top of page

Stai leggendo: "Quella cosa in casa mia" di Quinto Moro

​

4. In quella stanza - Epilogo

​

Tenevo la torcia elettrica in uno scaffale dello sgabuzzino. Misi il pugnale di vetro in tasca per afferrarla ma feci cadere le bombolette d’insetticida e deodorante. Ce n’erano a decine, tutte vuote. Non bastavano mai. La torcia era carica, e quando mossi il raggio nella stanza sentii lo zampettare della cosa in un angolo. Esaminai gli stipiti esterni della porta, il legno logoro e scheggiato all’altezza del chiavistello, troncato di netto. Ecco il rumore che mi aveva svegliata di soprassalto. La cosa era uscita, forse per la fame, per ribellarsi, o solo per farmi un dispetto.

Il tanfo della stanza era denso, lo si sarebbe potuto affettare in putride sottilette di muffa e sterco. Serviva di nuovo la pala e altri sacchi per raschiare il sudiciume dal pavimento. Non questa volta. Non avrei più permesso a quella cosa di tormentarmi, di tenermi sveglia la notte, e vigile ad ogni ora del giorno, con l’orecchio sempre teso.

“Bastardo” dissi “sei riuscito a rompere la porta. Peggio per te.”

Il murmure crebbe, il suo respiro era un fischio sempre più ritmato e forte, cresceva all’avvicinarsi del lume della torcia. Quando glielo puntai addosso il suo respiro era tanto forte da rimestare l’aria in una brezza asfissiante. Tenevo ben piantati i piedi ora, nonostante il dolore e la sozzura del pavimento che mi avrebbe di certo infettato la ferita. Dovevo far presto.

“E’ l’ultima volta che provi ad uscire” dissi, e quella cosa muggì, come avesse capito cosa l’aspettava. Strisciò sotto il nido di cuscini e coperte che s’era costruita, poi raggiunse l’angolo, fin dentro a quella nicchia che s’era scavata con le unghie e i con denti, ma s’era arresa da tempo alla durezza del cemento. Posai la torcia tra una scatola di cereali rosicchiata dagli insetti e un cartone di latte, per illuminare i contorni della cosa. Tra le placche di sporcizia si aprivano lembi di pelle incredibilmente candida, resa albina dall’oscurità perenne del tugurio. Mosse la testa fuori dal nascondiglio, per la prima volta coraggiosa verso il fascio di luce, quasi estatica.

“Bravo, guarda la luce” sussurrai alla cosa. Mi rispose solito murmure.

Mmmrr-mmraamm.

Vidi la bocca schiudersi, mostrando sulle gengive gonfie quel che somigliava più ad un groviglio di dita che una dentatura. Strinsi il bastone, tenendolo basso il più possibile perché la cosa non si allarmasse. Feci un respiro profondo, resistendo al tanfo. Il dolore al piede era sparito, potevo reggermi ben salda e bilanciando con cura tutto il corpo alzai il bastone in un gesto netto. Ero pronta a colpire quando la cosa fece uno scatto in avanti. Il colpo si spense a mezz’aria.

L’orrore di quella vicinanza inaspettata mi svuotò braccia e gambe, fiaccandomi tanto che il bastone mi parve insostenibile. La cosa s’era gettata verso di me con sprezzo del pericolo, con gli arti tesi, pronta ad afferrarmi le caviglie. Avrebbe potuto ribaltarmi con un gesto netto, venirmi addosso e sbranarmi. Ma s’era fermata a una spanna dai miei piedi affondati nella sporcizia, coi suoi arti storti, irruviditi e tumidi sugli avambracci per le vecchie ferite.

Mmmarmh-mamm.

Gli occhi scavati sotto la fronte deformata da vecchie fratture erano lucidi, vuoti e scuri come quelli d’un bovino da macello. E muggì ancora: “mammr… mamm..ma”

Reagii al suono con un colpo deciso. Colpii la spalla, la cosa si ribaltò col ventre all’aria, rigonfio ma appiattito in basso come quello d’un gasteropode.

“Mam…mmam, nnno, oo”

Colpii altre due o trenta volte, sulle braccia che si agitavano per schermirsi, poi sul dorso, sulla schiena con la fisarmonica delle costole che suonava il suo lamento.

“Ma, mma, mma”

Il tonfo del bastone sulla schiena superò la sua voce, poi la mia superò entrambi i suoni. Tutta l’ira e il disgusto mi esplosero in un grido singhiozzante. Sferzai finché le braccia sfinite non lasciarono cadere il bastone. Quella cosa orribile si muoveva ancora, come un bubbone putrido e pulsante, finalmente muta. Impugnai il frammento di vetro nella tasta del cappotto e bucai la sacca del suo respiro, che finalmente si esaurì.

Così rannicchiato e piccolo, emaciato e coperto di vischio rosso, era tornato ad assomigliare a quel che m’era uscito dal ventre anni addietro.

Mi trascinai fuori dalla stanza. Tossii come non avevo mai tossito, a cacciar via i troppi respiri lerci che m’erano entrati dentro e andavano espulsi. Rannicchiata sul tappeto fuori dalla stanza, chiusa nel mio cappotto, finalmente riuscii a dormire. Senza più paura di sentire rumori per casa, di teste sbattute e grida, e unghie che graffiavano contro quella porta e le mura d’intorno, dormii d’un sonno profondo. Un sonno assoluto, senza sogni.

 

Al risveglio mi trascinai in cucina zoppicante. Feci una doccia, staccando dal piede ferito la cuffia che nel frattempo era diventata parte della mia pelle. Lo medicai con cura, presi del Valium e dormii ancora.

Il corpo della cosa in casa mia aveva iniziato a decomporsi. La puzza non era più forte di quella cui ero abituata. Feci rientrare il chiavistello, fissandolo con uno spessore di cartoncino e gomma da masticare. Preparai un impasto di farina, colla e spezie, ricavandone un mastice dalla discreta aderenza, per tamponare gli stipiti e la fessura sotto la porta. In basso aggiunsi un asciugamani ripiegato, spennellato con altra colla. Applicai al resto della porta uno strato di cartapesta ricavato da riviste di moda e buste della spesa. Il dentifricio si rivelò un’alternativa profumata allo stucco. Smontai qualche sportello dai mobili della cucina, i pochi che restavano, fissandoli con del nastro adesivo e usando gli ultimi vestitini e copertine di quella che avrebbe dovuto essere la mia prole, per riempire l’intercapedine fra i pannelli di legno e lo strato chitinoso che rivestiva la porta.

Diedi una ripulita, a me stessa e alla casa. Andai perfino dal parrucchiere, poi chiesi ad un falegname di costruirmi una parete di assi, per coprire quella malferma fatta di sportelli e scotch. Il falegname mandò un robusto garzone dalla pelle ambrata e le braccia robuste. Aveva capelli corti a spazzola, due sopracciglia folte e uno sguardo penetrante. Finì il lavoro in soli due giorni, ma lo invitai a tornare a casa. Accettò di buon grado benché fidanzato. Due mesi dopo avevo smesso di vederlo, poiché era già promesso sposo.

Fantasticavo ancora su di lui quando il mio ventre riprese a gonfiarsi. Dovevo scegliere un’altra stanza da svuotare. Avrei dovuto rinunciare alla camera da letto stavolta, la cucina era poco pratica. Dalla mia stanza dovevo spostare solo il letto, la cassettiera e il comodino.

Tornai a frequentare le riunioni delle future mamme e le lotterie per lo scambio dei vestitini usati. Tutti i giorni, tornando a casa, mi fermavo dal solito rigattiere. Ogni tanto compravo una sveglia. Presto avrei ricominciato a romperle.

 

Fine.

​

©© Copyright
bottom of page