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Stai leggendo: "Il bambino buio - Nerezza 4" di Quinto Moro

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1. Il buio
 

Mary rientrava a casa alle ventuno e trenta. Uscita dall’ufficio allungava la strada del rientro per fare la spesa. Per lo più alcolici, snack e bastoncini di liquirizia. Stava ingrassando, ma non così tanto. La dieta sregolata e i pasti poveri compensavano in malo modo le calorie degli alcolici. Non aveva gusti particolari, né per il cibo né per il bere. Il cibo doveva solleticare le papille in modo estremo: molto dolce, molto salato, molto piccante. Non aveva gusti raffinati neanche per gli alcolici, dovevano solo stordire abbastanza e costare poco. Se Mary non fosse stata una persona di sani principi sarebbe diventata un tossica. Conosceva chi le avrebbe procurato ogni genere di sballo, ma non voleva ingrassare le tasche dei delinquenti, né che le offrissero sconti o credito in cambio di favori sessuali, anche se lo sballo da monopoli di Stato era certamente più annacquato e insignificante rispetto a quanto le sarebbe piaciuto. Ma la sola forma di malavita organizzata per cui aveva rispetto era quella incarnata dal sistema statale. Era un’impiegata. Di quel mondo viveva e moriva. Tenendo duro abbastanza a lungo sarebbe arrivata alla pensione senza grandi difficoltà. Le mancavano solo trent’anni.

Era venerdì sera. Anticamera dell’inferno. Le due giornate di riposo erano un cruccio anziché un piacere. Senza la sveglia dell’indomani mattina e l’obbligo di arrivarci abbastanza sobria da ricordare la lingua in cui parlava, Mary non aveva freni o scuse per non far macelleria di stomaco, fegato e reni. Ogni weekend un buco nero in cui smarrirsi, senza la direzione delle ore segnate sull’orologio del lavoro.

Quel venerdì Mary temporeggiò nel parcheggio interrato del palazzo. Aprì la bottiglia di vodka e ne ingollò un sorso. Era depressa oltre che stanca. Aprì il bagagliaio che puzzava di gasolio. Doveva decidersi a svuotare quelle taniche e smetterla di portarsele appresso. L’odore cominciava a sentirsi anche nell’abitacolo.

“Un’altra volta.”

Bevve un sorso e alzò il pannello sul fondo del bagagliaio. Nel vano della ruota di scorta stava un mucchio di fumetti.

“Maledizione.”

Li aveva trovati in uno scatolone della spazzatura e non ne restavano molti. Doveva procurarsene altri.

“Speriamo ci sia qualche altro bastardello che svuota la cameretta quest’anno. Non ho soldi da spendere in questa roba.”

Prese un albo macilento e coloratissimo. Lesse il prezzo sulla copertina e scosse la testa, bevve un altro sorso e lasciò la bottiglia tra i fumetti rimasti. Cercava di disseminare in giro più bottiglie che poteva, un po’ per non scolarsele tutte in una volta, un po’ per avere scorte ovunque e magari, a furia di ammattire cercandone una, farsi passare la voglia. Ma non passava mai.

Rimase a sfogliare l’albo mentre l’alcol saliva. Era un fumetto dell’Uomo Ragno. Non ne aveva mai letto uno ma aveva imparato a distinguere i cattivi, anche se capitava di dover ruotare le pagine per capirci qualcosa. Riconobbe la tutina nera di Venom, acerrimo nemico dell’Uomo Ragno. Le sfuggì un sorriso.

“Abbiamo fatto Bingo oggi.”

Il sorriso le passò subito, sfogliò ancora sentendo crescere l’inquietudine.

“Schifosa bestia del cazzo.”

Infilò l’albo nella tasca dei pantaloni e si diresse all’ascensore, che fece i capricci come al solito. Un giorno o l’altro ci sarebbe rimasta imprigionata – di nuovo – o sul punto di arrivare al suo piano – il terzo – semplicemente i ganci avrebbero reso l’anima a Dio, insieme alla sua. Mary immaginava spesso la sua morte. Di solito era una porte violenta, contorta e fatta a pezzi dalle lamiere dell’ascensore o dell’auto, andata fuori strada per un colpo di sonno, o per guida in stato di ebbrezza.

Davanti al portone blindato del suo appartamento chiuse gli occhi e respirò come a prender coraggio. Dentro, la casa era vuota. Il pavimento era pulito, una volta tanto. Entrò in cucina osservando i mobili e il pavimento, poi lo sguardo le cadde sulla macchia scura ad un angolo del muro.

“E ti pareva!”

Mary sfilò il fumetto dalla tasca e lo schiaffò con violenza nel cestino della spazzatura. Alzò la mano verso il lampadario che pendeva sul tavolo del cucinino e lo indirizzò verso la macchia. Fece un sospiro di sollievo, seguito da una smorfia. Era solo muffa. Le piogge della settimana avrebbero fatto riapparire chiazze d’umidità per tutta la casa. Diede un’occhiata stanca ai soliti punti d’umidità, dopo il cucinino il bagno, l’angolo dell’ingresso e infine la camera da letto. Doveva esserci uno stramaledetto labirinto che di crepa in crepa impregnava le pareti, con l’acqua che spurgava di colpo. Succedeva sempre così: i muri s’inzuppavano quando il grosso del temporale era passato. Dopo uno o due giorni di sole, le mura prendevano a sgocciolare, e la camera da letto stava messa peggio di tutte le altre. Era la stanza più inquietante dell’appartamento, se non del palazzo – e di qualunque palazzo in qualunque città del mondo. Il picchiettio delle gocce sul pavimento era un tormento. Inutile cercare di attutire il suono con uno straccio: quello s’imbeveva e il pluf pluf sordo risultava peggiore dello schiocco sulle mattonelle. Il solo modo di attutire il suono era mettere i tappi di cera e tirar fin sulla testa il cappuccio della giacchetta – un’obbrobriosa giacchetta presa dal cesto dei saldi dell’anno passato, con interno in finto pellicciotto. Peccato che la giacca stesse dentro l’armadio, e Mary non avesse nessuna intenzione di aprirlo. All’occorrenza avrebbe ficcato un po’ più in fondo i tappi di cera. Nel suo cranio dovevano esserci tappi a bizzeffe, impastati nel condotto uditivo come una galleria di automobili compresse in un tamponamento a catena. Mary se li perdeva in continuazione, i tappi, e non li trovava più, per quanto scuotesse le lenzuola e ribaltasse il materasso. E se li sentiva tutti nel mal di testa mattutino, o a metà pomeriggio, quando shakerava la testa provando a scrollarsi di dosso l’apatia e lo scazzo del lavoro.

Mary prese un sacchetto di patatine dalla credenza. Sarebbe stata la sua cena insieme a qualche fetta di salsiccia secca, mangiucchiata mentre cucinava una cena che non avrebbe mangiato. Faceva così tutta la settimana: riempiva lo stomaco a metà tra salatini e bicchieri di vino o birra e quando la cena era pronta non aveva più fame. Il pasto restava per l’indomani, lo ficcava in una vaschetta di gelato riciclata e lo metteva in frigorifero. Ormai mangiava solo pasti freddi, e il weekend non faceva eccezione. Ma non aveva voglia di cucinare. Ci avrebbe pensato l’indomani.

Sedette sulla poltrona ad ascoltare il tg serale, concentrata sui jingle degli stacchi pubblicitari, sperando di non sentir bussare. Fissò l’uscio della cucina e tese l’orecchio. Se qualcuno avesse bussato al portone blindato non l’avrebbe sentito. Ci si doveva bussare a martellate da quanto era spesso. Non c’era un campanello e Mary era certa che nessuno l’avrebbe cercata, perché nessuno sapeva più dove viveva. L’aveva detto solo a una collega di lavoro e un’altra l’aveva scoperto comunque, più per impiccioneria che gentilezza, quando s’era offerta di portarle qualcosa – una sciarpa? Una giacca? – che aveva dimenticato al lavoro.  Ma non era alla porta che Mary temeva di sentir bussare. Era l’armadio nella camera da letto.

A volte Mary sedeva a culo nudo sul pavimento della camera, con la schiena ben salda all’anta dell’armadio e sentiva i colpi rimbalzare dall’interno. Quei rintocchi insistiti, irritanti e giocosi che l’attendevano certe sere. Allora concentrava le sensazioni sulla sgradevolezza del pavimento gelido che esigeva un altro sorso di qualsiasi alcolico per scaldare le membra e annegare i suoni. Le capitava di addormentarsi così, e svegliandosi con le gambe gelate e la bottiglia rovesciata sul pavimento, pur di non staccare la schiena dall’armadio, allungava un piede per avvicinare col tallone lo scendiletto da usare come coperta. Al mattino poi, con piedi e gambe livide per il freddo, doveva immergersi nella vasca da bagno, in acqua bollente per mezzora tentando di riattivare la circolazione del sangue. Solo quando sentiva la pelle ustionata e le narici impregnate di vapore riprendeva coscienza di sé, e mentre si vestiva per andare a lavoro e canticchiava qualche canzoncina stupida, scordandosi d’ogni cruccio, ecco l’armadio aprirsi con puntualità criminale. Il cuore di Mary si fermava ogni volta che l’armadio si apriva i suoi vestiti vomitavano il bastardello: un ammasso informe, animalesco, simile a un cane di razza komodor coperto di una sostanza nera simile al petrolio, o piuttosto un ammasso di muco frullato con inchiostro e asfalto.

A Mary sembrava di vivere con uno spettro sumero che impregnava l’appartamento e dormiva nel suo armadio, tra vecchi cuscini e vestiti che regolarmente inzaccherava. Mary aveva provato a sbarazzarsi di lui più di una volta ma senza riuscirci. Nessuna scatola poteva contenerlo, non perché fosse grande o troppo pesante, ma perché inzuppava all’istante il cartone che diventava poltiglia. Senza parlare di quanto fosse difficile catturarlo, rapido e sfuggente com’era con quel vischio che lo ricopriva. A lui bastava buttarsi di pancia sul pavimento e scivolare come un melmoso pinguino per togliere ogni saldo appiglio alla povera Mary, che rischiava di scivolare ad ogni passo. Mary l’aveva acchiappato qualche volta, e assodato che gli scatoloni erano inutili, quando riuscì a chiuderlo dentro un bidone di plastica, lui lo fece letteralmente esplodere, sparando il coperchio fino al soffitto. Quando il bastardello era molto arrabbiato o molto spaventato, dal suo corpo partivano esplosioni di nerezza capaci di far saltare qualsiasi tappo, e imbrattare qualsiasi cosa.

Ci volle tempo e pazienza per arrivare a stabilire le regole di quella convivenza forzata. Durante il giorno a lui era concesso di guardare la tv e inzaccherare il divano o il tappeto della cucina, a patto di non farsi trovare in giro per casa quando lei rientrava stanca dal lavoro. Era nei patti che mentre lei dormiva lui stesse chiuso nell’armadio ma a volte se lo ritrovava in giro per casa a notte fonda. Il che era terrificante. Nel buio, non si poteva mai sapere se lui fosse lì ad osservarla nei momenti più inopportuni. C’era poi la faccenda del vischio che si lasciava dietro. Anche se Mary aveva creato pattine ad alta aderenza con stracci e velcro, rischiava sempre di scivolare e rompersi l’osso del collo. Aveva anche provato a ricoprire ogni stanza con coperte e tappeti, ottenendo solo di triplicare la fatica – poiché doveva ripulirli e non le impedivano comunque di scivolare. S’era poi deciso che lui camminasse radente ai muri, ma c’era il rischio – la garanzia – che avrebbe imbrattato mobili e pareti. A volte, per punirlo dei disastri che combinava per casa, Mary finì per legarlo. Per lui fu tutt’altro che un cruccio, anzi si divertiva a sgusciare via. Lubrificava corde, lacci, persino il fil di ferro. Un piccolo escapologista bastardo.

“Diventerò più grande di Houdini!”

Della bocca s’intuiva solo la forma sotto il vello nero e la voce usciva ammorbidita, come un pesce parlante a pelo d’acqua. Ed era sfuggente e viscido come un pesce che senza sforzo vanificava i tentativi d’imprigionamento di Mary. Per lui era divertente, l’unico gioco che potesse fare in compagnia. Mary invece non ci provava alcun gusto, e quando trovò la scatola coi fumetti ebbe il primo vero strumento di controllo su di lui. Con le promesse e i ricatti riuscì a farlo star buono, fargli rispettare orari e regole come mai prima d’ora. Ne guadagnò la tranquillità della convivenza. Il bastardello poteva leggere e rileggere lo stesso fumetto per ore, addirittura per giorni, mandando a memoria tutte le battute e gli articoli negli almanacchi.

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