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Stai leggendo: "Salvaci, o Salvatore" di Quinto Moro

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2. 

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All’uscita di scuola, Nicolas stava ancora rimuginando. Era passato dai mestieri da orbo ai sistemi di difesa oculare. Dapprima aveva pensato a una maschera da sub, poi agli occhialini da piscina. Li avrebbe tenuti in tasca e indossati al momento di uscire dall’aula. Sembrava un’ottima idea, se solo avesse saputo come procurarseli. Era così sovrappensiero da non sentire il chiasso che si agitava intorno a lui, le urla dei bambini e le auto dei genitori che si fermavano in mezzo alla strada per prendere a bordo i figli, bloccando tutto il traffico e facendo salire osanna di bestemmie e clacson. Nicolas era così sovrappensiero che non si accorse della spinta, se ne pigliavano tante là nella calca. Quando incassò la seconda riconobbe il tocco rude di Cristian. Una volta si spingevano per gioco, quasi con affetto, adesso ogni uscita da scuola era un misto di spintoni e calci in culo e pugni alle costole. Cristian l’afferrò per il collo, lo torse e lo mise spalle al muro. Ci fu un rimbombo. Le pareti tutt’intorno alla scuola erano coperte di pannelli d’alluminio dove ciclicamente s’appiccicavano i santini giganti di poco santi aspiranti governanti. Tutti i bambini li prendevano a calci e pugni per fare rumore, perciò la schienata di Nicolas non attirò chissà quali attenzioni.

Ci risiamo, pensò Nicolas. Cristian gli stava dirimpetto, una mano sul colletto e l’altra sul collo. I pannelli d’alluminio flettevano, sbatterci contro non faceva poi tanto male. Dopo quanto successo con Salvatore, Cristian non faceva poi così paura: avevano la stessa età, non era tanto più grosso di lui.

“Non ho più paura di te” disse Nicolas senza pensare. Cristian lo lasciò, rimasero a fissarsi mentre la folla li spingeva più in là di qualche passo, sempre dirimpetto uno all’altro, oltre i pannelli di alluminio, vicino all’angolo che di lì a un minuto Nicolas avrebbe girato per tornarsene a casa. Si sentiva già vincitore quando Cristian gli mise le mani in faccia e gli batté la testa contro il muro una, due, tre volte, per poi sparire tra la folla.

 

Nicolas si risvegliò nel suo letto con un gran mal di testa. Una benda gli avvolgeva la testa e pressava i capelli sudaticci sulla fronte. Sul comodino c’era un bicchiere vuoto e un blister di pastiglie. La testa gli affondava in un cuscino che non era il suo, enorme e morbidissimo. Rigirandosi sentì una fitta lancinante all’occipite, parola di cui non era a conoscenza ma che avrebbe imparato dai referti del pronto soccorso.

Gli avevano rasato i capelli in tutta la zona occipitale, avevano messo tre punti – uno per ciascuna craniata – appiccicato un cerottone quadrato e imbottito – non abbastanza – per poi fasciare il tutto con tre metri di garza. Ovviamente gli avevano chiesto chi fosse stato e ovviamente lui aveva mentito dicendo di non ricordare. Nel marasma di bambini e genitori che affollavano lo stradone all’uscita di scuola, nessuno aveva visto niente. Qualcuno lanciò un’accusa a Salvatore, il bambino problematico che non era un bambino e che non avrebbe dovuto stare coi bambini. Nicolas si scoprì a difenderlo e negare tutto. Ricordava perfettamente l’episodio, la paura, il plop che aveva immaginato nel suo occhio estratto, oppure esploso come una pustola al contatto con la vite appuntite. Ma non era stato Salvatore, e furono in molti a testimoniarlo poiché tutti i genitori lo tenevano ben d’occhio quello lì, che non si sapeva mai cosa gli girasse per la testa.

I dottori dissero che era normale per Nicolas non ricordare nulla, che il suo cervello si stava proteggendo dal trauma. Si parlò della calca, di come forse il bambino fosse caduto e rimasto calpestato dalla folla, adulti compresi. Solo la mamma osservò che in quel caso ci sarebbero state altre tracce sui vestiti e sul corpo. Il papà avrebbe crocifisso il primo sospettato solo per sentirsi di qualche utilità. Nicolas, che s’era risvegliato di sabato, accettò le pressioni dei nonni per farlo andare in chiesa l’indomani per ricevere una benedizione. La testa gli pulsava come se un’enorme zanzara gli si fosse attaccata al collo e gli stesse succhiando via il cervello a grandi poppate. Il dolore gli impediva di ascoltare i suoi stessi pensieri e quando si attenuava vedeva le facce di Cristian e Salvatore. Sentiva il tonfo della sua schiena contro la porta di legno dell’aula, del cranio contro il muro d’angolo della scuola.

A messa, il prete gli si avvicinò agitandogli in faccia quel suo scettro bucherellato, spruzzandogli l’acqua santa sulla faccia e sulla testa. Agli occhi speranzosi della nonna che chiedeva rassicurazioni sulla sparizione del dolore, Nicolas mentiva riconoscente di tante attenzioni. La litania della messa era piacevole da ascoltare in quello stato di confusione lancinante, il sommesso ripetersi dei versi del coro e dei fedeli l’accompagnavano in un sonno lucido. Gli occhi gli si chiudevano per il sonno, poi scattavano aperti a qualche frase.

“…risurrezione, salvaci o Salvatore, salvaci, o Salvatore, o Salvatore del mondo”.

“Salvatore” ripeté Nicolas “salvami, o Salvatore” e la nonna lo strinse a sé un poco, asciugandosi le lacrime dagli occhi.

Quella era la messa delle nove e mezza, ma per le undici ce ne sarebbe stata un’altra. C’era qualcosa, nel passo di giornata oggetto della predica domenicale, che Nicolas aveva sentito distrattamente. Dopo una capatina alla pasticceria impreziosita da cioccolata calda e bignè alla crema, tornarono a sedersi per un altro giro di preghiera.

La chiesa era più vuota e le facce dei fedeli mediamente più giovani rispetto al solito. La funzione fu più corta della precedente ma Nicolas capì cosa gli era passato troppo veloce tra un orecchio e l’altro, in quel tumulto di mal di testa e canti.

“Io sono la vite e voi i tralci” aveva detto il prete.

“Io sono la vite” ripeté Nicolas. La vite. La vite e l’occhio. Salvaci. Salvaci o Salvatore. Salvatore. Salvatore.

>>> continua

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