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Stai leggendo: "Nerezza 2" di Quinto Moro

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7. Epilogo

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Mi risvegliai in ospedale. Le braccia a semicerchio come per abbracciare un essere invisibile. Erano tenute insieme da fili che pendevano già da un traliccio di ferro. Braccia bianche e robuste come quelle del grande Jax di Mortal Kombat.

Rimasi così immobilizzato per almeno due settimane, facendo i miei bisogni su pappagalli e padelle di plastica, senza vedere altro che quelle mani davanti alla mia faccia. Non riuscivo nemmeno a vedere i cartoni animati sulla tv dall’altro lato della camera. Non avevo voglia di rispondere alle domande degli altri ospiti la cui faccia non riuscivo mai a vedere. Fantasticavo sul disegno zigrinato del gesso, immaginando trincee di guerra nei minuscoli solchi tra una benda gessata e l’altra, o solchi di reti da pesca che smembravano il mare bianco delle mie braccia. I grandi intorno a me si stupivano del mio silenzio, e dovettero prendermi per imbecille o vittima traumatizzata di chissà quali abusi, perché la storia che serpeggiava tra i corridoi, tra i pettegolezzi delle infermiere e dei miei stessi famigliari, li lasciava attoniti e poco convinti. Nessuno osò farmi domande dirette, solo un bambino, che odorava di alcool e uova strapazzate, s’era avvicinato tanto da mostrarmi la faccia e chiedere: “ma è vero che ti sei tagliato le mani?”

 

Dissero che rimasi senza parlare per due settimane, forse più. L’infermiera incaricata di tagliarmi il gesso fu ricca di premure, ripeteva che non c’era pericolo che mi ferissero col seghetto a disco e con le forbici. Solo che io non avevo paura.

Finalmente libere, quelle braccia non le riconoscevo. Sembrava me ne avessero messe di nuove, pescate da un immondezzaio abusivo e montate come pezzi di scarto. Odoravano di formaggio e di quell’odore che prende il frigo quando c’è la carne fresca appena comprata dal macellaio.

All’inizio piegavo solo i gomiti. Le cicatrici sulla destra e sulla sinistra non erano speculari. Sulla mano destra la sega a disco aveva tagliato all’altezza del polso. La sinistra era stata recisa nel pieno della mano, mozzando le falangi e salvando solo la mobilità del pollice. Le dita sulla mano sinistra sembravano incollate come salsicciotti infilzati su uno spiedino. La mano destra invece era stata riattaccata con relativa facilità.

L’intervento, dissero, era durato più di dodici ore. Per la sinistra invece, altri tre interventi correttivi nel corso dei successivi due anni, per recuperare la funzionalità parziale delle falangi.

Era un miracolo che fossi sopravvissuto, o così piaceva ripetere a tutti. Era stato il capo di mio padre a vedere la scena. Lui era corso a stringermi i polsi perché non morissi dissanguato. Mio padre lo seguì in ospedale poco dopo, coi brandelli delle mie mani coperti di schegge e segatura.

La mia storia, pasticciata e surreale, passò da un trafiletto all’altro della cronaca regionale per qualche mese. Il capo passò un mucchio di guai per colpa mia. La falegnameria fu chiusa per due mesi. Mio padre fu fortunato a trovare un nuovo impiego ancor prima ch’io uscissi dall’ospedale. Qualcuno si era impietosito per la storia sui giornali e l’aveva assunto. Un posto da magazziniere con una paga onesta.

 

I ricordi che ho di quel giorno non sono tutti autentici, come quelli che ci fabbrichiamo quando si parla di episodi d’infanzia, ce li sentiamo raccontare tante volte e la suggestione colma le scene mancanti. Il capo falegname disse che ci misi un po’ a svenire. Io non ricordo il dolore, né il suono della sega a disco o nessun altro dei momenti in cui mi davano per cosciente. Niente fino al risveglio in ospedale dopo l’operazione.

Certe notti sognando il muto istante in cui le mani si staccarono, non vedo il sangue. O almeno non come lo vedono tutti gli altri. Niente di rosso, niente di vivo. Vedo e sento vischio nero come inchiostro di seppia, con lo stesso odore, misto a quello del legno ancora fresco che impregnava la falegnameria.

Non ho più suonato il piano per ventisei anni. Ho riacquistato integralmente la mobilità alla mano destra. Sulla sinistra, l’anulare e il mignolo sono corti stecchi rigidi con cui riesco a pigiare di quando in quando sulla tastiera, o sul pianoforte. Sì perché qualche anno fa ne ho comprato uno, di quelli elettronici da poco prezzo, per esorcizzare vecchi sensi di colpa più che per desiderio di suonare. Non lo riesco a suonare, come non ci riuscivo a suonarlo da piccolo. Ma ho la scusa confortante di due mani menomate.

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Fine.

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