
Stai leggendo: "L'altalena in fondo al pozzo" di Quinto Moro
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Parte 2
​Il pozzo stava nel cortile sul retro, circondato dalle siepi di fichi d’india in cui era proibito andare, e che a noi non piaceva in ogni caso sia perché le siepi erano satanici strumenti trucida-palloni, sia perché né a me né a mio fratello erano mai piaciuti i fichi d’india. Nonna ancora ci prendeva in giro per quando le avevamo chiesto di togliere i semi dalla polpa dei fichi, per non parlare delle spine invisibili che ti restavano infilate nelle dita per giorni.
Nonna ci raccontò che il pozzo era antico e l’aveva fatto scavare il nostro bisnonno, suo padre. Quand’era nato mio fratello lei l’aveva fatto rimettere a nuovo, alzando il muretto e facendolo chiudere con una botola di legno perché non si rischiasse di caderci. Nonna aprì la botola, ci spinse dentro il secchio e la carrucola cominciò a cigolare.
“Quando scende ride” disse nonna. Pescò un po’ d’acqua e ci chiese aiuto per tirare, ma si capiva che da sola ci riusciva benissimo. Il secchio bagnato piangeva anche se non era pieno.
“E’ un indovinello per la gente di campagna”
Nonna vuotò il secchio nell’aiuola dei girasoli e in quella del rosmarino, lasciò un po’ d’acqua sul fondo del secchio e si mise raschiarlo con le dita.
“Però non siamo stati fortunati”
E noi in coro: “perché?”
“Ogni volta che butto il secchio spero di ripescare una cosa”
Di nuovo in coro: “che cosa?”
“In fondo al pozzo ci sono gli anelli dei vostri bisnonni”
“E perché?” chiesi io.
“Anelli d’oro?” chiese mio fratello, che badava al soldo.
“Sì, d’oro. Le fedi nuziali di mio papà e di mia mamma, che lei ha buttato nel pozzo per non darle alle camicie nere nei tempi di Mussolini, perché passavano a prendersi l’oro e l’argento in casa della gente.”
“Erano rapinatori?” chiese mio fratello.
“Erano peggio, perché era come se i carabinieri di oggi venissero a casa vostra, picchiano vostro padre e si rubano tutti i soldi che avete. Capito? Lavoravano per lo Stato ma erano delinquenti. Lo imparerete a scuola. Avevano fatto questa legge dell’oro per la Patria, chi voleva poteva donare le fedi d’oro e gliene davano in cambio una di ferro. Però c’erano questi maledetti che venivano in casa a chiedere se avevi dato le fedi alla Patria, se gli facevi vedere l’anello di ferro se ne andavano, altrimenti erano dolori. Vostra bisnonna pur di non darglieli li ha buttati nel pozzo e bisnonno si era fatto fare dal fabbro due anellini di ferro, anche se non erano uguali alle fedi che davano a chi la donava per davvero. E comunque non era giusto, perché non era obbligatorio e invece c’era qualche camicia nera che girava per le case a farsi dare le fedi, per farsi belli coi capi. Ricordatevi sempre che i leccaculo sono peggiori dei cattivi, se vi fate amici i delinquenti perché così vi lasciano in pace, diventate più schifosi di loro.”
Nonna vuotò il secchio e ci fece rientrare in casa. Mio fratello s’era fatto silenzioso. Nei giorni seguenti avrebbe parlato di quegli anelli sino allo sfinimento. S’era messo in testa di recuperarli a tutti i costi, convinto che lo potessimo vuotare una secchiata alla volta per poi setacciarne il fango sul fondo, o che con un tuffo l’avrebbe raschiato dal fondo come Déagol. Più ci rifletteva e più affinava la fantasia, portandola a un livello del tutto professionale: voleva uno di quei caschi da speleologo, quelli gialli col faretto, ma riuscì a procurarsi solo una piccola torcia che andava con due batterie stilo, barattata col sangue di un volumetto di Batman. Al posto del casco ripiegò sulla cuffia da nuoto di nostra madre, imbarazzante nel suo rosa shocking. La fissa per quell’impresa da cacciatori di tesori finì per contagiare anche me e passammo i pomeriggi a fare piani avventurosi.
Il weekend successivo restammo a casa nostra perché mio fratello si era fatto pestare dalla sua nemesi, Arnaldo M. – dove la M. sta per merda, che era poi il suo odore abituale – un ripetente con cui si erano beccati per tutto l’anno precedente, e con cui la tregua d’inizio anno scolastico sembrava appena finita.
L’impresa slittò alla settimana seguente, alla domenica pomeriggio in cui lasciammo nonna a ronfare beatamente sul divano, davanti alla tv accesa sui quiz domenicali. Sgattaiolammo nel cortile sul retro per trovarci di fronte all’enormità dell’impresa.
Mio fratello aveva rapidamente corretto il suo piano così che io mi calassi nel pozzo con un piede dentro al secchio, mentre lui rilasciava la corda. La sua logica era inoppugnabile, essendo io il più piccolo e leggero toccava a me. Ma la sua logica nulla poté contro la mia impenetrabile armatura di vaffanculo a raffica e a volume crescente, che minacciavano di richiamare la nonna dal suo mondo di sogni a premi. C’era poi il fatto che nessuno dei due voleva mettersi in testa quell’obbrobriosa cuffia rosa shocking, e che voleva essere lui – in qualità di capo-spedizione nonché di fratello maggiore – a riconsegnare gli anelli alla nonna. Già mi vedevo fare la fine del povero Déagol mentre lui si godeva il tesoro e l’eterna gratitudine della nonna.
Nel mezzo della discussione fatta di urla sottovoce e nuove combinazioni di reciproci insulti, il secchio finì nel pozzo tirandosi dietro tutta la fune. Il piano sembrava inevitabilmente sfumato e ci attendeva pure la strigliata per aver infranto il sacro veto del cortile posteriore, nonché della botola proibita e del secchio perduto.
Mio fratello, curvo sul bordo della botola scrutava nell’abisso, tutt’altro che abbattuto.
“Li vedo!” disse. Luccicavano sul fondo secondo lui. Qualcosa luccicava, questo era certo. Per me era solo il riflesso della luce sul pelo dell’acqua, ma per mio fratello era la spiegazione più banale, quella del codardo che voleva sottrarsi all’impresa.
“Devi guardare dietro i riflessi, sembrano due stelle. Ci sono anche i riflessi dell’acqua ma gli anelli sono dietro, più in fondo”
“Se sono tanto in fondo come ci arrivi?” lo provocai, ma aveva una risposta per tutto. Secondo lui era l’acqua a fare come una lente, rimpicciolendoli.
“Forse si tocca persino”
Avrebbe detto qualsiasi cosa per convincermi. Lo rimbeccai sfidandolo ad indossare l’oscena cuffia rosa e ci riuscì solo dopo lunga esitazione e gran sforzo di volontà.
“Sembri un glande” balbettai per il troppo ridere. Mi afferrò per la maglietta, minaccioso come non l’avevo mai visto.
“Ho messo la cuffia e ci vado io, ma adesso fatti venire un’idea per scendere”
“Usiamo la pompa per annaffiare?”
“Non dobbiamo mica riempirlo di più” disse lui dandomi del cretino.
“Non dobbiamo prima aprire l’acqua” feci in tono canzonatorio.
“E’ troppo scivolosa, con le mani bagnate non ce la faccio a risalire”
“Allora l’altalena” dissi d’istinto. Sembrava perfetto: una corda e per appiglio un grosso anello di gomma che male andando avrebbe galleggiato, o così demmo per scontato. Per dividere i rischi dell’impresa toccò a me arrampicarmi fino al ramo e tagliare il nodo. Avremmo poi detto che si era rotta giocando. Trasportare lo pneumatico per quei venti passi tra il cortile anteriore e quello posteriore fu un’impresa, sia perché era dannatamente pesante sia perché bisognava passare davanti alla nonna addormentata, e mio fratello con quella cuffia stava sempre sul punto di farmi ridere – l’avesse tolta, non sarebbe riuscito a rindossarla.
Sfuggimmo alla nonna che ci salutò con una ronfata. Fissammo la corda alla carrucola, lo pneumatico entrava a malapena nella botola ma quando la vedemmo penzolare dentro al pozzo ci parve di aver compiuto una grande impresa.
Guardando mio fratello scavalcare il muretto e infilare le gambe nella botola, mentre si teneva alla carrucola e alla fune, ebbi l’istinto di trattenerlo e di lasciar perdere. La paura che pur gli leggevo in faccia sembrava imbrigliata dall’esaltazione dell’impresa, lo stavamo facendo davvero e gli leggevo negli occhi la fierezza del suo coraggio. Ridacchiava nervoso, mordendosi il labbro in un sorriso storto mentre si calava lungo la fune, giù fino allo pneumatico sospeso nel vuoto.
“E’ profondo?”
Dall’alto sembrava lambisse l’acqua col piede, scorgevo una scia ondeggiargli sotto. Inforcò il ciambellone dello pneumatico e in un momento di trionfo si abbandonò a un urlo di esultanza. Mi girai verso la porta del cortile, terrorizzato all’idea che da un momento all’altro la nonna ci scoprisse. Quando mi girai di nuovo la corda non c’era più e la testa rosa shocking di mio fratello era scomparsa in un’esplosione di schizzi neri.
Quando scende ride, quando sale piange. Che cos’è?
Tra il rosso fiamma delle uniformi dei pompieri e l’arancio acceso in quelle dei paramedici, la cuffia rosa shocking non sembrava più così fuori posto. Riuscirono ad estrarre mio fratello dal pozzo solo a notte fonda. La faccia era una luna bianca scavata al centro da un vulcano rosso dove un tempo c’era stato il naso, divorato dai ratti. Il suo corpo gocciolava come una spugna, nel breve tratto da un uscio all’altro allagò l’intera casa e anche la mia faccia era coperta d’acqua e sale.
Mio fratello rimase in ospedale per una settimana. Si sarebbe ripreso, a parte il naso smangiato da teschio.
“Sembri Voldemort” gli dissi senza cattiveria, pensando di metterlo di buonumore. Pianse per tutto il pomeriggio.
Anche la nonna fece due giorni d’ospedale, mezza morta di crepacuore. Ai miei genitori non raccontai la storia degli anelli nel pozzo, né lo fece mai mio fratello. Mi presi la colpa, dissi che l’avevo sfidato per fare una scommessa. Mia madre faticò a parlarmi per mesi e forse non mi ha mai perdonato del tutto. All’inizio era decisa a farmi restare in casa finché mio fratello non fosse stato meglio, perché potessi fargli compagnia, giocare con lui, tornare a scuola insieme. Quando gli dissi della scommessa, mi mandò a scuola il giorno dopo, e rientrai a casa col naso rotto. Uno dei compagni di mio fratello, un tipo smilzo, mi aggredì all’uscita. Disse che mio fratello aveva avuto quel che meritava e sperava che morisse. Mentre rientravo lacrimante e in piena epistassi mi chiedevo se con un pezzo di naso in meno avessi sanguinato allo stesso modo. Venne fuori che mio fratello aveva pestato lo smilzo per farsi bello con Arnaldo Merda, per farsi amico quel sudicio sacco di letame d’un ripetente.
I leccaculo sono peggiori dei cattivi, aveva detto mia nonna, anche se all’epoca non colsi le sfumature di tutto quanto era accaduto.
Dopo la morte di mia nonna, la sua casa è rimasta disabitata e in rovina. Col primo stipendio ingaggiai una specie di sommozzatore per dragare il fondo del pozzo. Ci lavorò una settimana, senza risultati. Poi ne ingaggiai altri due, più esperti e attrezzati. Quando mio fratello è riuscito a trovare una che guardasse oltre la protesi del suo naso di gomma le ha chiesto di sposarlo.
Ho chiuso con un nastrino rosa shocking l’astuccio di cuoio che nostra nonna usava come portamonete. Mio fratello ci ha trovato dentro due anellini d’oro, un po’ rovinati, grandi appena per contenere un’incisione che recitava 9-8-1932 e le iniziali dei nostri bisnonni.
“Non piangere che ti casca il naso” ho scherzato io, ma ha pianto lo stesso.
Lo scontrino del gioielliere l’ho gettato nel pozzo.
Fine.