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Stai leggendo: "Braccato" di Quinto Moro

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parte II

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8 gennaio 19xx

Che squallido buco. Ho raggiunto un paesello dal nome impronunciabile. Chiamarlo paesello è già un complimento. Mi chiedo come facciano a tenere aperta una locanda, forse giusto per chi ha perso la strada o cerca un luogo per nascondersi. Ed io, a quale delle due specie appartengo? A entrambe.

Ho camminato per tutta la giornata di ieri, tagliando per i campi. Sono abbastanza lontano dalla ferrovia, ma dalla finestrella di questo tugurio riesco a vederne un brandello all’orizzonte, col rialzo della strada ferrata sulla pianura e i serpentoni dei treni in lontananza. Ancora troppo vicino. Ci sono boschi a sud est, dove le colline si fanno montagne. Vorrei trovare un posto dove stare in solitudine, o in mezzo a uomini di poche parole, cacciatori o foss’anche assassini e delinquenti. Si dice che molti criminali vadano tra le montagne a nascondersi dalla legge. A questo punto troverei sopportabile passare per uno di loro, purché stare in pace e non sentirmi più braccato. Potrei imparare da loro a convivere con l’ansia di venire raggiunti, trovare una nuova dimensione d’uomo, lontano dai libri e dagli affari, dalla vecchia routine che non avrei mai immaginato di rimpiangere. Starei tra gente che sa tacere e non fare domande, ed essere feroce alla vista di un intruso. Dovrei adattarmi a una vita senza comodità, ma anche il letto più morbido e il pasto più sontuoso paiono poco allettanti sotto la minaccia del nemico. Tutto è avvelenato dalla paura d’essere raggiunto.

Non mi resta più molto in tasca, ho pagato in anticipo per due notti, è stato imprudente, spero di non dovermene andare nel cuore della notte. Bussano alla porta.

 

Il padrone della locanda è un uomo orribile, nell’aspetto e nell’odore. Ho rinunciato al menù della cena che consisteva nella brodaglia con carne di non so quale animale. Mi disgusta la sola idea che le sue lerce mani tocchino il mio cibo. Ho ripiegato su un pezzo di pane, un po’ di formaggio stagionato e per grazia di Dio due tocchetti di prosciutto. Ridicolo. Qualche riga fa fantasticavo di vivere tra i boschi e sono tanto schizzinoso da rifiutare il cibo di una squallida locanda. Non ho mai sofferto la fame. In effetti il cibo non mi ha mai appassionato. Eh, la civiltà rammollisce, per quanto le sue conquiste siano una delizia per l’intelletto e rendano la mente più acuta, affusolata e tornita per meglio penetrare i misteri del mondo, il decrescere dei viscerali sacrifici del corpo fiacca una parte dello spirito. Ma non si può avere tutto. L’uomo non è fatto per essere insieme guerriero e poeta. Il tempo agisce su di noi come argilla, cambiando la nostra forma, ed è bene tenersi umidi, impregnati delle novità del mondo per restare ancora malleabili. È la mancanza di curiosità che ci rende secchi manufatti che se non possono più adattarsi, si infrangono e non sono più utili o belli, come i vasi o le statue. Allora il nostro destino è restare incompiuti, sculture sempre umide dalla forma in divenire, per non fossilizzarci e diventare mero orpello, o inutili cocci da gettare via.

Ho goduto tanto del mondo, ho avuto una lunga vita, eppure non posso accettare di subire l’ingiusto fato dell’animale braccato da un oscuro nemico. Non dopo aver condotto una vita rispettabile. Quali crimini posso aver commesso? Sono stato così superbo e cieco da non vedere il male che ho fatto, o a chi? A che scopo reprimere la rabbia e sopportare ingiustizie, credendo in una giustizia più grande, offrendo aiuto quando possibile, pagando i miei debiti e forzandomi ad essere una versione sempre migliore di me stesso, se ora vengo cacciato come il peggior criminale?

Ma chi mi bracca non è umano, o se lo è viene da abissi che non conosco e non voglio conoscere. Forse è una punizione di Dio per la mia mancanza di fede, ché se il fedele crede sempre nella bontà del suo Dio più raramente crede alla malvagità dei demoni. Dunque mi si punisce così, facendomi sperimentare l’orrore dei demoni affinché possa accettare l’esistenza di tutto ciò che va oltre l’umana ragione, il pragmatismo della scienza, per ammettere che se c’è un demonio c’è pure un Dio?

Discorsi infantili, da studente di filosofia al primo anno. Ma forse servono a tenermi umido e malleabile, se la scienza ha fortificato tanto le mie convinzioni, e asciugato troppi dubbi rendendomi inflessibile in certe convinzioni. Si cresce nell’ignoranza curiosa e si muore nell’ignoranza del dogma. Ma non posso neppure rovinare la mia forma, rinnegando tutto ciò che ho appreso e studiato. Un vasaio troppo indeciso sul suo lavoro, che fa e disfa tutto il giorno, giunge al tramonto senz’aver concluso nulla, e la creta si rovina. Io questo non posso accettarlo, e non posso permettermelo. Ho bisogno di riposare, di fare un sonno lungo e senza sogni.

 

10 gennaio 19xx

Dannato e maledetto! L’avevo chiesto, a quel sudicio locandiere da due soldi, di non dire ad anima viva della mia presenza qui. Nemmeno firmando sotto falso nome sono riuscito a nascondermi!

Il mio nemico mi ha raggiunto anche qui, ed ha bussato alla mia porta nel cuore della notte. Se non avessi chiuso a chiave avrebbe fatto irruzione. Sono scivolato via dalla finestra, giù per la tettoia del loggiato d’ingresso, e scappato come un delinquente. Un delinquente che ha pagato doppio per una sola notte in un letto lercio e un solo pezzo di pane e formaggio per cena.

Ho corso come indossassi calzoni di scudiscio. Pago una vita sedentaria, a farmi venire il fiatone per ogni piccola corsa, ma le mie gambe cominciano ad abituarsi e il mio respiro pure. Mi sono accucciato tra i cespugli d’una terra incolta che si estendeva sul retro della locanda, già in aperta campagna. Visto sotto il chiarore della luna il villaggetto sembrava ancora più minuto e insignificante, con poche finestre illuminate e la locanda a troneggiare come un maniero sinistro e sgangherato. Ho visto la luce della mia stanza accendersi e potrei giurare d’aver visto la sagoma del mio inseguitore. sembrava annusare l’aria, con lo sguardo invisibile fisso nella mia direzione, come potesse vedermi. Se quest’angoscia che provo non fosse così stringente, così soffocante, mi arrenderei ad affrontarlo, ma il terrore mi prende e mi fa vigliacco. E forse ho ragione ad esserlo.

Ho avuto pochi istanti di tregua. Dal momento in cui la finestra della locanda si è spenta a quello in cui ho visto la sagoma stagliarsi nel mezzo del campo, ho sentito il fiatare crescente di quell’uomo che non è un uomo, di quella bestia che non è una bestia, ma corre col vigore d’un cacciatore antico. Dai versi della sua voce distorta emerge il mio nome sempre più chiaro, fra i latrati di cane da caccia.

Ho corso con tutte le mie forze ma mi ha raggiunto, mi ha afferrato per la spalla e sono franato sotto di lui. Mentre mi dibattevo, le grida più animalesche erano diventate le mie, tanto da far sembrare la sua voce più umana, come stesse succhiando via da me l’onestà e trasferendola al suo corpo, per darmi indietro il suo afflato ferale, o semplicemente farmi regredire a forma e pensieri bestiali. A suo svantaggio però! Se nella disperazione del respiro strozzato e degli occhi ciechi all’orrore del suo volto sono riuscito a divincolarmi, colpendolo con le nocche ancora e ancora.

Sono fuggito di nuovo, e il cuore mi s’è riempito d’una gratitudine divina quand’ho capito quant’era vicina la ferrovia, annunciata dal suono del treno in lontananza. Sono riuscito a raggiungere i binari, squisiti fili d’argento illuminati dal sorriso della luna. Non ho mai creduto come in quel momento all’esistenza di un Divino, di una Provvidenza che tende la sua mano indulgente agli uomini in disgrazia. M’è quasi parso di sentirne il tocco! E quella mano invisibile, dev’esser stata Lei ad afferrare la mia, tirandomi a bordo giusto all’ultimo vagone!

Che follia, alla mia età. Ho preso il treno al volo come in un racconto d’avventura, di quelli surreali e gioiosi dove agli eroi va tutto bene e la Provvidenza li accompagna. Certo ho patito la più grande paura, finendo tra le grinfie del nemico, ma anche la più grande gioia essendogli così sfuggito. Ed ho appreso che è fatto di carne e ossa, non è un fantasma inconsistente uscito dai miei incubi. E non è invincibile né insensibile al dolore se colpendolo mi ha lasciato andare. Mi addormento qui stanotte, scosso dal vento che turbina sulla passerella in coda al treno, abbracciato alla balaustra di ferro e nel frastuono delle ruote sui binari, esausto d’una gioia che attende solo l’alba per

 

 

12 o 13 gennaio 19xx

A che gioco gioca il fato? Ci si diverte con me, ed io stupido ad appellarmi con tanta speranza ai capricci d’una provvidenza evanescente. Così fa l’uomo braccato dalla paura e fiaccato dall’angoscia? Abbandona le fondamenta del suo io, da solido a stolido nel giro di qualche giorno? Così ho fatto.

Ero troppo spaventato e disorientato per capire che il treno viaggiava nella direzione da cui ero venuto. Ah! La mia bella provvidenza, una bagascia imbellettata che ti fa gli occhi dolci e ti presenta il conto prima che ti sia addormentato felice.

Sono stato sbattuto giù dal treno da un rozzo sgherro della stazione, poco c’è mancato che mi sfasciasse la testa con un bastone. Mi ha dato del vagabondo. Quanto sciocco sono stato ad arrabbiarmi, ad attirarmi tutti gli sguardi della gente e le più dure minacce di quell’uomo orribile. Io vagabondo. Io che nella superbia ho sempre guardato i mentecatti e i derelitti con finta compassione, sforzandomi di non provarne disprezzo. Ma ecco che vedo rivoltarsi su di me l’onta del pregiudizio, e offendermi per un insulto così banale, io che ho letto e scritto libri, e saggi, e conversato con luminari e ministri. Io così offeso per quell’epiteto – barbone! cialtrone! – che così bene mi si addice ora. Mi si addice nell’aspetto impresentabile, nei vestiti sporchi, i capelli trasandati e la barba incolta. Persino l’odore di chi manca da troppi giorni a un bagno caldo, e ha condiviso il tempo e lo spazio con gli odori della campagna, e d’una schifosa bettola. Mi si addice in ciò che davvero sto facendo, vagando senza meta e per uno scherzo crudele tornato al punto di partenza.

Ho anche perduto la mia agenda, e scrivo questi appunti su di un taccuino trovato su una panchina della stazione. Già me lo vedo, il mio dannato nemico, a raccogliere i sognanti appunti della scorsa notte, e ridere a crepapelle del mio ottimismo. Avrà anche goduto nella confessione di quanta angoscia mi sta procurando, e si sentirà certo fiero di sé. Riderà di me? È probabile se ora ripenso al nostro frenetico e piccolo scontro, alla mia piccola vittoria. A mente fredda penso d’essermi ingannato. Sì, egli mi ha soverchiato, ed io l’ho colpito. Ma immagino che l’effetto di un pugno non sia a scoppio ritardato. L’avrei notato subito se mi fossi mai trovato in una rissa, io che ho sempre aborrito la violenza fisica. È vero, l’ho colpito più volte, ma lui mi ha lasciato andare, anche perché la sua forza era nettamente superiore alla mia. Non faccio fatica a immaginare che i suoi sensi sovrannaturali abbiano fiutato il treno da lontano, e che l’inseguimento fosse una macchinazione per spaventarmi al punto di correre alla ferrovia, privo d’ogni orientamento, e farmi riportare indietro.

Ed io che m’ero appellato alla Provvidenza. La Provvidenza! Se ce n’è una so che non v’è nulla di benevolo e magnanimo a vantaggio delle angosce umane. E se la mia fedeltà è sempre stata alla ragione e alla scienza, e il mio inseguitore è un oscuro signore esperto di materie opposte, immagino che Ella sia più favorevole a lui che a me.

 

Sera.

Non mi restano che pochi spiccioli. Ho cercato di ritrovare un aspetto ordinato, congruo alla mia persona. Ho mangiato dei favolosi croissant alla crema, i più buoni di tutta la mia vita. Ho bevuto un latte caldo e poi un tè, come una persona civile in un luogo civile. Quei pochi minuti di pace m’hanno rinfrancato tutto e restituito un barlume di ottimismo. Pochi minuti, perché evidentemente non sono stato capace di correggere a dovere il mio aspetto trasandato. Ho attirato l’attenzione di un poliziotto. Ho bisogno di credere sia stato il mio aspetto, perché non posso sospettare si sia messo a cercarmi di proposito dopo quella telefonata.

Vorrei non esser diventato così guardingo, ma devo esserlo e quest’episodio mi dà ragione. Il poliziotto faceva la sua ronda, ed io lo adocchiavo senza farmi accorgere, dal tavolino del bar col mio civilissimo tè. Poi ecco suonare il telefono, un telefono pubblico. Non immaginavo potessero squillare. Il poliziotto ha esitato un momento, poi eccolo rispondere e subito farsi guardingo. Ha guardato subito nella mia direzione. Ho potuto distinguere lo sguardo, me lo sentivo addosso. Messo giù il telefono si è mosso dritto verso di me. Non li addestrano come segugi da caccia, e di questo devo ringraziare, uno più furbo mi avrebbe osservato a distanza, senza farsi accorgere, cercando di cogliermi di sorpresa.

Posso solo immaginare chi c’era all’altro capo del telefono. Dunque il mio inseguitore è in grado di esprimersi correttamente per essere compreso, forse per poche parole, ma è abbastanza. La sua capacità di persuasione dev’essere semplice e immediata, capace di agire rapida come una formula magica. Così dev’essere stato col padrone della locanda, e così è stato con il poliziotto.

Mi sono alzato con calma, dando le spalle a tutto il mondo. Mentre mi dirigevo verso la strada l’ho sentito chiamarmi per nome. Mi ha raggelato il sangue. Sono rimasto immobile, indeciso se scappare o affrontarlo. Nell’attesa mi ha raggiunto, e penso d’essere stato bravo. Mi sono comportato da gentiluomo, pur stretto in questi abiti sporchi. Ho sfoggiato la mia parlata migliore, la voce impostata da professore, come ad una conferenza. Ho visto la sorpresa sul suo volto, il mio comportamento pacato è riuscito a spiazzarlo e per un istante ho pensato di potermela cavare. Lui mi ha invitato a seguirlo ed io ho chiesto le ragioni con tutta la gentilezza di cui ero capace. Si è fatto più rude e mi ha afferrato per un braccio, e il primo istinto è stato di ribellarmi ma sono fiero d’aver mantenuto il sangue freddo. Con che santa pazienza l’ho persuaso a non fare scenate! È stata una bella sensazione, come riprendere in mano la mia vita e me stesso per un poco. Gli ho detto che l’avrei seguito per chiarire la situazione ma lo scontro è stato inevitabile quando ha tirato fuori le manette. Non c’è rispetto nello spirito e nella carne di chi indossa una divisa nei confronti di chi non ce l’ha. Ero convinto che questo fosse un problema solo per autentici delinquenti e gente infima che della divisa merita tutta la severità possibile, ma la realtà dell’esperienza mi ha messo sulla sponda opposta del pregiudizio: quella della realtà! Ah, come ferisce, l’esperienza. Con che ostilità quello sguattero di Stato mi si è avventato contro! Con che mancanza di rispetto per un cittadino prima rispettato ed oggi braccato per gli oscuri intrighi d’un demonio. Ma cosa aspettarsi da chi, anziché scegliere l’appropriata forma del suo essere uomo, scelse quella esistente d’un vestito di bell’aspetto e un grappolo di principi in cui riconoscersi, mancando della moralità personale per costruirsene di propri? Cosa aspettarsi – niente! – da coloro che scelgono di obbedire ammettendo la propria incapacità di discernere da sé cos’è giusto o sbagliato, chinando capo ed opere al giogo grossolano della presupposta giustizia scritta da altri. E loro, saprebbero distinguerla senza qualcuno ad indicarla? Come possono distinguere l’ingiustizia da sé, se è dalle loro stesse azioni che può scaturire.

Quest’idea d’ingiustizia ha animato la ribellione nei miei polsi alla minaccia delle manette. Ho visto nel volto della guardia l’istupidita rabbia già conosciuta sul volto del mio nemico. Così facilmente la giustizia si fa schiava del suo opposto! Mentre il poliziotto si contorceva per afferrare la pistola io, indifeso, non ho avevo altra arma che il mio corpo. Ma anche il corpo più gracile, nella forma della disperazione si fa arma con una velocità e forza che solo l’istinto sa. Lo sa l’istinto, incapace di arrovellarsi tra le coccole di finta dolcezza che si aspetta la ragione dal mondo civile in cui cresce.

Artigli e denti, questo ha il corpo. Così ho morso, come un animale tanto privo di vergogna nel farlo quanta ne ho ora ad ammetterlo. Un morso selvaggio, fino a sentire la pelle lacerarsi sul collo di quell’omuncolo stolto, che si è accasciato sotto di me, con lo sguardo smarrito. Ho sentito le lacrime agli occhi, percependo in un istante il contagio di malvagità del mio inseguitore. Io, a causare sofferenza senza volontà, per paura. Quando incontri l’essere capace di spingerti agli estremi confini della tua brutalità animale, allora sai d’aver conosciuto il tuo demone. Vorresti incolparlo d’averti portato a quella violenza, ma in tutta onestà non puoi. Ella era già là, sepolta dove pensavi d’aver lasciato un verso di poesia e la melodia di un canto antico. Legato e stretto in un tugurio di tortura, circondato da demoni ghignanti, tu uomo civile, godresti della sinfonia in sottofondo per il sollazzo dei tuoi carnefici? La bellezza di versi e melodia non si farebbe orrore, l’energia creativa dell’arte non sarebbe la rude carezza d’una volontà di distruzione?

Mi sono ritrovato la pistola in mano, e senz’accorgermi la puntavo sul mio quasi carceriere. Ho visto la paura nei suoi occhi e per un istante ne ho goduto. Quale volontà mi ha trattenuto da premere il grilletto! Non so come ho potuto io, che mai avevo maneggiato un’arma, sciogliere dalla stretta del tamburo tutto i proiettili e farli scivolare nella mia tasca, gettando l’arma inutile con disprezzo ai piedi dello sciocco. Non l’avessi fatto, sono convinto le orecchie mi si sarebbero riempite d’un suono di vetri rotti, ossa pensieri e sogni fratturati sotto il peso d’una brutalità che non voglio sulla coscienza.

Poi, lontano dal poliziotto, mi sono sentito più stupido: se solo avesse avuto cartucce di scorta, e forse le aveva, avrebbe potuto ricaricare l’arma e ferirmi alle spalle. Così non è stato, e mi pento d’aver gettavo via l’arma. Certo avrebbe peggiorato la mia situazione con le forze dell’ordine. Con un po’ di fortuna l’agente dimenticherà d’avermi visto. Avrei potuto ucciderlo, dunque sa che non sono un criminale. Ma temo non basterà. Almeno finché il mio inseguitore proseguirà strisciando alle mie spalle coi suoi inganni.

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