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Stai leggendo: "I mangiatori di patate crude" di Quinto Moro

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1. Non avevamo il soggiorno

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Doveva essere estate perché stavo in casa e non era una domenica. Il sole batteva sulla cucina di casa nostra dalle nove del mattino alle sei del pomeriggio. C’era sempre caldo, o almeno c’era in cucina, e solo d’estate perché d’inverno faceva un freddo cane. Non avevamo il soggiorno, e mi sarebbe piaciuto perché d’inverno, in cucina ci pioveva dentro. L’acqua entrava da una spaccatura lungo il muro della mansarda. Quand’ero più piccolo, la mansarda era un’enorme voliera per le tortorelle. Facevano le uova nei buchi alle pareti. Non avevamo il soggiorno, che nella mia testa era una roba da ricchi, da chi può permetterselo. Ma nessuno aveva una voliera per le tortorelle. Nessuno ne aveva mai tenuto una in mano.

Il muro della mansarda era spaccato di lungo, dal soffitto fin quasi al muro della cucina. Era stata la Parola di Dio a spaccare il muro. La mia nonna paterna era una gran devota, amicissima del prete, e siccome stavamo in uno dei punti più alti del paese e a Dio non bastava l’alto dei cieli, ché ma gli serviva un buon punto per ritrasmettere i suoi vangeli, piazzarono una gigantesca antenna attaccata al muro di casa nostra. Erano gli anni ’90, novanta non era ancora nemmeno la mia altezza, ma non ero solo io ad essere piccolo in confronto a quell’antenna alta almeno novantamila metri. E quando soffiava il vento e quella ondeggiava sbatteva contro il muro, aprendoci crepe nere come le saette del Giudizio Divino.

Bella riconoscenza aveva Dio. Non avevamo il soggiorno e ci faceva piovere pure in cucina. O forse era una punizione per la superbia, sì perché non avevamo il soggiorno ma per assurdo avevamo il salotto. Nessuno ci entrava mai. Era una stanza buia e misteriosa, fatta di poltrone foderate di velluto marrone a puntini neri, con un vecchio stereo grigio a musicassette. Il giradischi non funzionava e il lettore cd era ancora un’utopia futuristica, senza contare che nelle mie conoscenze musicali d’infanzia confondevo gli Equipe ’84 con Michael Jackson. Quando chiesi a mia madre di mettere la cassetta di Michael Jackson pensavo di sentirlo cantare “avevamo cinque anni - correvamo sui cavalli - io e lei contro gli indiani - eravamo due cowboy”. Non avevo mai sentito parlare degli Equipe ’84. Bang Bang.

La porta del salotto era sempre chiusa, un regno di oscurità inaccessibile per quella maniglia difettosa. La porta di legno, deformata rispetto agli stipiti, non si chiudeva, ma flettendo la si poteva forzare allo scatto della serratura. Solo la mano forte di un adulto poteva aprirla. Mi piaceva entrarci quando qualcuno dimenticava di far scattare la serratura. Non mi faceva paura il buio, o forse sì, ma l’eleganza della stanza era un’attrattiva troppo forte. Era un piccolo regno separato dal resto della casa. Avevamo un’enclave del buio e del silenzio. Curioso che una famiglia così piccola in una casa così piccola si permettesse di rinunciare a un tale spazio solo per un vezzo da ricchi. Insomma, mi toccava dormire con la mia nonna materna che russava tanto da confondere i sismografi di zona sulla presenza dei Graboid, e avevamo una stanza in più. Ma non avrei immaginato la mia stanza senza di lei, senza le sue storie della buonanotte. La costringevo a rileggermi sempre le stesse a ruota continua. Hansel e Gretel era una delle mie preferite, per modo di dire, ché mi ha sempre fatto impressione, non per la strega cattiva. No, erano quei fottuti genitori, quei pezzenti terribili capaci di abbandonare i figli nel bosco. I veri cattivi di Hansel e Gretel erano i genitori, non la strega. Il che mi ricordava quando fossi fortunato ad avere una bella famiglia.

Non avendo il soggiorno, era il salotto il luogo delle cerimonie, dove ricevere gli ospiti. Ma non avevamo mai ospiti a pranzo o a cena, ché la cucina era troppo piccola. Curioso passassimo la maggior parte del tempo nell’ambiente più incasinato e misero, stando fuori dal piccolo angolo di lusso custodito con tanta gelosia. Magari serviva a mantenere il contatto con la realtà. Non eravamo la famiglia ricca dei salotti e delle poltrone di velluto, eravamo la famiglia della cucina troppo piccola per poter estendere il tavolo per due posti in più a tavola, con quel caminetto monumentale, un divano troppo grande. Ma forse il salotto aveva tutto a che fare con quell’idea di dignità ridotta in piccole zone d’ombra illuminate solo nei giorni rossi sul calendario. Mai durante la settimana. Era più o meno lo stesso tipo di dignità in pillole che stava nelle scarpe della domenica, nel vestito della domenica. Sembrava così necessario avere delle cose immacolate e perfette, da sfoggiare nelle giuste occasioni per sembrare un po’ più di quel che eravamo.

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