Stai leggendo: "Salvaci, o Salvatore" di Quinto Moro
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Non avrebbe dovuto bere tanta acqua. Nicolas era tanto fiero della sua borraccia termica da escursione. Teneva l’acqua fresca, e le dava come un sapore diverso, vagamente plasticoso ma gradevole, così ci andava giù pesante, a volte ingollando tutto già prima della ricreazione. Peccato che la sua vescica fosse troppo piccola per tutta quell’acqua.
I giorni dell’asilo erano finiti, i giorni dell’arsura, quando le suore, consumate le bottiglie d’acqua preventivate per il pranzo, lasciavano tutti all’asciutto. D’inverno non succedeva, ma quando maggio iniziava a sparare i suoi raggi dalle vetrate sull’androne e scaldare il soffitto basso e rendere soffocanti le piccole aule, ecco che iniziava la stagione del caldo. A nessuno era permesso togliere il grembiule prima dell’orario d’uscita, cosa che contribuiva a far sudare tutti ancora di più. Le bambine erano quelle che se la passavano meglio, e se ne stavano a giocare bel belle guardando di traverso i maschietti lamentosi e sudaticci. E certo. Loro avevano le gambette nude e potevano permetterselo, con le benedette gonnelline sotto il grembiule. Per i maschi, indossare i calzoncini corti era proibito. Non dalle suore, non dai genitori, che anzi cercavano di convincerli – con l’inganno! Subdoli maledetti! – ma dal sacro codice delle prese per il culo tra maschi, perché il dannato grembiule indossato sui calzoni contri faceva sembrare tutti un branco di femminucce in gonnellino.
A cominciare la stagione delle canzonature era stata una bambina di nome Valeria. Nessuno sapeva in che epoca. Di tanto in tanto spuntava una Valeria in qualche classe, e nella concezione del tempo dell’asilo, in cui quelli di sei anni sono “i grandi”, poteva essere sempre lei la maledetta. Nell’asilo di Nicolas le Valerie non avevano mai avuto vita facile, eternamente odiate da tutti i maschi d’ogni classe per aver riso in ogni epoca del primo che si fosse azzardato a mostrare le ginocchia sotto il grembiule, additandolo come “femminuccia”.
Nicolas guardava con orrore alla foto di classe dell’anno prima, dove suo cugino se ne stava nella fila più in basso, gobbo e curvo in avanti, coi pugni stretti sul grembiule nel vano tentativo di coprire le ginocchia scoperte. Quella foto sarebbe rimasta per sempre, a imperitura memoria d’umiliazione. Nicolas aveva giurato di non subire lo stesso fato. Se non fosse sopravvissuto al caldo dell’asilo, non avrebbe mai potuto attraversare il deserto. Non che gliene importasse qualcosa, ma quella sofferenza doveva servire a qualcosa. Casomai si fosse ritrovato senz’acqua nel Sahara, avrebbe ringraziato quell’esercizio di arsura.
La cosa peggiore di quei pomeriggi all’asilo, con l’orologio che scorreva troppo lento per l’ora di chiusura, erano le bottiglie di plastica ammassate dalle suore davanti alla vetrata. Tutte inesorabilmente vuote, e giù a litigare per l’ultimo sorso se qualcuna mostrava poche gocce sul fondo. Nicolas non capiva perché le suore mettessero le bottiglie proprio lì, davanti alla finestra, davanti ai loro occhi avidi e lingue secche. Guai a chiedere un bicchiere d’acqua del rubinetto, perché “l’acqua del rubinetto fa male” e perché “i bicchieri sono già stati lavati”. Non si poteva nemmeno sfidare la sorte aggrappandosi ai rubinetti del bagno, perché i bagni erano chiusi, e se ti scappava era pure peggio della sete.
Nicolas avrebbe voluto diventare un inventore, per ricostruire la macchina filtra pipì di “Waterworld”. Non aveva idea di come costruirla, ma non era questa la cosa più urgente: se non fosse riuscito a portarla dentro, sarebbe stata un’invenzione inutile, perciò Nicolas perdeva più tempo a scervellarsi su come passare i controlli doganali delle pinguine. Era assolutamente vietato portare qualsiasi oggetto da casa, e per nasconderla sotto il grembiule avrebbe dovuto essere piccola. Più piccola di una bottiglietta d’acqua da mezzo litro. Una volta aveva provato a portarne una, tenendola infilata tra le gambe e causando uno scandalo terrificante. Tutti – le suore, le mamme, le compagne – l’accusarono di voler fingere un pisello enorme. Nicolas non capì perché avrebbe dovuto fingere una cosa del genere, anche i suoi compagni maschi proprio non si spiegavano perché qualcuno dovesse desiderarlo. Con loro se la cavò con una spiegazione a buon mercato, facendolo passare per un test per portare dentro una bottiglietta d’acqua piena. Furono giorni di strani esercizi e strane camminate tra i maschietti della classe, a cui portare un po’ d’acqua da case parve un’idea brillante. Nicolas sapeva che questo non avrebbe risolto il problema. Chissà che litigi per qualche sorso d’acqua tra chi riusciva a portar dentro la bottiglia e chi non ci riusciva – o peggio, chi neppure tentava ma certamente avrebbe cercato di rubare l’acqua degli altri. La sua invenzione – cioè l’invenzione del mutante di Waterworld, rivista, ridotta e perfezionata – avrebbe risolto i problemi di tutti. Decise comunque di non parlarne mai con nessuno, per non farsi fregare l’idea.
Lo scandalo della bottiglietta tra le gambe di Nicolas fu dunque archiviato e sostituito da incidenti più imbarazzanti, come le due paia di mutande trovate nello scatolone delle costruzioni – un paio da maschio e un paio da femmina – e la cacca sui capelli di Daniela. Il primo scandalo venne messo a tacere dalle pinguine, che lo negarono spudoratamente coi genitori, facendo passare i bimbi per un mucchio di bugiardi dalle fantasie peccaminose, a cui proibire la tv fintanto che “Non è la Rai” fosse andato in onda.
Fu di maggior interesse il caso della cacca nei capelli di Daniela, cui proprio la teoria di Nicolas diede l’immortalità. Daniela aveva lunghi capelli biondi, e Nicolas che l’aveva sentita affermare con gran furore che le bionde non sono affatto stupide, suggerì si fosse spalmata la cacca sui capelli per diventare mora così da non passare mai più per stupida. Dopotutto era stata Daniela ad additare la bottiglietta nascosta sotto il suo grembiule.
Ricordi. Maledetti ricordi di sete e voglia di far pipì. Gli tornavano sempre in mente quando si trovava a scuola – frequentava la quarta elementare e presto avrebbe compiuto dieci anni – e gli scappava da morire. Nicolas iniziava a fantasticare al primo stimolo, poi si perdeva del tutto nei ricordi dell’asilo, epoca di cui i suoi compagni si vantavano d’aver rimosso già ogni ricordo. Circolava infatti tra i novenni la convinzione d’essere al casello d’ingresso per la grande autostrada dell’età adulta, teoria nata dalla semplice scoperta che una volta raggiunta la doppia cifra, l’avrebbero tenuta per tutta la vita. Che avessero trenta o settant’anni, gli adulti avevano un’età a due cifre, esattamente come chi ne aveva dieci o undici.
“Nicolas, qual è la risposta?”
Maestra Iside lo guardava da sopra gli occhiali, innaturalmente abbassati sulla punta del naso. Teneva la testa china e lo sguardo torvo puntato nella sua direzione. Ad una ad una, le testoline dei compagni si stavano voltando verso di lui. Nel banco accanto al suo, Cristian ridacchiava perfido, beandosi dell’umiliazione dell’ex amico. Nicolas non aveva mai capito cosa diavolo fosse successo tra loro due, lui e Cristian erano stati buoni amici per due anni, poi di punto in bianco aveva cominciato a fare lo stronzo e a dargli il tormento.
“Allora Nicolas, puoi dircelo visto che da tutta l’ora stai con la testa tra le nuvole”
Nicolas smise di guardare i compagni e fissò la maestra con sguardo vago. Pugni stretti sul banco e busto irrigidito mentre le gambe scalpitavano per trattenere la vescica. Chiunque avrebbe capito che se la stava facendo sotto, e non perché non conosceva la risposta. Chiunque, ma non lei.
“Stai composto, smettila di muovere i piedi”
Nicolas alzò la mano.
“Sì Nicolas, stiamo aspettando la risposta”
“Posso andare in bagno?”
Risate. Quella di Cristian lì vicino fu la più truce e sguaiata di tutte.
“Prima devi rispondere”
Nicolas guardò la lavagna: numeri. Matematica. Era l’ora di matematica, non ci aveva fatto minimamente caso. L’anno prima, Maestra Iside insegnata storia e geografia. Nicolas si chiese se le Maestre tiravano a sorte con le pagliuzze lunghe e corte per decidere le materie, e chi pescava la pagliuzza corta finiva a far lezioni di matematica o di religione.
Non c’era tempo per fare calcoli, e se ci avesse pure provato, fallendo, si sarebbe sentito umiliato. Meglio buttarla lì, sbagliare consapevolmente o azzeccarla di culo.
“Quarantadue” sparò Nicolas.
Il dito di Maestra Iside, puntato sulla lavagna neanche fosse ciò che la teneva appesa al muro, s’ammosciò con tutta la mano. Il braccio le ricadde lungo il corpo, come delusa dalla risposta esatta.
“Va bene” disse con tono indispettito “puoi andare in bagno”.
Nicolas scattò verso la porta con un moto d’entusiasmo e un’occhiata tagliente a Cristian che lo guardava con sguardo intriso d’odio. Fu sul punto di fargli il dito medio, la maestra a sguardo chino non l’avrebbe visto ma c’era tutta una prima fila di spioni che non valeva il rischio. Uscì quasi sulle punte, alleggerito nello spirito, dimentico di cosa l’aspettava fuori dalla porta. La soddisfazione svanì subito. L’androne era enorme, vuoto, freddo. Le vetrate poste a cinque metri da terra, sulla muraglia nel lato opposto alla sua aula, vibravano battute dal vento. Il soffitto era altissimo ed era stato rifatto l’anno prima. Durante l’estate un pezzo del soffitto s’era staccato e la scuola era rimasta chiusa sino a novembre. Le classi del caseggiato A – compresa la sua – erano state spostate nella scuola dall’altra parte del paese, un posto dai soffitti bassi, molto simile all’asilo delle suore, pur privo dell’austero odore di varechina che da sempre animava i pavimenti delle stanze battute dagli spettrali passi delle pinguine.
Tornare alla vecchia scuola era stato bello, anche se Nicolas manteneva una certa diffidenza verso il soffitto ballerino. Faceva la strada tra l’aula e il bagno fermandosi ogni quattro o cinque passi, scrutando le scure travi maculate di muffa in cerca di cedimenti, ma non poteva starsene fermo troppo a lungo in mezzo all’androne. Non da quando Salvatore aveva una nuova insegnante di sostegno.
Nicolas si tratteneva ancora dal dire parolacce, ma le inseriva con sempre maggior frequenza nei suoi pensieri. Salvatore un cazzo, pensava, chi ci salverà da lui?
Si diceva che la mamma di Salvatore fosse una gran religiosa, o che lo fosse diventata per la vergogna d’esser rimasta incinta. Chissà se nel dargli quel nome sperava che suo figlio diventasse come il buon Gesù, a cui per altro aveva cercato di farlo somigliare sin da piccolo, facendogli crescere i capelli e vestendolo di bianco.
Salvatore non sarebbe diventato come il buon Gesù. Era malato. Era “un bambino con dei problemi”, come diceva la mamma di Nicolas, che non permetteva di usare quell’espressione con cui tutti gli altri lo chiamavano: handicappato. Era vero, Salvatore era un bambino con dei problemi, ma anche tutti gli altri bambini ne avevano, e uno di questi era proprio lui. Quando si aggirava per gli androni della scuola non c’era modo di vederlo arrivare. Se ne stava in agguato dietro gli angoli, nei gabinetti, dentro i bidoni della spazzatura – quelli grossi e neri. C’era chi, vedendolo aggirarsi per un caseggiato sgattaiolava in quello accanto, andando nel gabinetto più lontano, ma non serviva. Salvatore era uno scattista nato e un segugio assuefatto al puzzo di paura. Se qualcuno cercava di scappare proprio da lui, lo sentiva. A pisciare nel caseggiato B invece che nel caseggiato A si correva solo il rischio di farsela sotto lungo la strada, inseguiti dalle sue urla e dai suoi scatti brucianti.
Quand’era di buonumore, Salvatore si limitava a far prendere un colpo alle sue vittime, sbucando fuori da un angolo ululante come un lupo mannaro, bocca spalancata e occhi spiritati. I bambini avevano capito che fingersi spaventati lo rendeva contento, anche se non c’era bisogno di fingere.
Sino all’anno prima, Salvatore era sempre scortato dall’insegnante di sostegno, ma quella nuova non aveva voglia di stargli dietro, così quando lui andava a zonzo lei stava a bere caffè e chiacchierare coi bidelli, togliendo altri occhi alla sorveglianza degli androni.
Nicolas pensava alla pipì nella sua vescica come benzina, carburante per un’accelerata a tutta velocità da un lato all’altro della scuola, nella speranza d’essere più veloce di soffitti cadenti e bambini ululanti. Entro nel bagno di gran carriera, schivando il bidone nero della spazzatura alto quasi quanto lui, s’arrestò con uno stridio delle scarpe sulle mattonelle bordeaux, diede un’occhiata veloce ai gabinetti: nessuno in agguato. Entrò nell’ultimo gabinetto in fondo, era ancora pulito e odorava dello stesso detersivo che usava sua mamma per il bagno. Alzò la tavoletta e s’arrampicò sulla tazza, coi talloni piazzati sul bordo, frontalmente alla porta. Non c’era da fidarsi a stare di spalle. A settembre, la prima settimana di scuola, Cristian aveva fatto irruzione calciando la porta, Nicolas s’era fatto una bella strisciata di pipì sui pantaloni e sulle scarpe, e l’ex amico non aveva mancato di farlo notare a tutta la classe. Gli avevano riso dietro per un mese.
A conti fatti, Salvatore non era il peggiore da cui doversi guardare le spalle, specialmente al gabinetto. Meglio starsene in piedi sulla tazza, così chiunque avesse provato a disturbarlo nella sacralità del momento, avrebbe alzato il tiro pisciandogli direttamente in bocca. Quell’idea lo divertiva sempre e finalmente si liberò la vescica con un sorriso, saltò giù, rimise la tavoletta a posto, tirò la catena e andò a lavarsi le mani.
Il peggio sembrava passato, ma il bidone nero tra lui e la porta non gliela raccontava giusta. Sembrava la testa di un robot. Sulla nera superficie di plastica, ritorta dai calcioni dei bambini e sformata dai dentro e fuori di Salvatore – e di altri che trovavano infilarsi là dentro divertente – sembravano formarsi ogni volta lineamenti diversi, deformi maschere di mamuthones assassini, di ghignanti spiriti della notte, di robot assassini tornati indietro nel tempo dal 2029 per trucidare i loro nemici umani.
Nicolas passò le mani bagnate sui capelli per rinfrescarsi e darsi coraggio, oltre che per aggiustare il ciuffo ribelle. Avanzò lento sino al bidone, gli sferrò un calcio e corse fuori dal bagno. Si fermò qualche passo oltre la porta, aspettando di vedere il coperchio saltar fuori e Salvatore urlare in preda all’ira. Aveva qualche metro di vantaggio, forse non abbastanza visto che Salvatore dall’alto dei suoi tredici anni e gambe più lunghe delle sue non ci avrebbe messo molto a raggiungerlo, e Nicolas non era certo un corridore provetto. Ma il bidone rimase immobile. Anzi s’era mosso un poco, ondeggiando per il calcio sino a stabilizzarsi. Il colpo era suonato a vuoto. Non c’era nessuno dentro. L’androne era deserto. Le vetrate vibravano. Non si sentivano le urla delle maestre né il chiasso dei bambini nelle aule. La scuola sembrava deserta. L’aria fredda sibilava tra le finestre e le fessure sotto le porte. Dalle pareti, i cartelloni disegnati con le immagini di “Cappuccetto Rosso” e “Hansel e Gretel” gli mettevano i brividi. L’avevano terrorizzato per i primi due anni di scuola, e ancora gli mettevano addosso qualche brivido. Erano stati dipinti con le dita da classi di bambini che nessuno aveva conosciuto, erano lì da anni, così tanti che quei bambini potevano essere morti, o dipinti direttamente dai loro spettri. Vivi o morti che fossero al momento dell’opera, avevano certo il senso dell’orrido e la paura nel cuore: uno dietro l’altro, i cartelloni tratteggiavano boschi d’alberi spettrali nei loro tronchi nerastri e fronde d’un verde spento sotto cieli plumbei. Le piccole impronte di dita e palmi con cui erano stati disegnati davano l’idea di tante piccole mani staccate a colpi di mannaia e appese dalla strega al posto dei frutti, per nutrire avvoltoi e corvi. Cappuccetto era una minuscola chiazza rossa senza faccia, vista di spalle, e con orrore immaginava il suo volto terrorizzato davanti al lupo antropomorfo e sorridente che sbucava dagli alberi. Quel fottuto lupo quel fottuto sorriso. Doveva sembrare simpatico alle maestre, per niente spaventoso. Per Nicolas era il ghigno soddisfatto di chi si vede apparire il pranzo di fronte. La cosa che più dava i brividi era la bocca del lupo. Non perché fosse grande, al contrario. Era piccola, troppo piccola per ingoiare una bambina per intero. Il lupo non avrebbe mai potuto mangiarsi Cappuccetto in un sol boccone. Nicolas l’aveva sempre sospettato, ma vederlo nelle illustrazioni toglieva ogni dubbio, e quel cartellone glielo ricordava ogni volta: Cappuccetto veniva mangiata in ogni versione della storia. Per provare a rassicurarsi all’idea che Cappuccetto potesse cavarsela, una volta Nicolas aveva provato a ingoiare una polpetta per intero. S’era quasi strozzato e sua mamma era morta di paura. Se lui non riusciva a ingoiare una polpetta senza morire soffocato, il lupo non poteva mangiare Cappuccetto senza masticarla e farla a pezzi. Forse il suo cappuccio era bianco oppure rosa, da femmina, ed diventava rosso tra un morso e l’altro del lupo. Ma questo la fiaba non lo diceva.
Nicolas distolse lo sguardo dal lupo e cercò il cartellone di Hansel e Gretel, quella fiaba gli piaceva molto di più. Si chiese se i fratellini avessero dato un morso alla strega, una volta bruciata nel forno. Così, per ripicca, visto che aveva cercato di mangiare loro. Quello sì che sarebbe stato un bel finale, non col ritorno tra le braccia del peggior padre del mondo che li aveva già abbandonati una volta.
Quando raggiunse la porta della sua aula, alleggerito nella vescica e nello spirito dalle fiamme disegnate sul falò della strega cattiva, si sentì afferrare da una forza sovrumana. La schiena di Nicolas batté contro la porta con tonfo sordo. Una mano gli afferrava il collo, premendo in su, contro la mascella per fargli alzare lo sguardo. Le lunghe ciocche di capelli ondulati chiudevano la strada ad ogni occhiata d’aiuto. Il fiato di marcio anticipava il tetro mosaico di denti giallastri incrostati, abrasivi.
“Salvatore” sussurrò Nicolas.
“Stai fermo. Stai fermo Nicolas, o ti cavo un occhio”
Nicolas fu più sorpreso di sentirsi chiamare per nome che della vite, lunga e luccicante, che spuntava tra il pollice e l’indice di Salvatore, puntata dritta al suo occhio destro.
Nicolas sentì le mutande inumidirsi. Non tanto. Quell’ultimo schizzetto lasciato dentro per la fretta di finire, di non esser sorpreso da ex amici e nuovi nemici, se n’era uscito in un istante.
Salvatore era troppo alto e troppo forte per lui. Lo sovrastava. La pressione della sua mano alla gola non gli impediva di respirare, anzi, gli lasciava fare grandi boccate di paura, gli dava il tempo di immaginare la vite torcersi nell’occhio come un tirabusciòn con un tappo di sughero da una bottiglia di novello, e con lo stesso suono.
Nicolas rimase lì per infiniti secondi, poi com’era apparso, Salvatore sparì, correndo via senza stappargli il cranio. Nicolas batté la testa in un sospiro di sollievo, si guardò i pantaloni dove sentiva umido, non era apparsa alcuna chiazza. Rientrò in classe dove Maestra Iside lo aspettava con occhi fiammeggianti.
“Si può sapere dov’eri? Sei stato fuori mezz’ora, e poi come ti viene in mente di dare calci alla porta?”
Alcune teste erano chine sui quaderni, trascrivendo gli appunti alla lavagna. Il suo nemico Cristian gli faceva dei gestacci, e a giudicare dagli occhi guizzanti tra Nicolas e il suo banco, era stato lui a svuotargli l’astuccio e fare scempio del suo libro di testo.
“Allora?” incalzò la maestra “non hai niente da dire? La prossima volta ti mando a cercare”
Nicolas distolse lo sguardo dagli occhiali della maestra. Il luccichio sulla montatura degli occhiali fece balenare la sagoma della vite sotto la sua pupilla e istintivamente chiuse l’occhio destro. Quando lo riaprì vide le sporcature di gesso sul polsino della camicia, il braccialetto d’oro, la mano ossuta della maestra e il gesso puntato sulla lavagna.
Nicolas alzò la mano, come per fare una domanda, boccheggiando. Le lettere storte sulla lavagna sembravano le sagome argillose dei denti di Salvatore. Allungò il dito a metà strada tra il volto della maestra e le scritte alla lavagna.
“Ma quoziente” disse “non si scrive con la doppia zeta”
Maestra Iside tacque, poi cancellò tutto. Tutto quanto, viola di rabbia e vergogna. Dalla classe partirono poche risate, l’occhiataccia della maestra zittì tutti, accompagnando sfregamenti di gomme sui fogli dove dell’errore era stato riportato.
Nicolas passò il resto dell’ora a rimettere in ordine l’astuccio e lisciando le pagine del libro sgualcito. Cristian prese a tempestarlo con lanci di pezzetti di carta, sinché Nicolas prese le misure dei lanci riuscì a schivarne due, tanto da farli diventare più rabbiosi e frequenti. Quando la maestra se ne accorse c’era un tappeto di palle di carta intorno al banco di Nicolas, e stava già prendendosela con lui quando tre compagne – tutte femmine – additarono il vero colpevole.
Cristian finì la lezione in castigo da solo, al primo banco. Ogni tanto si voltava a guardare Nicolas con odio. Nicolas non lo degnava più d’uno sguardo. Riusciva a concentrarsi solo sull’umidore nelle sue mutande, che andava asciugandosi, ma non sapeva se era solo un illusione, così come l’odore d’urina. Era presente o passato? Veniva dalla pisciatina troppo fugace o dai suoi pantaloni? Se Salvatore gli avesse cavato l’occhio, sarebbero riusciti a ricucirglielo? O sarebbe andato in giro con una benda per il resto della vita come Willy l’Orbo? Non avrebbe potuto fare il pilota di caccia, né di formula uno. Servivano occhi e orecchie perfetti per quello, come per fare l’astronauta. E il calciatore? Forse poteva giocare sulla fascia. L’astronomo, quello sarebbe stato un buon mestiere per un orbo, visto che per guardare nei telescopi ci si tappava un occhio.
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>>> continua