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Stai leggendo: "L'autista" di Quinto Moro

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Capitolo 5

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L’acqua era fredda nonostante il sole caldo che batteva sul volto madido e tumefatto. Salvo non si sentiva le gambe né le braccia ma andava bene così. Il cielo gli scorreva davanti agli occhi e quasi s’addormentò a contare quelle pecorelle lontane. Ma doveva restare sveglio. Non sapeva quanto fosse ferito. Era stato sbalzato fuori nell’istante in cui l’autobus s’era schiantato sull’argine del fiume. La fortuna arride agli audaci, e lui era stato ben audace quel giorno, perciò era finivo panza all’aria e non era annegato. Aveva ripreso i sensi dieci o venti minuti dopo lo schianto, aveva in bocca il sapore del suo sangue, ed era il miglior sapore del mondo perché gli diceva d’essere ancora vivo.

Dopo un po’ sentì di riuscire a muovere le braccia, poi le gambe. Aveva passato un ponte e un altro. Sentiva sempre più distinto il rumore del traffico, più forte dello sciabordio dell’acqua intorno.

Il fiume andava a morire a due passi dal porto. Ebbe ancora una mezzora per riflettere su cos’avrebbe fatto. Si tastò le tasche, non aveva più portafogli né chiavi. Sarebbe stato bello uscire dall’acqua, darsi una scrollata e fare due passi lungo la banchina del porto fino al parcheggio. Avrebbe messo in moto e tornando a casa sarebbe rimasto imbottigliato nel traffico dei soccorsi all’autobus incidentato. Magari avrebbe fatto il giro lungo dalla provinciale per evitare il casino. Ma era sanguinante e pesto. Senza chiavi, telefono e portafogli l’ideale era inscenare un’aggressione a scopo di rapina. Così fece.

Salvo finì su una bretella d’arenile sotto un ponte, tra mucchi d’immondizia e strati di polistirolo e plastica che componevano un mosaico maleodorante di pesce morto e posidonia. Caracollò fino alla prima auto parcheggiata per esaminare la sua faccia. Era irriconoscibile, aveva impattato con la parte destra sul parabrezza e la fronte e lo zigomo sembravano di due taglie più grossi. L’occhio era rosso ma ci vedeva ancora. Il naso era rotto e s’accorse di non riuscire a respirarci, l’aveva fatto con la bocca per tutto il tempo, diversamente zampillava. Le gambe erano a posto, un dolore a una coscia ma niente di più. Il costato e il braccio destro gli facevano un male cane. Con coraggio, esaminò la faccia perché non ci fossero pezzi di vetro che contrastassero con la sua storia.

Qualcuno gli stava gridando contro, di allontanarsi dalla sua macchina, dandogli del barbone di merda. Biascicò qualcosa, la mascella era gonfia e non riuscì a spiegarsi, ma dopo un po’ il tizio capì che non era un barbone. Fu chiamata un’ambulanza e, adagiato sul lettino e tra le calde mani di una volontaria dalla tuta arancione ben rigonfia in zona pettorale, poté finalmente svenire.

 

“Così è stato aggredito”

La voce veniva dall’angolo destro, reso cieco dalla fasciatura all’occhio. Il sole che filtrava dalla finestra gli batteva sulla guancia sinistra rendendolo quasi del tutto cieco. Fece per annuire e parlare, ma aveva la bocca e il collo fasciati. Sua moglie ai piedi del letto gli accarezzava un piede che nudo e in bella mostra lo fece subito sentire meglio, perché almeno lì non aveva dolore e non c’erano tagli o ferite.

“I dottori hanno detto che potrà parlare tra qualche giorno” disse la moglie in sua vece, rivolta a quell’angolo buio a destra.

L’uomo in divisa si mise ai piedi del letto e Salvo poté vederlo.

“Ha detto qualcosa agli infermieri ma non hanno saputo dirci da chi è stato aggredito. Non aveva oggetti personali quindi pensiamo a una rapina. La sua macchina è ancora nel parcheggio vicino al porto come ci aveva detto lei, quindi è stato aggredito nel tragitto. Può darsi che sia caduto in acqua dopo o che ce l’abbiano buttato. Ci sono stati un sacco di disordini vicino al porto, con lo sciopero c’è stata tensione alla stazione degli autobus, una rissa con degli extracomunitari, poi è stato rubato un mezzo”

“Sì ho sentito, quello che ha avuto l’incidente, proprio a due chilometri dal mio paese” disse la donna “tutti quei morti”

“Dobbiamo aspettare che suo marito si riprenda perché ci dia i dettagli sull’aggressione, telefonate in caserma quando lui riuscirà a dire qualcosa o a scrivere”

La donna annuì. L’uomo in divisa svanì nuovamente nella zona d’ombra.

 

Salvo mangiò i suoi pasti da una cannuccia per un paio di giorni. Non aveva subito fratture alla mascella, gli infermieri scherzavano sulla sua brutta faccia, rassicurandolo che tutto sarebbe tornato alla normalità, dipendeva solo da quant’era stato brutto prima dell’aggressione. Aveva riportato fratture su tre costole, al braccio e alla mano destra, abrasioni e tumefazioni sul sessanta per cento del corpo. Alcune ferite s’erano infettate a causa dell’acqua lercia in cui era stato immerso. L’aspettava un mese in ospedale e un altro di riposo a casa. Gli era andata di lusso considerando il fato dei suoi defunti passeggeri. Non aveva avuto il tempo di contarli nel caos, erano trentasette in tutto. Trentaquattro erano morti nell’incidente, uno durante il trasporto in ospedale ed uno sotto i ferri. L’ultimo sopravvissuto stava in prognosi riservata.

Le pagine dei giornali s’erano riempite per giorni dei dettagli più truculenti della storia, di come una vecchia fosse morta soffocata nel fango, di chi era morto carbonizzato nell’incendio del serbatoio e così via. C’erano poche speranze per il trentasettesimo sopravvissuto e gli inquirenti non avevano cavato dalla folla informazioni chiare sulla dinamica degli eventi.

La foto di Salvo era stata pubblicata il giorno dopo l’incidente, in un trafiletto di cui pochi s’erano curati con una tragedia ben più succosa tra le mani. Il suo volto era irriconoscibile. Durante la prima settimana la responsabilità era ricaduta sulla cricca di extracomunitari coinvolti nella rissa. Quando poi l’identità e nazionalità di tutte le vittime era stata accertata la gogna passò all’azienda dei trasporti. Già si prospettava un maxi processo intentato dai famigliari delle vittime, la bancarotta sembrava inevitabile. La polizia aveva messo i sigilli alla stazione e il trasporto pubblico regionale era rimasto paralizzato. Dal letto di ospedale Salvo acquistò un cospicuo pacchetto di azioni dell’azienda che avrebbe probabilmente preso in mano il sistema dei trasporti, con un’impennata del valore medio prevista di lì a sei mesi. Le ragioni dello sciopero erano state dissezionate e rivoltate come calzini, trasformandolo in un atto puramente arbitrario. Gli autisti scioperanti erano stati biasimati su ogni giornale e rete televisiva del Paese, e s’erano scatenate qua e là aggressioni ai loro danni.

La faccia di Salvo riacquistava lentamente la forma e la parlata tornava comprensibile. I coinquilini di stanza, che non vedevano l’ora di sentire informazioni di prima mano, cominciarono a dargli il tormento. La moglie non si era mai prodotta in grandi spiegazioni dell’accaduto, sia perché delle parole smozzicate del marito aveva capito poco, e perché non era certo una calorosa conversatrice. Anzi Salvo s’era accorto che già dopo le prime due visite stava sul cazzo a tutti, pazienti e medici, il che gli aveva gettato un velo d’antipatia trasversale che l’aveva risparmiato dai discorsi complici degli allettati. Ma poiché Salvo era uomo di mondo e non mancava di associarsi ai discorsi con qualche gesto del braccio sano, con un pollice alto, una risatina, un’agitata di piede, s’era conquistato un po’ di consenso. Adesso che riusciva ad esprimersi in una lingua cristiana, la curiosità sull’accaduto cresceva. Nei primi giorni i discorsi erano stati tutti per il disastro dell’autobus e la moria dei trentasei. Quasi con sorpresa Salvo si rese conto di non avere grandi sensi di colpa. I dolori dello schianto bastavano ad assorbire tutte le sue angosce, rifinite dalla paura che prima o poi qualcuno lo riconoscesse come conducente. Si immaginava spesso, negli interminabili pomeriggi silenti movimentati solo dal russare dei suoi coinquilini sonnecchianti, di venire intervistato in qualche talk-show. Là avrebbe spiegato cosa l’aveva spinto a quell’impresa folle, e si sarebbe profuso in appassionati discorsi sul darsi da fare, perché cos’altro era lui se non un uomo volitivo che di fronte al lassismo degli scioperanti s’era immolato per dare ai poveri appiedati il giusto passaggio per tornare a casa? Avrebbe potuto dare la colpa all’autobus, alla scarsa manutenzione e anzianità del mezzo, all’inefficacia dei guardrail, alle gomme lisce. O alla maleducazione dei suoi passeggeri che parlavano tutti insieme al conducente, che al conducente non si deve mai parlare, e come in una sit-com ci sarebbe stata una risata per smorzare la tragedia. Dopotutto chi era morto? Per lo più vecchi e vecchiette, qualche giovane senza prospettive. Degli uomini che si trovavano a bordo, lavoratori non pensionati, non sarebbero certo passati alla storia per il loro contributo all’economia del Paese se non potevano permettersi un’automobile e dovevano viaggiare in autobus. Chi era pensionato poi, da stecchito non avrebbe più gravato sulle casse previdenziali. Al costo di un autobus distrutto aveva fatto risparmiare all’erario dieci volte tanto, o cento, in una spesa calcolata sul lungo periodo della loro aspettativa di vita.

“Ma insomma” disse il glabro e grassoccio ammasso di nei e coperte sdraiato nel letto davanti al suo “cosa le è successo alla fine?”

“In quanti erano?” rilanciò il vicino a destra. La testa di Salvo era ancora fasciata dal mento alla fronte, e la benda sullo zigomo accecava ancora l’occhio, così a quella voce poteva a malapena dare un volto.

Fece gesto con la mano: quattro-cinque.

“Solo i farabutti se la prendono in cinque contro uno”

“Non c’è più rispetto”

“Ma chi erano, ragazzini?”

Salvo fece il vago. La storia doveva nascere spontaneamente, i chiacchieroni l’avrebbero plasmata al suo posto, rendendola credibile ciascuno nelle proprie orecchie.

“Lo so io chi è stato” disse il dirimpettaio “l’hanno portato qui il pomeriggio di quel disastro del pullman, e li ha letti i giornali, del casino che hanno fatto quegli extracomunitari?”

“E’ vero” disse l’uomo nell’ombra “la moglie ha detto che l’hanno trovato vicino al porto”

“Eh, lì a due passi da dove hanno fatto il casino alla stazione”

“Sono stati loro?”

Salvo tacque.

“Guardi che non deve avere paura”

“Li ha visti in faccia?”

“Ma quelli sono tutti uguali”

“Tanto a cosa serve? Li lasciano in giro per la città, e cosa gli fanno? Niente caro mio. La polizia non fa niente”

“Sì e poi succedono queste cose. Col macello che hanno fatto con quel pullman, o con questo signore”

“Dov’è che l’hanno rapinata?”

“Avevo parcheggiato in stazione” disse Salvo.

“Sì, ce l’ha detto sua moglie, ma gli hanno pure rubato la macchina?”

“No c’era il parcheggio chiuso, erano tutti in sciopero”

“Pure quelli scioperano?”

“Ma è possibile che non garantiscano un servizio minimo?”

“Quelli dei pullman sono gli stessi del parcheggio, vero?”

“Io gli farei causa”

“Eh bello mio, quelli di cause adesso ne avranno un casino. È bancarotta sicura”

“Pure lui deve fargliela, io dico che con questo casino è facile che rimborsano pure a lui”

Senza che Salvo dovesse dire nulla, le chiacchiere tra pazienti e infermieri avevano tessuto la trama e sparso la voce senza che lui dovesse spiegare nulla. La storia si scriveva da sé. Coi negri rissosi alla stazione e il suo pestaggio di lì a un’ora, il tutto sembrava frutto di qualche cane pazzo bellicoso. Era stato vittima degli eventi, niente di più.

Durante la sua ultima settimana di degenza, anche la prognosi dell’unico sopravvissuto era stata sciolta. Benché la notizia cominciasse a sgonfiarsi presso le cronache nazionali, si attendeva con ansia che il sopravvissuto raccontasse la sua storia e chiarisse gli aspetti ancora oscuri della vicenda.

Salvo cominciò a dormire male e sudare freddo ogni volta che si parlava del sopravvissuto. C’era la possibilità, pur remota, che lo riconoscesse. Era stato trasferito al suo stesso reparto, in uno stanzino con un letto singolo onde evitare disturbo agli altri pazienti per la presenza di giornalisti e quella sempre più insistente dei poliziotti. Dopo due notti insonni, alla vigilia delle sue dimissioni, Salvo s’intrufolò nella stanza del sopravvissuto. Era uno di quei signori sulla cinquantina che l’avevano spalleggiato, partecipando pure al furto delle chiavi.

La prospettiva d’essere scoperto era sempre più vicina e reale. Gli sembrava di sentire i poliziotti arrivare e la voce di quell’uomo chiamarlo per nome, o indicarlo strillando: “è lui! È lui!”

C’era la possibilità che il tizio non lo riconoscesse, e comunque Salvo sarebbe stato dimesso l’indomani mattina, non l’avrebbe più rivisto. Cercò di addormentarsi ma non ci riuscì. Doveva sapere.

Erano le quattro del mattino. L’orario del silenzio assoluto e dei corridoi deserti. In quel mese di degenza aveva imparato a conoscere gli orari e le abitudini degli infermieri, i passaggi di controllo, le misurazioni della febbre, i giri per la sostituzione di cateteri, misurazioni di pressione e risvegli notturni dei pazienti più rompipalle. Ma alle quattro del mattino c’era quel momento di pace diffusa, per tutti, tranne che per lui.

Sgattaiolò fuori dalla stanza. I suoi coinquilini dormivano della grossa, e avrebbe sempre potuto usare la scusa del gabinetto, che almeno non gli avevano ficcato un catetere su per l’uccello e le gambe, ben sopravvissute all’incidente, lo reggevano.

Salvo s’avviò guardingo per il corridoio. Silenzio. Il sopravvissuto, numero trentasette, dormiva nella sua stanzetta. Era fasciato da capo a piedi, nessuno avrebbe scommesso un centesimo sulla sua sopravvivenza, ma i tg e i giornali lo davano in ripresa. Nella penombra del corridoio il suo volto pallido sembrava già quello d’un cadavere. Aveva gambe e braccia appese, ingessate. Solo un braccio, quello sinistro, era libero e puntaspilli per le flebo. Respirava coi suoi polmoni. Aveva gli occhi cerchiati di viola e nero. Salvo gli afferrò la mano e la strinse, scuotendola con sempre più forza. La faccia di Salvo era ancora incerottata ma il volto era guarito quasi del tutto. Trentasette aprì gli occhi, dalla smorfia del viso sembrava soffrire al semplice respiro. Salvo accese la lampada sopra il letto, gli occhi del trentasette si fecero grandi. Dunque si ricordava di lui! Lo sguardo precedette quei grugniti gorgoglianti del torace che si agitava, e della mano che ora afferrava il polso del visitatore scuotendolo.

“Tu…” grugniva il sopravvissuto “tu…”

Lo sguardo era pieno d’odio, ma con che coraggio? Non l’avevano sostenuto a gran voce nell’impresa? Non avevano ululato e applaudito alla conquista dell’autobus, ed alla sua spavalda cavalcata lungo la superstrada? Doveva pagare soltanto lui perché aveva avuto le palle di guidare? Il trentasettesimo doveva uscirne pulito da vittima sull’orlo della morte? Ma già che c’era sull’orlo, non bastava che una spintarella in più.

Il respiro si spense più rapidamente di quanto Salvo avrebbe pensato. La mano premuta sulla bocca e il naso lo soffocò in pochi istanti. Non era nemmeno collegato a quei macchinari che bippeggiano nelle serie televisive. Trentasette s’era spento in silenzio, l’assenza di respiro e battito non era stata registrata o segnalata da alcuno strumento. Salvo rimase a guardarlo per due minuti, tastando il polso per accertarsi che il battito fosse davvero svanito. Gli tappò naso e bocca una seconda volta, giusto per assicurarsi che non stesse fingendo, poi tornò nella sua stanza. Gli bastò appoggiare la testa sul cuscino per addormentarsi, con sollievo, finalmente.

Fu svegliato dall’infermiera che gli ricordava di prepararsi alle dimissioni. Erano le sette del mattino e la moglie sarebbe arrivata di lì a poco. Nella stanza e nel corridoio si faceva un gran parlare dell’ultimo superstite morto nella notte, forse per asfissia.

“E’ morto e nessuno se n’è accorto” disse il dirimpettaio al letto di Salvo “in questi ospedali la gente crepa e non se ne accorge nessuno”

“Era già freddo quanto l’hanno trovato”

“Ma sai cosa ti dico, meglio così, metti che fosse quello che stava guidando e che li ha ammazzati tutti. Meglio così guarda”

Salvo oscillò la testa sul cuscino, lasciandosi coccolare dalla sua morbidezza. Venti minuti più tardi strinse la mano ai suoi compagni di stanza e s’avviò incrociando la moglie nel corridoio. Due giornalisti davano il tormento agli infermieri, sparaflashando foto sul cadavere ancora immobilizzato del numero trentasette.

Giù alla reception, mentre aspettava che la moglie sbrigasse le cartacce delle dimissioni un cronista lo riconobbe come l’uomo malmenato al porto. Gli fece qualche domanda e Salvo disse che non aveva molta voglia di parlare, che aveva già raccontato tutto ai suoi compagni di stanza e voleva dimenticare tutto in fretta.

Lungo il viaggio di ritorno Salvo raccontò la storia alla moglie, così come pazienti e infermieri l’avevano costruita per lui. Tornato a casa si buttò di nuovo sul letto e dormì fino al pomeriggio. Un cronista telefonò per confermare le testimonianze raccolte, la moglie rincarò la dose contro chi permetteva a quei delinquenti di andarsene in giro per la città.

Svanito l’interesse intorno all’autobus schiantato, il racconto del buon Salvo rapinato e malmenato riuscì a guadagnarsi uno spazietto in fondo a pagina uno. La foto pubblicata fu nuovamente quella del giorno del suo ricovero, col volto fasciato e gonfio. Poliziotti tornarono in cerca d’informazioni più chiare ma non fu sporta denuncia.

In capo a due mesi i trasporti regionali erano passati all’azienda nazionale con un’impennata del quindici per cento sul valore della azioni, sufficiente a far guadagnare al buon Salvo quanto bastava per una vacanza. Un safari di dieci giorni al sole del Sudafrica.

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Fine.

(22/11/2018 - 14/04/2019)

 

Nota:
Caro/a lettore o lettrice, grazie per essere arrivato/a fin qui. Se questo racconto ti è piaciuto ti consiglio anche "Il Gigante Buono". Come "L'autista" ha un fondo di satira sociale, stavolta più rivolta al giornalismo e alla percesione della realtà. Lo puoi trovare QUI.
E ricorda che i tuoi commenti sono ben accetti, belli o brutti che siano.

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