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Stai leggendo: "L'altalena in fondo al pozzo" di Quinto Moro 

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Parte 1

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Quando scende ride, quando sale piange. Che cos’è?

Era l’indovinello che i vecchi del quartiere facevano a noi bambini. Se ne stavano seduti tutto il giorno sulla panca di ferro verde, e marrone nelle sbucciature di vernice. Prendevano il primo sole del mattino e l’ombra dalle dieci in poi, fino a sera, guardando le macchine e la gente che passava, criticando i tempi moderni, scherzando o rimproverando noi bambini. A chi correva dicevano di non correre. A chi urlava dicevano di abbassar la voce. A chi si fermava a guardare le macchine dicevano “guai a te se stacchi lo stemmino”, anche se noi eravamo fermi al contrabbando delle Big Babol e quello degli stemmini era per i graduati delle medie come mio fratello. A chi stava zitto e salutava educatamente facevano i complimenti. E a tutti chiedevano sempre “figlio di chi sei?”, una domanda che sembrava oggetto delle scommesse nei loro discorsi, visto che poi litigavano per ricostruire la parentela di famiglia di questo e di quello. Quando poi ridevano e stavano di buonumore ci facevano gli indovinelli.

Quando scende ride, quando sale piange. Che cos’è?

“Mio fratello!” risposi un giorno.

“E perché?” mi chiese quello col naso da tucano e i capelli biondo platino.

“Perché quando scende le scale per andare a giocare è contento e quando sale piange perché qualcuno l’ha picchiato”

La loro risata mi fece sentire trionfante, ero sicuro di aver indovinato, ma dissero che non era la risposta giusta. Poi mi rimproverarono, dicendo che se qualcuno picchiava mio fratello lo dovevo difendere. Quando spiegai che era lui il fratello maggiore furono turbati e lo disprezzarono, dicendomi di non diventare una femminuccia come lui. Mi offesi molto e li mandai affanculo, loro si offesero più di me chiedendo per la milionesima volta “figlio di chi sei?”

Quando sale ride e quando scende piange: ero io che tornavo a casa tronfio, e uscivo di nuovo – giù per le scale, niente ascensore per punizione, che io l’ascensore lo adoravo – trascinato da mia mamma di nuovo in strada a chiedere scusa, visto che nel frattempo tutto il quartiere aveva saputo della mia maleducazione. Feci le mie scuse insincere, e quando a cena spiegai il fattaccio davanti a tutti, mia madre non capì e mio fratello si offese con me – umiliato pure da quanto avevano detto i vecchiacci, e avevo ripetuto parola per parola. Mio padre finse il suo sguardo ammonitore ma non disse una parola, prima di andare a letto mi infilò in tasca due cioccolatini. Ne diedi uno a mio fratello come offerta di pace, lui lo tirò con sprezzo sull’armadio. Avremmo fatto pace due pomeriggi dopo, mentre si cercava invano di recuperarlo.

Avevo dieci anni. Mio fratello dodici.

 

I vecchi non erano tutti uguali e da quel momento cominciai a guardarli con antipatia. Io e mio fratello c’eravamo illusi a lungo che fossero tutti come la nostra nonna materna, che era stata per lungo tempo il massimo esponente di questa categoria. Se fino ai sette anni eravamo sempre stati trattati con simpatia, alle soglie della pubertà, senza aver avuto il tempo di frodare assicurazioni e fisco o picchiare le nostre mogli, stavamo diventando quei giovani d’oggi che mandano il mondo alla malora.

Andando a scuola, a fare sport, a casa dei nostri amici in quartieri più lontani, ci rendevamo conto di come quelle creature raggrinzite affabili e arcigne fossero pari del Due Facce nemico di Batman. E che si annidavano in tutti gli angoli del mondo, più numerosi di quanto avessimo immaginato, in una schiacciante superiorità numerica le cui proporzioni si sarebbero svelate nel tempo.

La nostra nonna materna in ogni caso sopravviveva come esempio di speranza, verità e giustizia, oltre che di senso dell’umorismo e infinita saggezza. Vedova, viveva in una casa tutta sua, nel punto in cui la periferia si faceva campagna e l’aria aveva un odore diverso. L’aria sapeva di erba umida e di cacca di animali appena sfornata, a intervalli irregolari, lungo i campi fiancheggianti la strada il cui asfalto era stato masticato da mezzo secolo di trattori e temporali.

Capitava, quando i nostri genitori volevano fare gli sposini, che ci parcheggiassero a casa della nonna per il fine settimana. La casa era piccola, come una domus de janas fatta a sua misura. Le porte piccole, il soffitto basso, il caminetto una nicchia d’angolo, le finestre tanto strette che un uomo adulto ci sarebbe passato a fatica. Il cortile anteriore sarebbe stato un perfetto campo da calcio se nostra nonna non l’avesse riempito di fiori e di piante grasse messe apposta per scoraggiare i giochi di pallone. C’era però abbondanza di aiuole per fare scavi e piste per le biglie, giochi d’altri tempi che la nonna s’ingegnava a rendere interessanti per noi figli dell’era moderna. E c’era soprattutto l’altalena, montata da nostro padre tre estati prima, ricavata da uno pneumatico legato ad una fune e appeso al grande leccio che svettava abbracciando buona parte della casa e del tetto, dandole un aspetto da capanna dei puffi.

La nostra stanza era la metà rispetto a quella del nostro appartamento al piano tre, i letti strettissimi e alle pareti quadri di martiri con le stigmate e angeli svolazzanti come negli X-Men. Nel quadretto sopra le nostre teste, Gesù alzava gli occhi al cielo come se si lamentasse della nostra presenza.

In tutta la casa c’era un solo televisore, il più piccolo che avessimo mai visto, il cui telecomando era scettro della nonna il cui uso ci era proibito, con la scusa che la tv era piena di porcherie, tranne quelle che guardava lei. In ogni caso ci teneva impegnati per tutto il tempo – o quasi, visti i suoi pisolini ai confini della narcolessia spinta – chiacchierando e raccontandoci di quand’era giovane, di nostro nonno, di nostra madre da piccola, delle cose successe quando noi eravamo troppo piccoli per ricordarle.

Venne a mio fratello l’idea di farle l’indovinello, perché essendo vecchia doveva conoscere gli stessi giochi e scherzi dei raggrinziti sotto casa nostra.

“Quando scende ride, quando sale piange. Nonna, che cos’è?”

“Il secchio del pozzo” rispose lei soddisfatta. Noi ci guardammo straniti.

“Quando scende fa cirricchi-cirricchi perché cigola e sembra che ride, quando sale pieno d’acqua sgocciola e allora piange. Capito?”

Facemmo di sì con la testa. No. Non avevamo capito. Lei se n’era accorta e ci disse: “domani nonna ve lo fa vedere.”

 

continua ​>>>

 

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