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Stai leggendo: "Quella cosa in casa mia" di Quinto Moro

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1. In camera da letto

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Sentii per prima l’accelerazione, lunga e crescente, come l’aereo al decollo, e nelle orecchie la stessa sensazione d’ovatta che preme tramutandosi in spilli conficcati da un lato all’altro del cranio. Poi l’arresto, il tonfo duro e schiacciante, come un mattone in pieno petto. La schiena, irrigidita in una frustata secca, schioccò con lo stesso suono della plastica con le bollicine, un piccolo scoppio per ogni vertebra strizzata nella violenza dello scatto. L’aria intrappolata nel torace impiegò tre secondi interi e lunghissimi prima di uscire. Qualcosa mi avvolgeva il collo, un cappio che sotto le dita sembrava spugna, e puzzava di cipolle ammuffite. Erano i miei capelli, inzuppati di sudore, come il resto del mio corpo.

Mi ero svegliata di soprassalto, ma non ricordavo d’aver fatto alcun sogno. Se era stato un incubo era svanito. Forse, come nei traumi più violenti, il cervello aveva cancellato tutto per non farmi impazzire.

Le lenzuola mi si attaccavano addosso mentre scendevo dal letto, come un amante lascivo che ti allunga carezze tra le cosce e poi sulle braccia, per tirarti di nuovo a sé. Non c’erano più amanti nel mio letto, era rimasto vuoto abbastanza tempo da rendermi insofferente verso il materasso troppo grande.

Sotto il lenzuolo si vedevano i bitorzoli e le irregolarità del materasso tagliuzzato. L’avevo aperto con la lima per le unghie in una notte di rabbia, e con più calma a colpi di forbici ogni mattina e pomeriggio seguenti. Non bastava ad uccidere i ricordi che lo inzuppavano, né il tessuto strappato li avrebbe fatti evaporare e liberati, ma quel lato del materasso sarebbe ridiventato morbido, un nido di ritagli di stoffa in cui sprofondare e accoccolarmi sprofondando un poco.

L’abatjour fece i capricci, la corrente gracchiò nell’interruttore e fece i suoi singhiozzi sulla lampadina prima d’illuminare il comodino, il letto e la maniglia della porta. Il resto della stanza restava al buio. Era notte fonda. Non c’erano finestre nella mia stanza, né in qualunque altra dell’appartamento. Ma lo sentivo che era notte. Avevo dormito poco, solo due o tre ore. Presi la sveglia dal cassetto, la tenevo avvolta in una vecchia maglietta perché la lancetta dei secondi era troppo rumorosa. Era solo questione di tempo prima che il mio udito abbassasse ancora la sua tolleranza, iniziando a penetrare anche il guscio di stoffa. I primi giorni dopo averla comprata riuscivo a tenerla addirittura sul comodino. Era così con quasi tutte le sveglie, e tutte facevano la stessa fine, quando diventavano troppo rumorose. L’abatjour era un pacchiano residuato anni ’80 con una base di marmo giallo. Una veglia in cassa metallica resisteva tre, quattro colpi. Per quelle di plastica ne bastava uno. Si rompevano come uova. Il rigattiere dall’altro lato della strada ne aveva un intero scaffale. All’inizio pensava che le comprassi per rivenderle, aveva anche aumentato il prezzo. Alla ventesima sveglia non aveva resistito alla curiosità, e chissà perché decisi di raccontargli i miei fastidi.

“La gente normale di solito si abitua” disse proprio così. La gente normale. Razza di stronzo.

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