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Stai leggendo: "Nerezza 3" di Quinto Moro

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3. Il giorno dopo

 

La mattina, Nina era andata a scuola col cielo coperto, la pioggerella e il freddo. Il cielo s’era rischiarato timidamente per poi aprirsi alla ricreazione e per l’ora d’uscita c’era un bel tepore, un sole gentile e le nuvole passeggiavano come pecorelle al trotto spinte dai venti alti. Non c’era più minaccia di pioggia, tranne per quella nuvola ritorta più scura delle altre, come una pecora nera. Si guardò intorno in cerca di una ragazzina di nome Rachele, cui non aveva più pensato da anni. Una volta, al terzo anno d’asilo, insieme con le sue amiche del cuore Cristina e Cristiana erano andate da Rachele a farle uno scherzo, il giorno della festa del papà, perché lei il papà non ce l’aveva. O meglio ce l’aveva, ma se n’era andato senz’aver mai sposato la mamma. Una tra Cristina o Cristiana – Nina non ricordava chi delle due – la cui mamma era amica della mamma di Rachele, ne aveva sentito parlare. Così avevano pensato tutte insieme a uno scherzo.

Il ricordo era riemerso dal nulla, come quando una canzone o una pubblicità torna in mente e lì resta per tutto il giorno. Nina non pensava a quello scherzo da anni. Più che uno scherzo era stato un agguato, divertente solo per lei e le sue amiche, Rachele non aveva riso, era anzi corsa via in preda alla vergogna, tanto da farsi la pipì addosso. Nella memoria di tutti lo scherzo era svanito, quello era rimasto solo “il giorno che Rachele si è fatta la pipì addosso mentre correva”. Rachele se n’era accorta troppo tardi, ed era andata ad accovacciarsi in un angolo per nascondere la macchia scura sui pantaloni. Ma tutti se n’erano accorti, e avevano riso da matti.

Da anni non sapeva più nulla di Rachele. Non sapeva in quale corso fosse finita. Non conosceva nessuna che le fosse amica, o nemica. Si chiese se viveva ancora nello stesso paese.

 

Il suono di un clacson, selvaggio e insistente, spezzò i pensieri di Nina. Suonava con tale foga che tutti si erano voltati a guardare. Era suo padre. Era venuto a prenderla. Mentre lo guardava agitare la mano dal finestrino aperto, con gli occhiali da sole sopra il naso e la sigaretta sotto, Nina spese un altro mezzo minuto a ricordare l’ultima volta in cui era venuto a prenderla. Cercava nel diario delle passate giornate di pioggia, nei compleanni, o le uscite anticipate per riunioni sindacali. Come cercare a ritroso sul diario dei compiti a casa, quando un’insegnante chiedeva questo e quello, e lei non riusciva a trovar nulla, in preda al terrore di non averli trascritti e doversi presentare a mani vuote. Nina ficcò la mano in tasca, col foglio del compito pasticciato di nero. Niente di leggibile sul fronte cerebrale.

Tuo padre se n’è andato, e non torna. E vedendolo lì, adesso, non aveva più dubbi che fosse vero. Il papà disse di salire in macchina per andare a pranzo insieme. Aveva già avvisato lui la mamma. Nina salì. Papà parlava. Parlava un sacco, con gli occhi fissi sulla strada. Le cose che gli uscivano di bocca, a Nina sembrava di averle già sentite: in un film, in un programma tv, in uno dei suoi tanti libri abbandonati prima della fine, nei fumetti che lui le lasciava leggere, benché fossero violenti. Mentre lui continuava a parlare pure Nina fissava la strada, il cruscotto della macchina, e quel foglio scarabocchiato di nero. Si voltò a guardare il papà che non smetteva più di parlare. Cominciava pure a ripetersi mentre il traffico avverso sembrava volerli intrappolare lì, come se il papà e tutti gli autisti intorno si fossero messi d’accordo per tenerla bloccata finché non avesse annuito convinta o sfinita. Nina prese a fissare le labbra del papà, il piccolo spazio che si creava quando si aprivano e chiudevano: un sottile impastato d’aria strana che somigliava molto a quello dell’insegnante dell’ultima ora, quella bavetta bianca che a Nina aveva sempre fatto schifo e che non aveva mai notato prima sul volto di suo padre. Una bavetta scura, nera, come se a furia di parlare quei polmoni otturati da fuliggine e catrame stessero spurgando.

Nina si ricordò della prima volta che aveva addentato una mozzarella di bufala, l’esplosione tra i denti e oltre a superare labbra sbrodolando sul mento e il collo in una bianca ondata di latte. E si ricordò di quella scena d’un film non adatto ai bambini, in cui qualcuno addentava un cuore umano ancora caldo, e si ritrovava il mento e il collo coperti di sangue rosso rubino. Era incredibile che suo padre non si accorgesse, nell’incontinenza della chiacchiera, di sbavare tanta viscida nerezza che gli colava per il mento impastato con la barba di due giorni, coprendola fin sotto al mento, facendo appassire i fiori sulla camicia hawaiana.

Niente di quello che papà diceva sembrava cambiare le parole di sua madre: se n’è andato e non torna. Che stesse ancora lì a parlare non aveva importanza. Nina sapeva che quel “se n’è andato” non era come quello dei morti, perché tanto il catechismo quanto i film dell’orrore guardati dietro le sbarre delle dita socchiuse le avevano insegnato che pure i morti potevano tornare. Era un diverso andar via. Uno a cui non era stata preparata da nessuna predica o racconto. Un andare via inaspettato e mai sospettato nella coccolante quiete domestica. Non c’erano mai state urla e piatti rotti. Non c’erano stati schiaffi sul suo volto o quello di sua madre. Non c’erano stati insulti. Non era successo come nei film. Ma era successo ugualmente.

 

Il semaforo s’era fatto rosso e per la prima volta papà s’era voltato a guardarla. Gli occhi di Nina stavano una spanna sotto i suoi occhi frammentati da vene rosse e cispe. Nina fissava il liquame sul mento e la camicia, e mentre il papà si avvicinava pretendendo un gesto d’affetto, lei fuggì dall’auto inorridita, zigzagando all’indietro nel traffico, con lo zaino a vomitare quaderni e libri nell’agitazione della corsa. Allo scaricar del peso la corsa si faceva più agevole, il rumore del traffico si attenuava nei respiri più forti e l’odore dei fumi di scarico svaniva.

Le parole di suo padre si ripetevano all’infinito, schiacciandosi come frasi stampate in un libro. Prima spariva la punteggiatura, poi gli spazi, finché non si distingueva tra una parola e l’altra: diventavano lettere in fila che litigavano per stare insieme, poi andavano di sopra e di sotto incastrandosi negli interstizi bianchi. Le pance vuote delle “o” “b” e “d” riempite dai puntini delle “i”. Le “u” ed “n” s’incastravano, con una “r” ad approfittare dello spazietto rimasto. Le “m” facevano capriole per infilarsi tra le doppie in un abbraccio indissolubile, finché quella voce, trascritta in inchiostro, non somigliava a un foglio nero dove tutto era stato scritto e sovrascritto, accavallato e sovrapposto, compresso e schiacciato in un’unica poltiglia.

Quando Nina s’accorse che non riconosceva più la strada e i palazzi si fermò, sudata sotto il vento che spirava forte rendendo gelida la fronte e il collo madidi. Seduta in un marciapiede vide che lo spazio tra le auto da cui era passata era sparito, i paraurti anteriori e posteriori attaccati, la plastica bollita mescolata e fusa in un unico pezzo. Le targhe componevano equazioni irrisolvibili mentre le auto ferme al semaforo si appiccicavano: da due corsie se n’erano formate tre, con auto intruse a riempire gli spazi rimasti vuoti. Arrivavano moto e scooter a riempire i buchi, rampando in impennate che sigillavano ruote anteriori e forcelle sui cofani e parabrezza delle auto. Più in alto, le fessure di cielo tra i palazzi si rimpicciolivano fino a chiudersi. I balconi risalivano a chiudersi in museruole sulle finestre affiancate tra un edificio e l’altro. I palazzi spremevano i loro abitanti da porte e finestre, espellendoli insieme a mobili liquefatti e misti al cibo vomitato dai frigoriferi. Sui marciapiedi crescevano colonne di rifiuti animate dalle braccia natanti dei passanti annegati.

Il cielo gridò un tuono e Nina aprì i palmi a controllare se pioveva. Sentiva già le gocce sulla testa, sugli zigomi, lungo le guance. E La pioggia. La pioggia le anneriva le mani.

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Fine.

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