, e per due giorni sembrava di stare nel retro di una pescheria. La notte tenevo la finestra aperta e piccole luci si accendevano sul davanzale, occhi di gatti che cercavano di farsi strada fra buchi sulla zanzariera.

Col tempo sono diventato più attento. So riconoscere quegli odori in tempo e capisco se qualcosa sta andando a male. Sono diventato più attento e ordinato, anche se tutta la fatica per tenere la casa in ordine è andata a farsi fottere con questa puzza. Tutta la casa è sottosopra, perché la puzza non viene solo dalla cucina. Ho svuotato tutto. Nei mobili non c’è più niente. Ho pulito il frigorifero con l’aceto, aperto i vasetti di conserve e salamoia uno ad uno. Aperto ogni contenitore, ogni pacco di pasta. Ho gettato via una quantità vergognosa di cibo ancora buono. Ho smontato il divano, scuoiato i cuscini dalle fodere e buttati nella vasca da bagno.

È un odore mai sentito prima, anche se somiglia alle diverse gradazioni di marcio di cui ho fatto esperienza. Ricordo ancora la puzza di una merendina nascosta tra i cuscini quand’ero piccolo, quando stavo ingrassando come un porchetto e mia madre aveva messo sottochiave la dispensa. Da un compagno di classe – di un’altra classe, non della mia, ché le mamme chiacchierano – ero riuscito a procurarmi un bombolone alla marmellata di ciliegie, scambiato con pezzi di cancelleria e caramelle scambiate a loro volta. Stavo addentando il bombolone quando mia madre è rincasata, l’ho ficcato tra i cuscini e l’ho scordato finché la puzza non ha cominciato a spandersi per la cucina. Riuscii a dare la colpa a mia cugina, passata da noi un pomeriggio. Una stronza insopportabile, mia cugina, assai più grassa di me, benché più alta. Era una vera bulla, e visto che le nostre famiglie non si potevano soffrire – men che mai in quegli incontri estemporanei a casa degli uni o degli altri – mia madre non ebbe da indagare quando feci sfoggio delle mie più selvagge doti da pubblico ministero. Era stata lei, la stronza, la brufolona obesa, non io.

Ricordo anche una puzza peggiore, quando dimenticai un panino nello zaino dell’ultimo giorno di scuola – non gli avevo dato nemmeno un morso, chissà perché – e buttato lo zaino in fondo all’armadio non lo ripresi in mano fino a settembre. Tre mesi di caldo, decomposizione e muffa. La puzza non appestò i vestiti per merito della busta di plastica che avvolgeva il panino, e dello strato supplementare di cianfrusaglie che aveva coperto lo zaino, che una volta aperto sprigionò quello che all’epoca immaginavo fosse l’odore di una bestia morta. Mi sbagliavo. Notai la differenza tra quella e la puzza di una carcassa in decomposizione di lì a poco, quando mi affezionai a un gattino cieco, smagrito ed emaciato. Pensavo l’avrei salvato. Aveva gli occhi coperti da croste verdi, come se le palpebre fossero gusci di granchio. Il gattino sentiva i rumori e gli odori, così riuscivo a farlo mangiare, attirandolo con qualche fetta di prosciutto sottratta alle mie merende. Quando per due giorni non si fece vivo ne fui felice, pensavo d’averlo salvato. Forse s’era ripreso e, da buon randagio, era tornato alla sua vita. Poi la puzza del suo cadavere infestò il cortile. Era andato a morire dietro una pila di mattoni e la festa di vermi al banchetto del suo cadavere non fu mai più scioccante di quella puzza sentita da vicino. La vista del cadaverino rosicchiato dagli insetti sembrava moltiplicare la potenza del miasma. Quella puzza mi rimase nel naso per giorni, tanto da credere che non avrei sentito più nient’altro. Purtroppo o per fortuna, avevo solo iniziato ad esplorare gli orrori dell’olfatto.

Ma la puzza di bestia morta, per quanto impregnante sia, non è mai così soffocante. Non come ora, in questa casa. Somiglia a qualcos’altro. Come una nebbia sospesa, invisibile, che rimesta continuamente. Come qualcosa di vivo e pulsante che sta venendo fuori sul momento, trasudando da ogni dove. Ricorda un poco l’asfissia provata quando mio padre mi portò allo stadio a otto anni, e nell’intervallo dovetti stare in fila quindici minuti in un crescendo di piscia alla birra, per poi fronteggiare pisciatoi troppo alti per la mia altezza. Non avevo mai dovuto pisciare spingendo verso l’alto, e il pisciatoio sembrava uno sbavante mostro di Bomarzo pronto a staccarmi la testa.

Ma non è neanche questo. Non è il ritorno di fogna dalla fossa biologica. Tengo i tappi di lavandino e vasca sigillati ed ho tappezzato il gabinetto di deodoranti d’ogni sorta: fragranza alpina, lavanda, gelsomino, fragola. Non avrei mai immaginato esistesse il deodorante per cessi alla fragola. O alla menta. In un bagno di lusso in una casa di lusso, saprebbero farti venire l’acquolina in bocca. Voglia di frullati e drink. Di dolci e macedonie.

No. Non è ritorno di fogna.

La lavatrice lavora a pieno regime. Guardaroba estivo. Guardaroba invernale. Vecchie lenzuola. Vecchie magliette. Ieri ho gettato via metà dei miei vestiti. Si potrebbe dire che sono un accumulatore compulsivo ma non è vero. Detesto gettar via la roba solo perché è vecchia. Ci trovo sempre un secondo impiego. Le vecchie magliette si possono rindossare quando devi dipingere casa, o quando usi la candeggina. Le vecchie calze si possono tagliare in due, la parte elastica sulla caviglia può diventare un polsino per asciugare il sudore quando fai jogging. Puoi lucidare i cerchi dell’automobile con brandelli di vecchi jeans, ottimi per rimuovere gli aloni di gomma dagli interstizi dei bulloni e le fessure dei raggi.

Giù in strada si accumulano sacchi stracolmi di vecchi vestiti. Scatoloni di cianfrusaglie. Vecchie riviste. Nel cestino della spazzatura non c’è un grammo di immondizia. Tutto ciò che poteva assorbire o trattenere odori è stato lavato o gettato. Oppure lavato e poi gettato. Comincio a pensare che dovrei disfarmi di pentole, casseruole, tazze, bicchieri, posate, mestoli. Dovrei portare tutto ad un mercatino dell’usato e farci qualche soldo.

Ho anche pensato di passare una notte o due in un albergo, ma non posso e non voglio gettar via così i miei soldi. Considerata la smania da grandi pulizie, tra una settimana potrei trovarmi a ricomprare chissà cosa. E poi dovrei chiudere casa. Lasciare le finestre aperte e le persiane chiuse per lasciar svaporare è fuori discussione. Ci manca solo che topi o insetti attirati dalla puzza infestino la casa. Chiuderla del tutto poi non se ne parla. Meglio andare avanti con le ricerche e lo smantellamento, finché non avrò trovato e pulito l’origine del miasma.

Strappo l’imbottitura alle sedie, dico addio a quella gommapiuma lisa e farinosa. Poi tocca al divano. Dopo averlo eviscerato lo sbatto fuori dalla finestra, giù nel marciapiede col resto dell’immondizia. Era un divano letto. Il materasso interno non era mai stato usato, ma le imbottiture s’erano assottigliate e spargevano corpuscoli giallognoli.

Da quando ho iniziato a sentire la puzza tengo solo cibi confezionati a lunga scadenza. Manzo e tonno in scatola. Mais, anche se non lo digerisco. Ieri ho provato a cucinare un piatto di pasta al sugo, ma all’ebollizione mi sembrava di sentire la puzza esplodere da ogni singola bolla.

Quando sono pronto ad arrendermi e a lasciare la casa per una notte di pace in albergo una nuova furia mi monta dentro. Sono troppo testardo per mollare. Ci sono ancora le prese elettriche. Potrebbe trattarsi di gomma e plastica bruciata, qualcosa che non va nell’impianto elettrico. Calato il sole riallaccio la corrente e aggredisco i tubi di scarico. Quello sul lavandino della cucina ad esempio, era corroso e presto avrebbe cominciato a perdere. Ma la puzza non veniva neanche da lì.

Picchio col pugno sui muri di casa. Penso alle storie dei mafiosi che affogavano la gente nei piloni di cemento. Ai precedenti inquilini che potrebbero aver infilato pezzetti di cadaveri, umani o di animali, dietro le piastrelle del bagno, della cucina, o sotto il pavimento.

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