top of page

Stai leggendo: "I racconti del Buco Nero" di Quinto Moro

​

4° Racconto - Storia di Albert

​

 

Alberto. Perché non mi potevano chiamare Alberto? Tutti mi chiamano Alberto, pure i miei genitori, allora perché mozzarmi quella “o” finale. Da bambino pensavo che papà e mamma fossero ammattiti per Einstein e che mi pensavano intelligente come lui. E invece col cazzo. Manco alle elementari c’avevo la sufficienza in matematica. Ho sempre arrancato a scuola. Mi ci impegnavo però. Non ero un rompipalle. Ero educato, papà e mamma ci tenevano. Non ho mai insultato le maestre, non ho mai picchiato gli altri bambini a meno che non se lo meritassero. Mi sono giusto vendicato di qualche dispetto, e siccome non ero un infame lo facevo pure in faccia agli insegnanti che puntualmente mi punivano. Io glielo volevo dire, che facendo quegli sfregi davanti a loro li stavo accusando di inettitudine, ma non l’hanno mai capito. Mi hanno pure sospeso una volta, in quarta elementare. Chi cazzo sospende un bambino in quarta elementare? C’era questo stronzariello che dava il tormento a me, al mio compagno di banco e a quelle due bambine con la pettinatura uguale, con le trecce arrotolate sopra le orecchie che sembravano stare con le cuffie tutto il tempo. Ed io a quello stronzo l’avevo menato, non di nascosto ma davanti a tutta la classe, l’unica volta che avevo trovato il coraggio. Era più grosso di me. Penso che tante volte quelli più grossi sono anche più vigliacchi, perché la stazza scoraggia. Quelli magri invece fanno di tutto per non battersi ma qualche volta gli tocca, e se non imparano a vincere imparano ad incassare, che poi è la cosa che servirà di più crescendo.

Lo stronzariello non era tanto minaccioso, tolta la faccetta arrogante, aveva la panza da birra già a dieci anni, come se il babbo ubriacone gliel’avesse passata per genetica. Quel grassone puzzava di culo e piscio. Gli stavamo lontani già così, non serviva ci minacciasse e rompesse le scatole perché girassimo al largo. Ma voleva fare sempre lo spaccone, e quella volta gli spaccai io la faccia. Come s’incazzò la maestra! Lei che stava sempre girata dall’altra parte quando lui faceva le sue zozzerie. C’aveva un talento speciale per cogliere il momento perfetto di commettere il delitto, è il talento dei delinquenti precoci. Io non volevo nemmeno avercelo quel talento, volevo essere un bravo bambino, ma quella volta volevo tutti vedessero che non ero un pezzo di pane, da masticare e sputare. Tirai allo stronzo uno schiaffone e quello si rovesciò all’indietro. Quasi non ci credevo, m’ero convinto che mi bastasse quella frase che mi martellava in testa da un paio di settimane, come una formula magica che m’aveva convinto di poter abbattere qualsiasi gigante ingiusto: “quelli grossi quando vanno giù fanno più rumore degli altri”. E quel grassone fece un bel baccano quando andò giù: sbatté la schiena contro una sedia, la rovesciò, e poi boccheggiò senza fiato. Poteva morire lì sul colpo, e avrei giurato che fosse diventato più blu dei lividi che aveva lasciato sulle braccia di noialtri sue vittime.

Ci fu un gran casino, ma tutti i miei compagni si ribellarono quando la maestra mi sbraitò addosso. I miei compagni cominciarono ad alzarsi e accusare la supposta vittima anziché me, il cosiddetto carnefice. Era la prima volta che tante voci si levavano tutte insieme, mi stupì che così tanti si schierassero contro chi gli aveva dato il tormento per tutto l’anno dopo aver subito in silenzio. Trovavano il coraggio solo ora che lo vedevano a terra. Mi ricordo chiaramente che dopo l’iniziale brivido d’essere spalleggiato e protetto, come avendo un’intera schiera di testimoni davanti ad un giudice ostile ed ignaro dei fatti, la mia rabbia si riversò su tutti loro piuttosto che sul mio rivale. Si fossero ribellati prima, tutti insieme, non ci sarebbe stato bisogno di quel gesto. Erano tutti pronti a stare dalla mia parte adesso, ma dovevo beccarne le conseguenze io solo.

Quell’episodio deve avermi segnato in qualche modo, ha definito il mio concetto di giustizia ed ingiustizia per tutti gli anni della scuola. Per tutto il tempo in cui gli insegnanti giudici mi guardavano con lo sguardo severo, un misto di irritazione e pena per chi non fa abbastanza o non ci riesce. Avevano occhi solo per i loro pupilli, per chi rigava dritto e ben in alto, lasciando a noialtri sguardi di disapprovazione in diverse gradazioni di scazzo e battute di sputtanamento.

Mi sono diplomato con la sufficienza, senza venire mai bocciato questo va detto. C’erano stati pure tra i miei amici ragazzi brillanti molto intelligenti che non si applicavano ma di me non si diceva ch’ero intelligente ma non mi applicavo. Quando dicevano che non studiavo abbastanza, non mi toccavano i discorsi su quanto io fossi intelligente. Mi ha sempre dato fastidio come loro sembrassero confondere l’intelligenza col carisma e la brillantezza della battuta pronta. Quelli che non facevano battute, che non erano espansivi ma avevano voti alti, erano i più maturi della loro età. Quelli seri, gli studenti modello. Quelli come me che non eccellevano nella buffoneria o nei voti, non so cosa fossimo per loro.

È stata la mia storia scolastica a spingermi tra le braccia dell’Arma. Al penultimo anno, prima della maturità, i miei compagni vedevano come una rottura di scatole la visita di leva. Io l’avevo vista come un’opportunità, e m’ero seccato a doverla rimandare di un anno per via del diploma. Non fossi stato così indottrinato da mia madre sull’importanza degli studi, avrei mollato tutto a diciott’anni per arruolarmi.

Non mi interessava il fascino della divisa. Sì, pure quello in verità, non avevo ancora avuto una ragazza, per quella stessa regola che le ragazze toccavano ai chiacchieroni più simpatici o ai taciturni più brillanti. Pure i secchioni, quelli dal voto alto e il capello impomatato, avevano più chance della mia sottoclasse di volenterosi mediocri. La divisa poi, già dalle prime libere uscite, mi fece guadagnare tante buone cose col gentil sesso, come non avrei mai immaginato, ché certi luoghi comuni non sono tutte invenzioni.

Mi sono sposato con Giovanna, la mia seconda fidanzata, quella del mio terzo anno all’Accademia di preparazione. Abbiamo fatto una bambina, più bella di tutti e due.

Ci ripenso ancora a quando andavo a scuola. Ripenso a come il giudizio dei professori fosse una strana presa in giro rispetto al mondo che ci aspettava. Nelle mura di scuola le istituzioni e la legge hanno la voce e il volto di chi sta dietro alle cattedre. Ma le istituzioni dovrebbero saper guardare più in là del loro naso, di questo ero convinto già a sedici anni. Invece no. Vivevamo in un microcosmo che non puniva gli infami veri, ma vezzeggiava i brillanti ed ignorava i mediocri. Nel mondo di fuori era quasi uguale, se non per il fatto che nemmeno i brillanti venivano più vezzeggiati.

Quando avevo vent’anni mi sentivo dire intorno che chi c’ha la famiglia di destra fa lo sbirro o l’avvocato, e chi c’ha la famiglia di sinistra fa l’insegnante o il giudice. A destra chi fa i soldi con le imprese e i negozi e a sinistra chi gestisce la cosa pubblica nei comuni. Pregiudizi, per lo più, ma io c’ho messo anni ad uscire da quelle scatolette di giudizio, e son finito in una scatoletta ancor più piccola.

Il mio spazietto non è troppo scomodo, c’è di peggio che fare il piantone in caserma, andare di pattuglia col Sergente o il Maresciallo. Fare i posti di blocco all’entrata del paese d’estate o d’inverno. Ascoltare i vicini che si vogliono scannare per una macchina parcheggiata male o davanti al cancello di casa. Stare dalle otto alle diciotto a guardare il cancelletto della caserma e decidere chi può andare dal Maresciallo e chi no.

Ho imparato a capire chi era un po’ delinquente e chi no, già solo guardandolo. Col pregiudizio ci si azzecca due volte su tre, o così ho imparato nell’esperienza mia. E sarà pure vero che dal letame nascono i fiori, ma è più difficile che dalla gente di merda nascano fior fior di cittadini. Ci sono eh, quelle mosche bianche che diventano materiale da proverbio, esempi nella mitologia del paesino che si stupisce se viene fuori un onesto da una famiglia di delinquenti. Ma che la mela non cada lontana dall’albero, quello è il proverbio che preferisco.

Io l’ho pensato sempre di Robert, che era un poco di buono. Lo era il babbo, lo era pure lui sin dalle scuole medie. C’aveva tre anni in più di me, quando sono arrivato io alle medie su di lui c’erano già un sacco di storie e quando poi sono diventato appuntato, facendo su e giù per la via principale, lo vedevo che era uno sfaticato. E come l’aveva corrotta poi quella bella ragazzina io non lo capivo, ma pure gli angeli si lasciano incantare dalla promessa della droga che li porta un po’ più vicino al cielo, anche se per finta. E questo Robert con la sua fidanzata l’aveva combinata uguale.

Mi dava fastidio un sacco, che tutti e due stavamo col nome mozzo, Robert lui e Albert io, manco fossimo figli degli stessi babbo e mamma in fissa pei nomi stranieri. Non avevo mai desiderato tanto prendere qualcuno a manganellate come questo Robert, quando poi è venuta fuori la storia della fidanzata scomparsa, come si faceva a non volergli far assaggiare la medicina dei Pinaldrucchi (*)? Nessuno avrebbe potuto resistere, non dopo aver visto il corpo di Agata gettato su quella pila d’immondizia come su uno schifoso altare di lattine e bottiglie di birra rotte, cicche e pacchetti di sigarette accartocciati, volantini e carta di merendine. Sembrava che Robert avesse scaricato la merda di tutta la sua vita, il suo immondezzaio privato lontano dal mondo, buttandoci a mo’ di ciliegina sulla torta la cosa più bella che gli potesse capitare: la belal Agata.

E’ strano che alla notizia del suicidio di Robert non mi sia sentito meglio. M’ero quasi tolto dalla testa le manganellate che gli avevo fatto mangiare prima di spedirlo in carcere. Esattamente come a scuola, solo io avevo avuto il coraggio di fare quello che tutti desideravano. Gli altri se n’erano rimasti sull’uscio, ma non avevano voluto partecipare. Forse è meglio così perché in tre l’avremmo di sicuro ammazzato, e quella sarebbe stata la mia fine nell’Arma. Forse.

Robert avrebbe meritato di morire due volte, per la morte di Agata e per il bimbo che non sarebbe mai nato. Non poteva esistere movente più atroce di quello. Prima che si sapesse del bambino che lei portava in grembo era poco più che una scaramuccia fra tossici, e se avessimo trovato Agata per strada in coma etilico o in overdose non ci saremmo stupiti. La gente avrebbe detto che se l’era cercata, e se quella gravidanza l’avesse conclusa l’avremmo tutti guardata con un misto di compatimento e condanna. Così non era stato, e con quell’omicidio l’infame Robert era sfuggito alle sue responsabilità nel modo peggiore.

Gridava, Robert, mentre lo bastonavo. Ma non chiedeva pietà, non mi chiedeva di smettere. Aveva gridato solo il nome di Agata, poi il manico del manganello l’aveva preso in bocca mettendolo a tacere. Me l’aveva suggerito uno di quelli che fanno il servizio allo stadio. I manganelli sono troppo corti per fare male come dovrebbero, ma pigliali per l’asta e vai giù di manico ed è come dare le picconate, allora sì che fai male.

Se l’avessimo pestato tutti insieme, io e i miei colleghi, forse ci sarei andato più leggero, invece dovevo darle anche per gli altri che non avevano voluto sporcarsi le mani. Menavo Robert pure per rabbia verso i miei colleghi vigliacchi. Poi mi hanno coperto, tirandogli in testa un passamontagna e buttandolo nel cellulare senza far venire sospetti al maresciallo.

Al processo aveva ancora i lividi. Nessuno gli ha mai chiesto come se li fosse fatti, forse neppure il suo avvocato. Per me Robert sapeva di meritarselo e questo provava che era stato lui ad uccidere Agata. Magari s’era pentito, io credo di no se aveva pure finto di non sapere che Agata fosse incinta. E non è che i criminali e gli assassini vadano assolti quando crepano. Non è che se hai rovinato la vita agli altri poi ti devono assolvere solo perché hai smesso di respirare. Un delitto non si cancella perché il colpevole è morto. Se stiamo a perdonare tutti i delinquenti e gli infami solo perché sono morti facciamo un torto alla giustizia e a chi c’è morto o ci ha vissuto male, tanto da farsi tracciare un solco come un aratro sporco di letame da un lato all’altro della vita sua.

Se Robert non si fosse tirato quel pezzo di lenzuolo fino a strozzarsi, a diventare livido come la sua ragazza quando l’abbiamo ritrovata, io non c’avrei ripensato. Ripensato a quando gli ho spaccato denti e costole, alle assurdità che aveva detto su quella notte, sull’oscurità che s’era avventata sulla sua Agata per trascinarla fin dentro a quel muro spaccato.

 

Ci sono passato, davanti a quel buco, una o due settimane dopo che Robert s’era ammazzato, ed ho cominciato a perderci il sonno. Non sono un detective come quelli dei film americani che raccolgono gli indizi con le pinzette, e ti vanno a scartabellare foto e testimonianze finché non ricostruiscono il caso anche solo con una scheggetta di intonaco fuori posto. E di scheggette d’intonaco lì ce n’erano tante.

Sono passato su quella strada a piedi di domenica. La giornata era bella ma il vento troppo freddo, come non dovrebbe mai essere con tanto sole. Non l’ho capito com’era possibile. Com’era possibile per una palazzina fatta di villette a schiera addossate a due a due, un piano sull’altra, per un isolato di sessanta metri, che nessuno si fosse preoccupato di un buco come quello. Robert era un drogato, e fanculo alle cazzate che aveva detto. Ma quel buco era reale, e nessuno s’era preso la briga di ripararlo. Forse volevano lasciarlo così in memoria di Agata, come quelle lastre di marmo che si lasciano ai lati della strada dopo gli incidenti mortali (**). Quel buco nero era come una lastra senza nome né foto, a ricordare il posto in cui una bella ragazza era stata ammazzata, e il suo assassino accusava un buco nero d’averla strangolata. Poi mi sono ricordato cos’aveva detto quell’agente in borghese venuto dalla città. Lui sì, somigliava un po’ ai detective americani, pur se spelacchiato come un frate francescano. Aveva ficcato dentro al buco un metro e ci spiava dentro con una torcia, solo che poi l’abbiamo caricato sulla volante perché esaminasse il corpo di Agata appena ritrovato da tutt’altra parte. Il nome suo non me lo ricordo, ma disse che quel buco era strano, ché ci si sarebbe potuto nascondere un cadavere, o dieci, per quanto sembrava profondo. Non ce ne fregava niente in quel momento, Agata era morta in un campo, la brutalità del suo omicidio aveva scosso tutto il paesino e di quel fosso spalmato in verticale non ce ne poteva fregar di meno.

Non me ne dovrebbe più fregare ora che Robert è morto, come Agata. Storia chiusa, nessun rimpianto per averlo manganellato, e tanto meglio che si sia ucciso prima che qualche lercia scappatoia della giustizia gli riconoscesse una stronza attenuante rimettendolo in libertà. Ma mi sono messo a ricordare di quella notte. Gli schiamazzi, i testimoni che non avevano visto ma solo sentito, le urla di Agata e dell’assassino che ne gridava il nome per poi esplodere in ragli gutturali come posseduto dal demonio.

Non ero corso sul posto con gli altri colleghi, no, dovevo restare a far la guardia alla caserma. Il che mi fa incazzare. Perché non dovevo esserci? Non potevo essere d’aiuto? Mica tutti quelli di grado superiore al mio avevano studiato da detective. Ci voleva solo qualcuno che restasse a far la guardia al cancello, come sempre. E dovevo essere sempre io.

Robert non sapeva che Agata stava incinta. Nessuno ci ha creduto prima e durante il processo. Era il movente principale, la chiave per la sua condanna. Ma ho incominciato a crederci. Ho incominciato a crederci quando ho guardato dritto nel muro spaccato con quella chiazza nera impenetrabile alla luce d’ogni lampione o torcia, alla luce del sole.

Sono andato a bussare alle case comunicanti con quel fottuto muro. Considerato che il muro copriva oltre venti metri da una via all’altra, e se ne stava più o meno al centro, nel punto in cui era ragionevole che le due case si dividessero, parte della breccia poteva stare parte in una casa e parte nell’altra.

Quelle bifamiliari avevano il garage al pianterreno. Le cucine, le stanze da letto e i soggiorni nascevano dal primo piano in su. Le strade parallele avevano nomi di compositori famosi. Io non li avevo mai sentiti. Non sono mai stato un appassionato di musica. Una via Rossini ed una via Berlioz. Il muro, liscio e intonacato di giallo passava da una via all’altra. Ho chiesto ai residenti della spaccatura, e sembravano gemelli diversi in una famiglia di ritardati, biascicavano lamentele riguardo al comune e quanto se ne fregasse delle loro case. Ma quelle non erano case popolari. Non lo erano mai state, eppure a nessuno importava di quel buco nero lungo le pareti esterne delle loro casa. Dentro, dal lato opposto del muro, avrei dovuto vedere la breccia. Non ce n’era traccia. Chiazzati di umidità, di muffa, sgarrupati e senza tinta, pure coi mattoni esposti.

 

Non ha capito di che cazzo stessi parlando. Si è diplomato, il nostro Maresciallo, ha pure fatto due anni di università, anche se poi non si è laureato. Ma l’ho capito subito che non ne voleva sapere di questa storia. Era scazzato, com’era stato scazzato per la morte di Agata. Un sacco di gente aveva chiesto le sue dimissioni e lui non l’aveva mai digerita. Come fosse colpa sua, e non lo era, ma cazzo, quel muro nessuno l’aveva mai controllato, e se pure quel lercio di Robert era il più schifoso colpevole di questo mondo ci si sarebbe dovuto dare un’occhiata più approfondita al luogo del delitto. Io l’ho capito, quando mi ha cacciato dal suo ufficio, che era ancora risentito per tutti gli insulti e le insinuazioni sulla sua incompetenza. Certo non era colpa sua, ma guardando quella parete bucata fuori e intatta dentro mi sono sentito una merda io stesso. Non c’era niente di logico.

Mi sono ubriacato quella notte. L’ultima volta che avevo bevuto era stata proprio la notte dopo la morte di Agata, quando avevo pestato a sangue Robert a suon di manganellate. Ma quel muro integro, immacolato, mi ha dato il tormento. Credo di aver avuto un attacco di panico. Non lo so per certo perché credo di non averne mai avuti. I test psicologici che ci toccano qui nell’Arma non hanno mai messo in luce debolezze per il sottoscritto. Ma ho smesso di dormire. Ho cominciato a chiudere il mio manganello nell’armadio, ficcandolo sotto una vecchia coperta. Ne ho chiesto uno nuovo, mi hanno risposto picche. Ognuno è responsabile del suo equipaggiamento, devo comprarmelo nuovo se l’ho smarrito. È il manganello con cui ho pestato Robert, s’era sporcato col suo sangue e l’ho pulito con la varechina e messo in ammollo con ammoniaca e acqua calda. La vernice nero lucida è opacizzata da allora, e da allora non l’ho più usato. L’anno scorso, quando c’erano quegli ubriachi al posto di blocco d’istinto ho estratto la pistola, perché non sono riuscito ad impugnare quel manganello. Per poco non mi hanno sospeso, ché non siamo americani che tirano fuori il ferro se qualche avvinazzato ci provoca. A volte penso che dovrei bruciare quel manganello. Non farebbe sparire comunque la colpa di quel pestaggio. Ma da quando le botte ad un lercio ammazza donne dovrebbe darmi i sensi di colpa?

Fanculo. Non mi voglio tenere più questo schifo fissato alla cintola tutti i giorni, non voglio tenerlo più nel mio armadio ora che Robert è morto. Pensavo ne sarei stato fiero, il bastone con cui avevo dato a un omicida ciò che meritava, solo che non è così. L’ho gettato via, il manganello, in quel buco sul muro, nella strada in cui Agata è stata uccisa. L’ho gettato e poi ho guardato dentro cercando con la torcia. Sparito. L’oscurità è fitta dentro quella breccia, di giorno e di notte.

Darò le dimissioni. È meglio così.

©© Copyright
bottom of page