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Stai leggendo: "Quella cosa in casa mia" di Quinto Moro

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3. In corridoio

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Nel corridoio, la luce era spenta. Sentii la cosa sbattere contro la scarpiera e il mobiletto del telefono, che cadde giù. Lei lo fece a pezzi come se sapesse a cosa serviva. Non poteva, ma vi si accanì, fracassandolo mentre cercava di liberarsi dal groviglio del filo che s’era impigliato nella sua sozza criniera. Mi avventai brandendo il bastone, ma nella furia l’avevo alzato troppo mandando in pezzi il lampadario del corridoio. I vetri mi caddero sulla testa e uno mi ferì la spalla. Gridai tutta la mia rabbia e colpii alla cieca. Vidi il tappeto cambiare forma e sollevarsi, la cosa gli era scivolata sotto e come certi animali stupidi, che nascosta la testa si credono invisibili, lasciò fuori il resto del corpo. Era a un metro da me, la sentivo respirare, e di nuovo quel rumore, ora più profondo, un muggito misto al russare umano di un ubriaco addormentato.

Mmmh. Mmmhrrrm.

La luce accesa in cucina e l’abatjour nella mia stanza schiarivano il corridoio quanto bastava per disegnare quella sagoma deforme. Tesi il bastone e colpii. Il tappeto attutì il colpo ma non il lamento della creatura, che s’infilò sotto come un insetto sottopelle, zampettando giù fino al portoncino. Sbatté gli artigli e la testa contro la porta, i suoi arti deformi sfiorarono la maniglia e per un momento la vidi appesa al chiavistello. Mi dava le spalle, o almeno quelle che in quel corpo storto sembravano spalle, con le scapole puntute pronte a tagliar la pelle e farne uscire ali di pipistrello. Gli arti inferiori erano avvizziti e scalciavano isterici spandendo un fetore di escrementi e piscio. Feci per avvicinarmi ma una scheggia di vetro del lampadario mi ferì il piede, facendomi urlare e scagliare in modo scomposto verso la creatura, che schizzò via strillando. Caddi a faccia in giù. Mi misi a sedere a fatica, con la schiena contro il portone. Era un portone blindato, ed era chiuso. Nessuno l’aveva forzato. Gli scatti del chiavistello c’erano tutti. Quella cosa non sarebbe uscita di casa mia. Non da viva.

I miei occhi si erano abituati alla penombra e nel misto di angoscia, rabbia e disgusto mi sentii un animale a caccia. Io. Non quella cosa. Non la temevo. Era lei a dovermi temere. Ma fu l’esaltazione di un attimo, uno schizzo di adrenalina che scemava ricacciandomi in un più acuto terrore. Ero a terra, ferita. E avevo fatto tutto da sola. Il taglio sulla spalla non era profondo ma il vetro aveva lasciato il suo lungo segno dal collo alla schiena seminuda. Il frammento nel piede sembrava un coltello da macellaio conficcato su per la caviglia, col riverbero del dolore sino all’inguine. Se la cosa fosse tornata alla carica, non avrei potuto difendermi. Così rannicchiata sul pavimento il bastone era solo d’intralcio.

Dovetti appoggiarmi al portone, con la schiena contro quell’alone viscido lasciato dalla cosa, facendo leva sul piede sano. Afferrai con disgusto la maniglia sporcata da quella cosa e tornai in piedi. Presi un respiro, tremavo. Di freddo adesso. Non di paura. E di rabbia. La mascella scossa dagli spasmi mi faceva ballare i denti. Con la coda dell’occhio vidi una sagoma nera, mi chiusi a riccio con le braccia sulla testa, lasciando cadere il bastone. Stupida. Era solo il cappotto sull’attaccapanni.

Dovevo togliere la maledetta scheggia dal piede. Non serviva guardare, la sentivo benissimo. Uscì senza difficoltà, lubrificata da un fiotto di sangue. Non era neanche tanto grossa, e il dolore divenne presto una sensazione calda e dura, come se la pelle si fosse fatta osso. Infilai il cappotto, frizionandomi il petto e respirando forte. Nella penombra vedevo la nuvoletta del mio fiato.

Presi la cuffia di lana e ci infilai il piede come una calza, avvolgendo l’altro nella sciarpa per non ferirmi con altre schegge. Avanzai nel corridoio, col bastone di ferro diventato sostegno e non più arma. Confidavo che la cosa fosse abbastanza spaventata da non tendermi agguati ma starsene nascosta da qualche parte.

Tra le tasche del cappotto e trovai i miei guanti di lana. Non erano l’ideale per una presa ferma, ma bastava a proteggere le dita dal vetro. Non avrei potuto brandire il bastone con forza, non stando malferma su una gamba. Forse l’adrenalina avrebbe annullato il dolore nel momento del bisogno, ma non potevo rischiare. Raccolsi uno dei frammenti del lampadario, uno lungo e curvo. Se la cosa mi si fosse avventata contro, l’avrei pugnalata a morte tra le scapole, sul collo, in quel suo corpo lercio e deforme, sino a farne poltiglia.

Di nuovo la sentii grattare, e quell’insopportabile murmure digrignato.

Mmmhhmrrrhh. Mmrrhmmhr.

Zoppicando, il corridoio sembrava interminabile. Avanzai piano verso la cucina, ma il suono non veniva da lì. Né dalla mia camera da letto. Era ovvio, là le luci erano accese. La cosa se ne stava più in fondo. Il corridoio faceva ad angolo là in fondo, rientrando tra lo sgabuzzino e il gabinetto, e per un altro metro e mezzo prima dell’ultima stanza.

Il respiro mi si era ingrossato, la ferita al piede non mi rallentava più. Tastavo l’aria col pugnale di vetro stretto nella sinistra. Tenevo il bastone di ferro nella destra, facendolo picchiettare sul battiscopa. Volevo che quella cosa avesse paura, che mi stavo avvicinando per lei, per sbarazzarmene una volta per tutte.

Dietro l’angolo, il disimpegno era una massa di oscurità impenetrabile. La porta dell’ultima stanza non si vedeva. L’interruttore sullo stipite funzionava una volta ogni quattro. Sentivo la cosa muoversi all’interno, il murmure del suo respiro mischiato al grattare dei suoi artigli. Potevo chiudere la porta, e sprangarla col bastone di legno e lasciarla morire di fame. Ma non avrei più rischiato. Non sarebbe venuta fuori un’altra volta.

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