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Stai leggendo: "Nerezza 2" di Quinto Moro

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1.

 

Avevo sette anni. Lo ricordo perché ero appena stato operato di appendicite. La ferita un lungo squarcio lungo tanti punti quanti erano i miei anni. Stare seduto mi dava fastidio, non riuscivo a piegarmi tanto ed avevo il terrore che mi si potesse riaprire uno squarcio in pancia da parte a parte. Quell’idea me l’aveva messa in testa il mio compagno di stanza, un vecchietto chiazzato di nei dal naso alla fronte glabra, tipo Gorbaciov ma molto più secco. Era deprimente stare in ospedale e sentir parlare solo di malanni, operazioni e gente morta. Il vecchio mi aveva raccontato di come anche lui era stato operato da piccolo, di ernia piuttosto che di appendicite, una differenza cruciale nel limitare il mio terrore che potesse succedermi la sua stessa disgrazia: disse che l’avevano dimesso troppo presto, e disobbedendo alla madre se n’era andato a giocare a pallone in strada con gli amici. La ferita gli si era riaperta e avevano dovuto ricucirlo. Ricordo quel gesto che fece con le mani sul ventre, a mimare lo squarcio che andava richiuso.

 

Mi sembrava di vedere la scena: i suoi calzoncini sporchi di sangue, e i bambini intorno correre via spaventati mentre lui agonizzava sull’asfalto. Il suo racconto non era così cruento ma avevo il gusto dell’orrido e la passione per i film dell’orrore, che guardavo di nascosto. La mia fantasia galoppava solo a vedere garze e sentir parlare di bisturi e punti, perciò una ferita riaperta mi apriva tutto un mondo di frattaglie e tormenti. Ma se quelle fantasie erano un curioso intrattenimento, nella realtà avevo il terrore che dalla mia ferita potesse spandersi una chiazza rosso scuro. Forse era per questo che camminavo tutto rigido e non volevo saperne di piegarmi. Eppure quel giorno, di fronte a quello sgabello non ci pensai un istante. Non era nemmeno per lo sgabello, affascinante per quei piedi a bocca di leone, all’apparenza lussuoso nella fodera di velluto rosso. Mi piacevano le cose che sembravano da ricchi, più pacchiane che eleganti. A catturare la mia attenzione però era quel che stava oltre lo sgabello. Il copri tasti lucido e impolverato si aprì con un cigolio svelando quella meraviglia di tasti bianchi e neri.

 

Era la prima volta che vedevo un pianoforte dal vivo. Non era come l’avevo visto in televisione, era verticale mentre all’epoca conoscevo soltanto quelli a coda. Sulle prime pensai pure che fosse un pianoforte per bambini, il che mi fece venire una voglia matta di suonarlo, anche se avevo paura. Mia madre era severa, frugare per le case altrui non era contemplato. Dovevo stare composto e in silenzio, senza toccare niente. Ma quello era un pianoforte. Prima accarezzai i tasti tenendo a freno il desiderio di schiacciarne uno. Avevano tonalità di bianco differenti, alcuni gialli e meno lucidi di altri. Il pianoforte era antico e si vedeva che nessuno lo usata da tempo. Premetti pianissimo il primo tasto e quello fece come un soffio, senza dire la sua nota. Il secondo tocco fu più deciso, e il suono uscì più forte e chiaro di quanto potessi immaginare. Sembrava di sentire il pianoforte sbuffare, come si stesse scrollando di dosso la polvere.

 

Avevo paura d’essere scoperto. Non ricordo nemmeno perché fossi lì. Avevo accompagnato mia madre a fare una visita a qualcuno che non conoscevo. Era la cosa più noiosa del mondo “fare le visite”. Per un bambino è frustrante andare in un posto dove ci sono solo adulti che se ne stanno a blaterare tutto il tempo di cose loro, in un ambiente sconosciuto e sostanzialmente ostile a tutto ciò che puoi fare a sette anni: non puoi correre, non puoi giocare con niente, non puoi esplorare le stanze né toccare tutti quei ninnoli di porcellana e legno intagliato. Il pianoforte aveva appena reso quella casa interessante, più della paccottiglia sulle credenze e i divani in pelle su cui era proibito sedere.

 

Andai a chiudere la porta del salotto convinto che avrebbe nascosto il suono del pianoforte e tornato sullo sgabello – del tutto dimentico del mio squarcio post-operatorio – mi misi a strimpellare piegandomi e coricandomi a destra e a sinistra per provare tutti i tasti. Molti non funzionavano, altri andavano pigiati con forza per cacciar fuori una nota. Rimasi a lungo in quella stanza a strimpellare, ricordo la stanza farsi più scura e il pendolo suonare le ore. Prima di quel giorno un orologio a pendolo avrebbe conquistato la mia attenzione, ma picchiettare sui tasti azzerava tutto il resto. Mi resi conto che non avevo pigiato neppure un tasto nero, non sapevo a cosa servissero, o forse ne avevo provato qualcuno e quello era rimasto muto, guasto. Fatto sta che la porta si aprì di scatto. Il “cosa stai facendo?” di mia madre, stridulo e accusatorio mi fece nascondere le mani e riempire di vergogna. Scoperto! Dannazione.

 

La padrona di casa apparve subito dopo, aveva un faccione raggrinzito e sorridente. Lei non sembrava arrabbiata e questo doveva darmi un po’ di sollievo, se non dava fastidio a lei che usassi il pianoforte tutto era a posto. Ma non funzionava così con mia madre, glielo leggevo negli occhi quello sguardo feroce, quasi d’odio, per averla messa in imbarazzo.

 

La nostra ospite stava dicendo cose melense su di me, si diceva contenta che mi fossi divertito ed era dispiaciuta dello scarso funzionamento del pianoforte, ché nessuno lo usava più da quando il figlio se n’era andato di casa. Il figlio era un drogato, avevo sentito mia madre e le sue sorelle ripeterlo più volte. Pare che conoscessero un sacco di drogati e alcolizzati, prostitute e magnaccia. A sentire gli interminabili discorsi post-pranzo di mamma e zie che si riunivano a casa nostra, per fumare nel caminetto e bere litri di caffè, eravamo circondati dai peggiori farabutti di questo mondo. Il che dava almeno un senso al rigore educativo di mia madre.

 

“Vaiaprendereilgiubbotto!” disse. Parlava velocissima quand’era arrabbiata. Non c’era pausa tra le parole. Sapeva parlare per svariati minuti senza riprendere fiato quand’era in quello stato, simile all’impellenza di dover andare al bagno e fare economia su qualsiasi gesto o azione. Tratteneva l’ira e la vergogna in attesa di sfogare la prima e vomitarti addosso l’altra.

 

Io feci per scendere dallo sgabello ma qualcosa mi trattenne, dovevo dare un’ultima occhiata al pianoforte. Forse mi giustificai dicendo che dovevo richiudere i tasti, e ricordo che lei mi si fece vicina. Solo che dovevo provarci, dovevo sapere se anche i tasti neri suonavano come gli altri, così allungai un dito e dooong!

 

Sì. Anche i tasti neri suonavano, non come gli altri però. Quel suono mi era sembrato più stonato, bizzarro. Ci stava, prima di quello schiocco simile ai piatti d’una batteria, sconquasso della mia guancia e le dita rigide della mano di mia madre.

 

“Signora non è successo niente”

 

“Noinvece, deveimparareastarecomposto!”

 

La pena negli occhi di quella vecchia estranea faceva anche più male della sberla. Sarebbe stato più facile ricevere un comune giudizio di condanna. Quella dualità invece, lo sfasamento di sguardi rabbiosi e penosi mi squarciava nel mezzo.

 

Seduti in macchina, una mezza sberla mi raggiunse sul muso. Non era un vero schiaffo, mi colpiva col dorso delle dita, quasi con le nocche, giusto sulle labbra.

 

“Lo sai che non devi toccare niente in casa degli altri!”

 

Annuivo.

 

“E se lo rompevi? Lo sai quanto costa un pianoforte?”

 

Ma il piano era già rotto. E no, non sapevo quanto costava. D’improvviso mi sentii prudere le dita, il terrore di aver toccato qualcosa di inestimabile e aver rischiato di romperlo mi fece passare tutta la voglia di toccarne un altro da lì alla fine del mondo.

 

Non piansi. L’ira di mia madre s’era arrestata entro limiti accettabili per una volta. Sapevo di dover soffocare il pianto che l’avrebbe solo fatta infuriare di più. Immaginavo di fare un fiocco alla gola, e poi un altro, un doppio nodo per mantenere il silenzio.

 

Ricordo che le dita mi prudevano più della guancia e delle labbra colpite. Mentre la macchina sobbalzava nervosa nel traffico mi guardavo le mani. Avevo una chiazza nera sul polpastrello, come l’appiccicume di una cingomma. Sembrava olio per motori, l’avevo visto una volta, e toccato anche, non so a che età, quando guardavo mio padre disteso sotto il camion mentre cambiava il filtro dell’olio. Ci avevo affondato tutta la mano. Era puzzolente e denso ma mi piaceva il modo in cui scivolava. E mi tornò in mente. Doveva essere uno dei miei primi schiaffi. Non per ira, né per rabbia. Avevo toccato qualcosa di maledettamente pericoloso e me ne accorsi subito dopo esser stato colpito, ruzzolando a faccia in giù col muso ad un centimetro dal catino d’olio nero. L’olio mi avvinghiò la faccia togliendomi il respiro, strizzandomi la gola come una sciarpa troppo stretta ed insinuandosi tra le labbra come uno sciroppo amaro.

 

Mentre l’automobile scorreva nel traffico, coi colori della città che si spegnevano nel tramonto oscurato dalle palazzine, rivedevo quello stesso vischio. S’era appiccicato sullo stesso dito che aveva battuto l’ultimo tasto del pianoforte, quello nero. La nerezza era schizzata via dal tasto per infiocchettarsi sulla falange e restare lì attaccata come una zecca. E la zecca ingrassava, nutrita dal sangue che pompava più forte, come succedeva sempre dopo uno schiaffo, quando il sangue pompava sotto la spinta della vergogna.

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