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Stai leggendo: "I racconti del Buco Nero" di Quinto Moro

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3° Racconto - Storia di Agata

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“Adesso mi ripeti tutto daccapo”

Robert era sfinito. Le lampade nella sala del maresciallo erano a luce fredda, che unita a quei muri bianco sporco e i mobili colori ciliegio consunti e graffiati davano al tutto un’aura morente. Il silenzio esterno pesava sul soffitto e sembrava premere sui muri, pronto a voler abbattere l’ultimo edificio in una città appiattita dal terremoto. La polvere delle macerie esterne poteva solo intuirsi, giunta da sbuffi immaginari fra gli interstizi degli infissi in legno, forse gli stessi di quando la caserma era stata costruita nel ventennio.

Robert vedeva la stanza come una foto invecchiata in un cassetto e applicata a forza davanti ai suoi occhi stanchi. Era ancora ubriaco e fatto, tanto da non sapere in quante varianti diverse avesse raccontato l’accaduto. Quella notte che non voleva finire, cominciata alle sei del pomeriggio d’un venerdì novembrino e proseguiva snervante dilatata all’infinito. L’orologio sulla parete non aveva la lancetta dei secondi, e le altre sembravano incollate e immobili.

Mettete le batterie a quell’orologio, si ripeteva in testa. Il tempo non poteva fermarsi così.

Il maresciallo era un brav’uomo a detta di tutti. Persino troppo per alcuni, un uomo di poco polso, ma non c’era mai stata ragione per cui dovesse mostrarsi più forte del dovuto. Si stava in un paesello piuttosto tranquillo. Furtarelli d’auto e incursioni dei topi d’appartamento, qualche auto bruciata e finestra rotta. Gente di fuori, come sempre. Magari qualche rissa. Qualche livido ben nascosto sotto foulard, maniche lunghe e fondotinta per mogli fedeli o infedeli che fossero. Tutto nella norma. Ma non c’era mai stata una sparizione di quel genere. E in effetti, si ripeteva Robert, di quel genere forse non c’erano mai state in nessun posto. O forse sì. Bisognava iniziare a considerare l’esistenza di nuovi posti, o che i posti soliti potessero mostrarsi insoliti di tanto in tanto.

Il piantone gli aveva portato un altro bicchiere di caffè. Non un espresso. Un intero bicchiere, grande e di carta, come nei telefilm americani. L’interrogatorio non era brutale come nei telefilm, ma questo avrebbe potuto dirlo solo un osservatore esterno. Robert, a modo suo, si sentiva torturato. Era una vittima degli eventi, non un colpevole. Ma il colpevole è ciò che si va cercando più della verità. La verità di solito fa comodo solo all’accusato. A tutti gli altri non serve. E anche quando tutti vogliono la verità, la cercano più che altro in funzione d’una più gratificante vendetta.

Cosa te ne fai della verità, se nessuno ti crede, pensava Robert, ripetendoselo con insistenza, cercando il coraggio di dirlo a quegli sbirri. E il problema non era nemmeno dirlo a loro, quanto ai genitori di Agata. A quei due stronzi Robert non era mai piaciuto, non facevano che dare il tormento alla figlia perché smettesse di vederlo, che era un poco di buono in una famiglia di poco di buono. E con che coraggio poi quella merda di suo padre. E quella vacca della madre, con la bocca tanto piena di padre nostri e ave marie quanti i cazzi che si prendeva tra una messa e l’altra, e le botte del marito quando gli girava storto. Come Agata potesse essere tanto dolce con genitori tanto lerci era per Robert un mistero, eppure anche questo di lei l’aveva colpito. Quel carattere mite, misto di timidezza e passione, non sarebbe parso tanto eccezionale se coltivato in una famiglia diversa. Eppure agli occhi di tutti Agata era esattamente ciò che doveva essere per la fama dei suoi parenti, infiocchettata nel giardino ben curato che splendeva con alte siepi a mascherare la grande casa bianca e rosa, delicata e lussuosa. La famiglia di Agata non era più ricca come un tempo ma tutti li consideravano ancora benestanti, perciò che la figlia uscisse con un poco di buono era malelingua comune.

Robert non si sarebbe mai levato di dosso quella patina grigia. Per quanto i dindini con cui pagava sbronze e fattanze venissero da onesti lavori occasionali, per tutti restava un poco di buono. Agata diceva di no, che una volta sposati tutti l’avrebbero visto diversamente. Si sarebbero trasferiti e tutto sarebbe andato a posto.

Robert sapeva di non meritare una ragazza così. A volte voleva lasciarla perché trovasse qualcuno migliore di lui, ma la sola idea di vederla con un altro gli faceva venire voglia uccidersi. E detestava vederla drogarsi e bere con quell’avidità, un po’ perché la fattanza cominciava a lasciare i segni sul suo bel corpo e un po’ perché era lui a pagare. Ma strafarsi in coppia attenuava il rumore delle sue chiacchiere incessanti, i suoi progetti per il futuro, la casa, la chiesa, i figlie e tutti quei progetti studiati per i successivi sessant’anni di vita.

Robert si stupiva sempre della certezza con cui lei ne parlava, quale dovizia di particolari ed entusiasmo sapeva metterci, da dover brindare per la gioia e tirar su col naso per renderli più vividi, come già realizzati per loro due, storditi e sudaticci sul sedile posteriore di una macchina. Talvolta i sogni di Agata irritavano Robert. Agata voleva andarsene di casa e s’era fatta insistente, di quell’insistenza meno bambinesca e priva dell’allegria solita. Forse era solo cresciuta, o si stava rendendo conto di quanto Robert fosse perdigiorno.

“La settimana scorsa vi hanno visto litigare”

Robert si aspettava quella frase, il maresciallo l’aveva tenuta in serbo per tutto il tempo. Ed era vero. Ma quante volte avevano litigato? Dirlo avrebbe solo peggiorato le cose, ma Agata era la prima a scherzarci su. L’amore non è bello se non è litigarello, diceva sempre.

“Litigavate spesso?” incalzò il maresciallo.

Robert voleva dire la verità, ma la verità era relativa, e dirla adesso non avrebbe reso più vero alle orecchie degli sbirri quanto detto prima. Il peggio poi stava nell’incapacità di mettere a fuoco ciò che diceva, e quanto sembravano slegati i pensieri già confusi rispetto alle frasi pronunciate. Lo sbirro stava lisciando un foglio e rileggeva ora un passaggio ora l’altro. Le frasi del verbale suonavano spietate, sembravano gridare, proprio come Agata prima di scomparire.

“Hanno sentito le urla” disse lo sbirro del piantone “come se la stessero ammazzando. Dove l’hai messa Robert?” Si atteggiava spesso a sbirro cattivo. Era di quei giovincelli a cui la divisa dà alla testa, quelli che non hanno mai contato un cazzo e finalmente si sentono forti e importanti. Robert non lo biasimava. Al posto suo non sarebbe stato migliore. E in ogni caso l’ostilità di quella e altre sue domande rivelava tutta la sua stoltezza. Perciò il maresciallo continuava a chiedergli le stesse cose: vero che le grida di Agata erano state udite, come anche lo stesso Robert che gridava il suo nome, più spaventato che furente. Eppure le nude frasi del verbale non dicevano tutto. Un nome si poteva gridare con rabbia o disperazione, e la disperazione poteva anche essere quella d’un assassino pentito della sua bestialità. Ma di Agata non v’era traccia, ed era difficile immaginare che avesse potuto nasconderne il corpo tanto in fretta.

Robert era stato visto a ciondolare per una traversa della via principale, presso il bar, in cerca di una nuova dose d’alcol che potesse rinvigorire le precedenti.

Quel venerdì Agata si era presentata in ritardo, già un po’ svampita nella sua fattanza. Perciò Robert s’era irritato fin da subito, ed ancora a quelle richieste d’ulteriori dosi di sballo. Il vizio crescente di Agata gli costava sempre più caro. L’avrebbero incolpato anche di questo? Non era pensabile che una ragazza di buona famiglia diventasse drogata di sua sponte. Ci voleva l’istigatore maligno, chi già era noto per i suoi stravizi.

Forse era per questo che Agata aveva scelto lui: se un giorno avesse deciso di lasciarlo lei avrebbe potuto dirsi corrotta e redenta. Ma la loro attrazione era autentica, come l’affetto e tutto il resto.

Il maresciallo stava facendo un po’ lo stronzo adesso, lasciandosi prendere dalla sindrome di Perry Mason, raccontando come secondo lui si erano svolti i fatti. Robert l’ascoltava, alcuni dettagli erano surreali, ma immaginava potessero essere usciti dalla sua bocca. Voleva riscrivere alcune frasi del verbale che, era evidente, in un tribunale non potevano reggere. Lo stato confusionario del colpevole non era un’assoluzione, ma gli avrebbe fatto gioco. Per adesso era soltanto un sequestro di persona, che si sarebbe risolto in un nulla di fatto constatando la fattanza della stessa vittima.

“Capisci Robert, che quello che ci hai raccontato non ha molto senso”

Robert annuì. Dicendo che non sapeva più cos’avesse raccontato avrebbe aggravato la situazione. “Possiamo tornare domani a vedere?” disse Robert.

“Cosa vuoi vedere Robert?”

Quel buco. Agata doveva essersi nascosta dentro, spaventata com’era per l’aggressione. O era stata spinta dentro?

Il maresciallo fece uno sbuffo, a metà tra il rassegnato e il comprensivo. Sì. Era un brav’uomo dopotutto.

Robert fu spinto in una volante e riaccompagnato nella sua catapecchia tra le stradine del centro storico. Non c’erano abbastanza elementi per arrestarlo, non ancora.

L’auto della polizia rimase parcheggiata tutta la notte davanti casa. La voce della scomparsa di Agata s’era già sparsa tra la popolazione e tra i passanti si formavano capannelli di confabulanti additatori della casa del colpevole.

Robert si svegliò debole, gli sembrava di non mangiare da giorni. Era all’incirca mezzogiorno e per un istante gli sembrò tutto un brutto sogno. Prese il telefono e provò a chiamare Agata. Quando sentì la voce di donna Robert ebbe una sensazione simile a quella provata durante i loro primi baci, un senso di pace e contentezza che gli pervadevano il capo fino alla punta dei corti capelli sprimacciati. Ma non era la voce di Agata, era quella di sua madre. Robert si sentì assalire da un gelo che percuoteva le viscere bloccandogli il respiro. Era stata la madre di Agata a denunciare la scomparsa della figlia, così aveva detto il maresciallo.

Robert si guardò intorno. La giacca era buttata sul pavimento, dove l’aveva gettata appena rincasato. S’era tolto tutti i vestiti come a disfarsi di croste appiccicose che gli prudevano, o colonie di formiche e piattole che lo punteggiavano di morsi su tutto il corpo. Era andato a dormire nudo, e così stava ora, con la cornetta in mano. Il freddo del corpo si concentrava nel nodo alla gola chiusa. Riattaccò.

Robert cominciava a ricordare. Gli sbirri non erano venuti a prenderlo subito. C’erano voluti tre giorni prima che la madre di Agata ne denunciasse la scomparsa. Le voci delle grida notturne presso il grande campo dove andavano a bere, fumare e scopare, s’erano sparse giungendo alle orecchie della madre preoccupata.

Tre giorni. Robert chinò lo sguardo sull’uccello appassito e addormentato. Il pube rasato s’era nuovamente fatto ispido. Agata detestava i peli, le davano disgusto e ribrezzo. Si ricordava ancora come l’avesse respinto quelle prime volte, dopo essersi messi insieme a parole e moine, prima di sugellare quell’attrazione col sesso. Agata ci aveva provato, poi ansante più per panico che per desiderio gli era sgusciata via dalle braccia, vinta dal disgusto. Voleva che Robert si depilasse ovunque, per sembrare più pulito e “più giovane, più diverso”. Gliel’aveva ripetuto spesso i primi tempi, e a Robert era rimasto impresso perché non aveva mai capito bene quell’ossessione. Comunque l’aveva accontentata, e benché avesse sempre considerato gli uomini depilati fighetti ed effemminati, per Agata non aveva esitato.

Dunque, Robert ricordava s’essersi messo in tiro per l’incontro di quel venerdì sera. Aveva senso. Il sabato e la domenica lui non lavorava. Gli piaceva il venerdì, benché stanco dal giro di consegne per quel vecchio di merda del ferramenta locale, che lo trattava come un cane ma almeno lo pagava sull’unghia. Robert aspettava il venerdì sera con ansia. Trascorrevano poi l’intero sabato insieme, ma l’attesa rendeva quelle poche ore del venerdì speciali. E in effetti il venerdì non litigavano mai. La domenica era il giorno dei litigi, quando i soldi della settimana sparivano tra le bevute e fumate d’erba e cristalli.

Il sabato era il loro giorno da matrimonio, come sognavano sarebbe stata la vita insieme, andando a passeggio mano nella mano, ed Agata che non la finiva più di fare progetti. E lì Robert resisteva sempre, riusciva a farsi contagiare da quell’entusiasmo, almeno per un po’. Passavano di nuovo la notte insieme, poi Agata si ostinava a mantenere la promessa d’accompagnare i genitori in chiesa ogni domenica mattina. E poiché Robert non era il benvenuto a casa loro, il pranzo domenicale restava tabù, buco nero nei loro weekend di passione. Bastavano quelle poche ore mattutine a rendere Agata intrattabile per il pomeriggio e la notte. Magari erano le pressioni dei genitori che insistevano per fargli lasciare Robert. O forse dopo un giorno e mezzo Agata si rendeva conto da sola che lui non avrebbe potuto darle tutto ciò che meritava, ma restava con lui ed accettava di passare un altro squallido pomeriggio insieme solo per farsi rifornire di cristalli e alcol per l’inizio settimana.

Robert non ricordava perché avessero litigato quel venerdì sera, ma ora che i fumi dell’alcol s’erano dissolti e si rendeva conto d’aver perso due giorni un senso d’angoscia e panico lo copriva di sudori freddi. Il maresciallo era venuto a bussare a casa sua la notte di domenica. Anzi no. Non l’aveva trovato in casa, ma nei pressi della stradina adiacente al campo, là dove la coppietta aveva i suoi incontri notturni. Per tornare là Robert s’era dovuto rifocillare di coraggio liquido in ogni forma, colore e sapore. La guida in stato di ebbrezza sarebbe stata sufficiente ad arrestarlo, ma quando il maresciallo l’aveva trovato se ne stava seduto in macchina, a fissare un muro. Sul muro c’era un buco, una spaccatura nera, grande come Robert non l’aveva mai vista. Si parcheggiavano sempre lì, lui e Agata, e dopo il primo rapido orgasmo d’ogni venerdì lui tornava a raccontarle spesso di come da ragazzino, in quel buco buttasse le cicche di sigaretta. Una volta, quando aveva provato a farsi una posizione come spacciatore d’erba, ci aveva nascosto un bel pacco da chilo di marijuana, ma tornato a prenderlo era sparito. Tanto era bastato a renderlo inaffidabile ai pusher, quelli veri, che non avevano mai voluto dargli una seconda chance. C’erano poi voluti mesi per ripagare il debito di quel pacco maledetto, mesi in cui l’unica cosa bella era stata l’incontro con Agata.

Così il maresciallo l’aveva trovato là, dove qualche inquilino zelante non aveva tardato a scendere in strada per raccontare le grida di due notti prima. Poi c’era stata la notte dell’interrogatorio. In mezzo solo un lungo stordimento e tanti incubi. Robert ne aveva spesso di incubi, specie quando beveva troppo, ma mai se riusciva a passare la notte abbracciato stretto alla sua Agata. Le ultime due invece le aveva passate da solo, abbracciato nudo ad un cuscino zuppo di sudore distillato d’alcol e tossine.

“Cos’ho fatto?” si ripeteva Robert frugando tra i vestiti e per casa, in cerca d’indizi a conferma dei suoi sospetti. Continuava a ciondolare nudo. Non c’erano stufe né tappeti e il freddo di novembre si faceva sentire, con quegli infissi che fischiavano da uno spiffero all’altro.

Bussarono alla porta. Erano gli sbirri. Lo fecero vestire, guardandolo nel mentre come si guarda un assassino. Robert si lasciò condurre in caserma senza dire nulla. Sperava che di punto in bianco Agata riapparisse, avrebbe anche sopportato di vederla tumefatta e livida, o saperla in ospedale, tutto purché fosse ancora viva. Poi le sarebbe stato lontano per sempre, l’importante era che saperla viva, e certamente più felice con chiunque altro.

La storia era ormai scritta tra le chiacchiere dei passanti, i sospetti e le accuse dei genitori di Agata e perfino di Robert, verso se stesso.

Robert fece ciò che sapeva potergli costare tutto. Disse la verità, l’unica che gli era rimasta chiara in mente dopo tanta confusione. Restava una verità era piena di angoli bui e lacune che investigatori e giudici avrebbero riempito a piacimento. Voleva bene ad Agata. Bastava questo, ai suoi stessi occhi, a garantirgli la certezza di non esser stato lui a farle del male? Se invece fosse stato qualcun altro e lui non avesse mosso un dito, troppo ubriaco e fatto, non era ugualmente colpevole? Ma le colpe che poteva proiettare su qualcun altro non erano che fantasie d’una sagoma nera, un’ombra scura non diversa dal suo stesso inconscio, sublimazione dei fastidi e delle ire che gli procurava la sua vita, e pure Agata.

Robert passò il resto di quel lunedì con le braccia conserte, a stringersi il petto e le spalle per il freddo, torturandosi in cerca del ricordo che potesse assolverlo. Non lo trovava. Ripensava a quel buco nero sul muro, a come somigliasse al buco nero nelle ore di quella notte, e nella sua testa.

Verso le quattro del pomeriggio il campanello della caserma aveva suonato e un uomo rozzo, con gli stivali insozzati di fango sino al ginocchio s’era fatto strada nell’androne. Robert aveva alzato lo sguardo, gli avrebbe detto di pulirsi le scarpe se quello non gli avesse mandato un’occhiata feroce, aspra come il giudizio stesso di Dio.

Il maresciallo uscì in fretta, ci fu un trambusto di qualche minuto. Robert fu rinchiuso in uno sgabuzzino. Poteva sentire i passi del piantone poco oltre l’uscio.

“Cos’è successo?” chiedeva Robert, implorante “hanno trovato Agata”

“Si” rispose il piantone “l’hanno trovata, brutto pezzo di merda”

Robert tacque. Sirene avevano urlato in lontananza. Quando il maresciallo fu di ritorno e la cella si aprì vide il verdetto scritto nel volto dell’uomo, scolpito nella rabbia e nel disgusto.

Agata era stata ritrovata in aperta campagna. Il grande campo abbandonato e incolto stava dall’altro lato del paese rispetto a dove i due giovani erano stati uditi litigare notti prima. Il collo di Agata era annerito da evidenti segni di strangolamento. Il corpo livido e freddo venne caricato su un’ambulanza che urlava inutilmente.

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