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Stai leggendo: "Nerezza 3" di Quinto Moro

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I wanna see it painted,

painted, painted,

painted black

(The Rolling Stones)

 

 

1. Effetto farfalla

 

Nina non riusciva a dormire. Era scoppiato un temporale, e i fori della serranda bucherellavano il muro accanto al suo letto coi lampi sparati dal cielo, aprendo crepe di luce malata e fredda. Sembravano avere persino un odore, Nina si pizzicava il naso e le guance quando le sembrava di sentirlo.

“Tutta immaginazione, tutta immaginazione” le diceva sua nonna quand’era piccola e le sembrava di vedere i fulmini o i fantasmi entrare dalla finestra. Con sua nonna aveva diviso la cameretta per nove anni, e il suo sonoro russare che tante volte l’aveva tenuta sveglia, durante i temporali aveva l’effetto contrario: l’aiutava ad addormentarsi. Era rassicurante quando ad ogni tuoni rispondeva una ronfata, in una schermaglia tra il freddo ignoto della notte fuori e il bel caldo della stanza dentro.

La nonna l’aveva tenuta sveglia col suo russare tante volte, ma quando c’erano i temporali quel ringhio sommesso, aiutavano Nina a dormire. La nonna aveva più di settant’anni ed era sopravvissuta a decine, centinaia di temporali. Anche di quelli artificiali, ben più spaventosi e pericolosi di quelli ringhiati solo dalle nuvole. All’età di Nina, la nonna aveva visto la guerra, s’era tappata le orecchie dai botti dei bombardamenti e aveva consumato tutte le sue lacrime.

Finita la guerra, i temporali le avevano dato noia per qualche tempo, poi aveva imparato ad accoglierli con gioia, perché si trattava solo di nuvole e pioggia. Nuvole di vapore acqueo cariche d’acqua, e non fumi di zolfo e polvere da sparo. Pioggia d’acqua e non di proiettili e bombe.

Ma la nonna era morta, ed ora i lampi si allacciavano alla gola di Nina come cappi uno sull’altro, facendo d’ogni tuono un grappolo che tirava giù fino allo stomaco, tanto da strozzarla dal di dentro.

Nina se l’era cavata bene nei tre anni passati dalla morte della nonna. Certo le mancava e a volte quando si svegliava nel cuore della notte per andare al bagno aveva ancora l’abitudine di guardare il letto vuoto accanto al suo, aspettandosi ancora di vederlo gonfio di sopra e scricchiolante di sotto, a fare le fusa come un gatto di ottanta chili.

Il cielo grattava. Le nuvole inspiravano dalla tempesta prima di ruttare a voce grossa. La pioggia batteva forte contro la serranda, sul soffitto e tutt’intorno al paese.

Nina s’alzò passandosi un dito alla gola, cercando di sciogliere il nodo che s’era stretto dall’ora di cena e stringeva bello forte.

“Tuo padre” aveva detto la mamma fissando il piatto gonfio d’insalata olio e sale e scaglie di parmigiano “tuo padre se n’è andato. E non torna.”

Nina non capì. Cioè, capì eccome, ma non capiva come una notizia simile potesse giungerle tanto inaspettata. I suoi genitori non avevano mai litigato, mai alzato troppo la voce. Erano sempre andati d’accordo. S’erano sempre abbracciati e sbaciucchiati abbondantemente, con imbarazzo e finto disgusto di Nina, che trovava la cosa divertente e dolce. Il papà era sempre stato indaffarato, e la mamma anche di più. Nina se n’era andata a letto senza dire niente, s’era addormentata quasi subito, poi il temporale l’aveva svegliata.

Fissò lo zaino di scuola, appeso alla sedia della scrivania. Aveva bande viola ai lati e si chiudeva in alto con un cuore nero con la griffa scritta in corsivo a caratteri bianchi. L’aspettava il compito in classe di storia l’indomani mattina. Non ricordava se aveva messo o no nello zaino il libro di storia. Avrebbe potuto risparmiarsi quel peso, il libro non le sarebbe servito nelle due ore destinate al compito in classe. Nina non era tipa da mettersi a ripassare cinque minuti prima del compito. Un lampo illuminò lo zaino in un’istantanea senza colori, tutto in bianco e nero e senza sfumature, come nelle strisce dei fumetti del papà, che piacevano pure a lei e ne teneva sempre uno o due sul comodino. Poi era arrivato il tuono, le finestre di legno e vetro avevano vibrato come se dietro ci fosse un disperato che bussava per entrare e ripararsi dal diluvio. A Nina sembrò di sentirlo chiamare. Tutta immaginazione, tutta immaginazione. La stanza ebbe un tremito, i vetri battevano i denti per la paura di spaccarsi, il lampadario oscillava, e la sedia della scrivania sussultò tanto che s’inclinò, tirata giù dal troppo peso dello zaino.

Inerzia. Nina conosceva quella parola. Conosceva molte più parole delle sue compagne. Leggeva. Non moltissimo, ma più di tutte le altre. Prendeva in prestito i libri dalla biblioteca. Era un’avida lettrice, salvo cadere in uno stato di disinteresse dopo le prime cinquanta pagine e tornare ai fumetti del papà. Aveva sulla scrivania una pila di libri, volumetti dalla costola colorata di colori sgargianti, arancio, ciano e verde lime. Li aveva iniziati tutti. La pila era alta una ventina di centimetri. Tra uno e l’altro doveva aver letto un migliaio di pagine, ma non ne aveva ancora finito uno.

Effetto farfalla. Nina ne aveva sentito parlare da un professore con la faccia da mosca. Una farfalla aveva sbattuto le ali a Pechino, spingendo venti monsonici attraverso il mondo. Il temporale di quella notte era il colpo di coda dell’anticiclone di stocazzo. L’aveva detto la fighetta in minigonna e senza reggiseno al tg serale, mentre gesticolava a casaccio davanti a una mappa distorta e geograficamente inaccurata della regione. Quando aveva paura, Nina si riempiva la testa di rabbia e parolacce, stringendo i denti e le labbra forte per non farle scappare.

La vibrazione del tuono aveva spezzato l’equilibrio precario tra la sedia e lo zaino. I troppi libri avevano alzato il baricentro della sedia. Lo zaino aveva tirato giù la sedia ed erano caduti insieme. Lo zaino aveva vomitato fuori un paio di quaderni. Una farfalla cinese aveva fatto cadere il suo zaino.

Nina si alzò per rimettere la sedia in piedi ma non lo fece. Raccolse i libri. Si ricordò delle infinite attese alla libreria per comprarli, e il rientro a tarda sera con le buste piene. Buste scadenti che si rompevano e i libri si cadevano a terra. Ricordò le lamentele di suo padre per la cena fatta di avanzi freddi del pranzo perché Nina e sua madre erano rientrate tardi, e mentre aspettava sul divano, lo ricordò rovistare tra i libri, prenderli e sfogliarli uno a uno col disprezzo degli oggetti inutili. Ne aveva soppesato uno tra le mani, lamentando il troppo peso, dicendo che le avrebbe fatto male la schiena, le avrebbe fatto venire la scoliosi e a quarant’anni si sarebbe ritrovata con una gobba e suo marito l’avrebbe abbandonata perché era diventata storpia. Poi aveva trovato lo scontrino, e mentre la mamma scaldava i piatti e Nina apparecchiava, lui s’era messo a riconteggiare tutto, protestando per le etichette di sovrapprezzo su quello già stampato dalla casa editrice. Disse che erano imbroglioni, in quella libreria. Sarebbe stato meglio comprarli in un’altra, oppure comprarli usati.

La mamma aveva detto che no, non si potevano comprare in un’altra libreria, non tutti, perché le altre librerie non erano così fornite. Avrebbe dovuto fare la fila in tante librerie diverse, tornando più volte, perdendo più sere.

Poi Nina aveva spiegato che no, non si potevano comprare usati, perché tutti gli anni c’era un’edizione nuova ma il papà non era convinto. Di certo le nuove edizioni erano uguali a quelle vecchie, cambiavano la copertina, due foto e poco altro, il resto sempre uguale. Lì Nina non aveva risposto perché aveva ragione.

Poi lui aveva continuato, insistendo come faceva sempre, con un’altra domanda e poi un’altra, finché lei o la mamma non lo lasciavano perdere, così lui si rispondeva da solo.

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