
Stai leggendo: "Lala Land" di Quinto Moro
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Ore 15:00
"Mi raccomando, i tuoi fratelli contano su di te. Non deluderli."
Lala quella raccomandazione non l’aveva capita. Forse suo padre intendeva darle un compito importante ma guardando i fratellini che russavano con la bocca aperta, le tutine appena macchiate all’ora di pranzo, Lala non ci vedeva proprio niente di esaltante. I suoi fratelli Terry, Timmy e Tony, erano mocciosi che sapevano a malapena camminare. Solo Terry, il secondogenito di appena quattro anni, sapeva camminare, ma si divertiva a passare il tempo gattonando, consumando le ginocchia di tutti i suoi pantaloni su cui bisognava cucire continuamente delle toppe. Terry passava tutto il tempo sdraiato sul letto o sul divano ed era il bambino più pigro che Lala avesse mai visto mentre lei, ai tempi dell’asilo, era molto più scalmanata e le piaceva correre facendo a gara coi maschi. Dall’arrivo degli ultimi due fratellini però ché le era passata la voglia di correre e aveva perso buona parte della sua vivacità, perché se la mamma era innervosita dai piccoli sgridava anche lei per un nonnulla.
Gli ultimi arrivati, Tony e Timmy, non gattonavano nemmeno, si contorcevano come lombrichi diceva la mamma, come vermi secondo Lala. La mamma non voleva che si paragonassero i suoi figli a dei vermi, ma i lombrichi erano lunghi, e Tony e Timmy non lo erano affatto. Non sapevano neanche a parlare, mentre Lala a sei mesi aveva già un vocabolario ben nutrito, ed aveva scoperto di parlare troppo solo da che erano arrivati quei due. Tony e Timmy sapevano solo mangiare, dormire o strillare, e rotolarsi. L’unica cosa a cui potevano servire era far da bigattini da pesca per i giganti.
Lala doveva anche sorbirsi le critiche di nonne, zie e cugine per la sua mancanza d’entusiasmo verso i pargoli che a loro invece facevano impazzire. Facevano impazzire anche Lala, ma in un altro senso. Se l’era cavata così bene nei suoi primi di vita, coccolata ed osannata per i suoi tanti talenti, ma ormai i pannolini sporchi e ruttini dei fratelli attiravano più attenzioni e meraviglia dei suoi disegni e dei suoi canti. L’unica ad essere d’accordo con Lala era la sua migliore amica, Sandy. Con Sandy poteva dire qualunque cattiveria sui suoi fratelli e genitori, che pure facevano spesso finta d’essere contenti del loro bel trio di maschietti.
Il papà e la mamma non sembravano più tanto felici dall’arrivo degli ultimi due bimbi. Lo erano stati per Terry, poi sempre meno. E a ben guardare l’album dei ricordi, erano stati decisamente più felici quando c’era solo Lala. Allora ridevano e scherzavano, andavano al mare tutti insieme, facevano pranzi e cene di famiglia coi nonni e gli zii, ma tutto stava cambiando. Lala non poteva sbagliare più niente, la mamma esauriva tutte le energie coi fratellini e non poteva sopportare di sprecarne altre per lei.
Ed eccola là Lala, nel pomeriggio del sedici di aprile a badare ai suoi fratelli. I genitori rompevano sempre le scatole se lei diceva bugie, eppure il papà ne aveva appena detta una: non erano i suoi fratelli a contare su di lei, era lui a contare su Lala perché tenesse d’occhio i vermetti mentre usciva di casa alle tre del pomeriggio, all’ora in cui aveva giurato alla mamma di farsi il pisolino pomeridiano, stanco com’era dal lavoro. Ma era la mamma a star fuori tutto il giorno per lavoro, mentre lui usciva alle nove e tornava a mezzogiorno, pranzava e si metteva a dormire, per poi uscire tutto pettinato e profumato e tornare solo per cena.
Al pomeriggio capitava spesso che una signorina telefonasse chiedendo del papà, e lui si seccava sempre quand’era Lala a rispondere. Altre volte, se lui voleva dormire Lala non rispondeva si arrabbiava ancora di più. Quella scena si ripeteva spesso ed era una bella seccatura, anche il peggio era doversi occupare dei fratelli. Con uno poteva cavarsela, ma tutti e tre era un altro paio di maniche, perché quando uno iniziava a lagnarsi gli altri seguivano a ruota.
Ai primi tempi, quando c’era solo Terry, si sentiva importante a far da sorella maggiore, ma la cosa non la divertiva più. S’era sempre immaginata, nelle fantastiche promesse della mamma panciuta, a diventare più importante e rispettata dai grandi, una loro pari, ed avrebbe potuto insegnare al fratello tutto ciò che voleva. Non era andata così, e rimpiangeva i bei tempi in cui erano solo lei e Sandy, che era solo plastica, ma ci poteva fare tutti i giochi che voleva. Nessuno la rimproverava se sbagliava qualcosa con Sandy, mentre coi fratelli era la fiera del non-si-può-fare.
Quando i genitori non erano in casa, Lala metteva sempre la videocassetta col film dello scienziato pazzo, ed alla sua scena preferita faceva roteare Sandy per le braccia lanciandola in aria e gridando si-può-fare! E lo ripeteva per ogni cosa proibita da quando erano nati gli ultimi bebè: piazzare i coltelli da cucina in ordine di grandezza sul tavolo, si-può-fare! E comporre un sole mettendoli in cerchio con le lame a far da raggi, si-può-fare! Aprire lo sportello della stufa a legna e bruciarci dentro le pagine accartocciate dei compiti sbagliati, si-può-fare! O mangiare di nascosto gli omogeneizzati di frutta destinati ai fratelli, che lei era troppo grande per mangiarli, ma erano troppo buoni. Si-può-fare!
Il papà era uscito e Lala, che non aveva voglia di fare i compiti, si stava scofanando di merendine e succhi di frutta spaparanzata sul divano. Badare ai fratelli era una magnifica scusa per non fare i compiti, poteva sempre dare la colpa ai loro piagnistei che la interrompevano. Sandy non era d’accordo su questo, e anche adesso stava ripetendo a Lala che prima o poi l’avrebbero bocciata.
“Se mi bocciano non è colpa mia” rispose Lala “loro fanno tutto il casino che vogliono. Se incomincio e poi piangono non riesco più a finirli, e alla maestra non gliene frega niente che ero sola in casa, e che provo a farli o no per lei non cambia niente, allora non ne faccio per niente. Almeno mi riposo. Faccio più ore a scuola di mattina di papà a lavoro, e lui se ne può andare dove vuole invece di aiutarmi, non mi porta più neanche in giro. Adesso se mi bocciano l’anno prossimo prendono una bambinaia così mi chiudo la porta mentre quelli piangono e io posso fare i compiti e giocare in pace senza fargli da mamma.”
A Lala non importava d’essere bocciata, così avrebbe cambiato classe e non vedeva l’ora visto che tutti la prendevano in giro per ogni stupidaggine. All’inizio dell’anno la prendevano in giro perché era una secchiona, adesso la chiamavano “scarsa” perché stava andando a male. Ma soprattutto la prendevano in giro perché era la più bassa della classe. Se l’avessero bocciata, avrebbe avuto un anno in più per crescere e nessuno avrebbe osato prenderla in giro, perché essendo più grande d’età avrebbero dovuto portarle rispetto.
Secondo Sandy, farsi bocciare una stupidaggine, ma Lala non aveva voglia di ascoltarla. Dopotutto l’avevano iscritta a scuola un anno prima degli altri, perché la mamma voleva che lei diventasse subito brava e intelligente. L’aiutava a fare i compiti all’inizio, ma adesso non aveva tempo, e diceva che ormai doveva cavarsela per conto suo. Mentre la discussione si animava, suonarono alla porta.
Lala s’alzò di scatto perché i fratellini dormivano della grossa e non voleva si svegliassero. Era troppo bassa per arrivare al catenaccio e doveva mettersi in piedi sul suo sgabello preferito. Nessuno rispose al suo “chi è?” la prima né la seconda volta, alla terza gridò posando l’orecchio contro il portone, perché qualcuno c’era.
“Sono… il postino”
“Il postino?”
“Si… sì sono lui”
Non sembrava un postino molto sicuro di sé, pensò Lala. Nei palazzi delle sue compagne c’erano i portieri e le cassette postali al pianterreno, nel palazzo di Lala non c’erano perché qualcuno si divertiva ad aprire quelle degli altri, così tutti dovevano andarsi a prendere la posta direttamente all’ufficio di zona. Se il postino era venuto fin lì doveva essere importante, e il papà e la manna litigavano sempre per la posta perché lei non aveva tempo di andare all’ufficio postale mentre lui se ne dimenticava sempre. Una volta gli avevano persino staccato la corrente perché nessuno era andato a ritirare la bolletta.
“E’ una cosa tanto urgente?” chiese Lala.
“Urgente. Urgente, sì” disse il postino, ora più sicuro di sé.
“Ci passa la busta sotto la porta?”
“Busta?”
“Non è una busta?”
“No”
Lala fissò il portoncino, riflettendo se aprire o no. Poi pensò che era il sedici aprile, aveva compiuto otto anni da due settimane e la nonna non le aveva ancora spedito il regalo, dunque fece scattare i chiavistelli ed aprì la porta.
Il postino aveva una faccia strana, ma non ne vedeva uno da tantissimo tempo. Era più giovane di com’era sembrato dalla voce, aveva i capelli ricci rossicci e gli occhi grandi e arrossati. Con una certa delusione Lala vide che non aveva alcun pacco sottobraccio, poi il pianto di Timmy la fece allontanare dalla porta mentre il giovane scivolò dentro.
“Sei sola in casa?” chiese il postino, come spaventato.
Lala litigò con le sbarre della culla che non volevano mai abbassarsi, e quando lo facevano scattavano in giù con uno spac! che sembrava uno sparo. Lala prese Timmy in braccio cullandoselo come meglio poteva, era piccolo ma sarebbe diventato certamente un bambino grasso perché pesava tantissimo.
“La posta?” chiese Lala, ma il postino la guardò come le avesse appena chiesto qualcosa di molto difficile. “Posso avere la posta?”
Il postino scosse la testa e chiese quando tornavano i genitori, o così capì Lala, perché quello parlava un po’ strano.
“Tardi” disse lei seccata, un po’ per la delusione del mancato regalo e un po’ perché quel postino era troppo imbranato. “Molto, molto tardi” ripeté per mandarlo via, ché i grandi non volevano mai aspettare.
A volte i genitori di Lala facevano apposta a dare orari sbagliati ad amici e parenti che volevano venire a trovarli, così quelli non li trovavano, aspettavano e si spazientivano per non tornare più. Perciò Lala era abituata a tener compagnia agli adulti, solo che con quelli conosciuti la tattica da usare era diversa: bisognava ripetergli che i genitori stavano per arrivare, tra poco, tra pochissimo, dovevano essere già qui, ma a volte fanno tardi, però poi arrivano. Più lo ripeteva e prima quelli si stufavano per tornarsene alle loro stronze vite, come diceva il papà. Per suo papà le vite degli altri erano tutte stronze, e a volte lo diceva anche della sua.
Il postino però non se ne andò, fece un sospiro di sollievo e fece per accomodarsi in cucina. Lala lo seguì con Timmy che continuava a piagnucolare. A Lala era sempre stato detto di obbedire e di fare come dicevano i grandi, di portar loro rispetto ed essere gentile.
“Li vuoi aspettare?” chiese, ma il postino non rispose, poi tirò fuori una grande busta e se la rigirò tra le mani.
“Quella è per noi?”
“Questa è per me”
Lala non ci aveva mai pensato, ma era logico che i postini portassero la posta anche a se stessi. Ma non avrebbero dovuto farlo a casa degli altri. Il postino aprì la busta e ne tirò fuori delle pagliuzze, le avvolse nella carta velina e ne fece una sigaretta. Lala ne rimase meravigliata perché non aveva mai visto nessuno fabbricarsene una.
Timmy continuava a piangere e adagiatolo sul divano, la bimba s’arrampicò sullo sgabello per armeggiare tra gli scaffali alti del frigo e i fornelli. Il postino nel frattempo s’era acceso la sigaretta e Lala lo rimproverò, che non si doveva fumare davanti ai bambini piccoli, ma il postino disse che quella sigaretta faceva bene, era speciale come l’incenso delle chiese e in effetti aveva un odore che Lala non aveva mai sentito.
Bollito un po’ di latte per Timmy, Lala gli diede il biberon da brava sorella maggiore sotto gli occhi sbarrati del postino che la guardava con grande stupore.
“Tu sei una nana vero?” chiese il postino.
“E’ solo un problema di crescita” s’offese Lala, restandoci malissimo come ogni volta che un estraneo notava quant’era bassa.
“Il tuo bambino è quasi più grande di te. Ce l’hai una brioche?”
Ce n’era mezzo pacco sul divano, la metà mancante se l’era appena scofanata Lala, e anche se stato maleducato con quel commento sull’altezza decise comunque di offrirgliene una. Il postino se la schiacciò tutta in bocca e coprendosi di briciole la maglietta, ne chiese subito un’altra e Lala era così stranita che gliel’offrì senza obiettare. Il postino s’era infilato in bocca la seconda brioche tutta intera, e l’aveva ingoiata mandando la testa all’indietro, col gozzo rigonfio e il pomo d’Adamo che pareva un becco d’uccello. Il postino poi allungò le mani verso il sacchetto delle zollette di zucchero, ne prese una e se la passò sotto il naso e sopra i denti, poi cominciò a mandarne giù in quantità, senza neanche masticarle.
“E’ zucchero” disse lui, come se ne fosse accorto solo dopo averne mangiato una dozzina “adesso ci vorrebbe un caffè. Puoi farmi il caffè?”
“Non so fare il caffè”
“Che razza di moglie non sa fare il caffè?”
“Non siamo mica sposati!”
“Ce l’avrai un marito”
“No che non ce l’ho” rise Lala.
“Anche mia mamma era una ragazza madre” disse il postino annuendo gravemente “ma era più alta di te.”
Timmy finalmente aveva smesso di piangere e tornava a sonnecchiare.
“Allora me lo fai il caffè? Senza zucchero. Lo zucchero l’ho già preso” e mentre grondava sudore come un tacchino nel forno – nonostante la frescura di quell’aprile – ripeteva sottovoce una cantilena “mette il caffè-caffeeeè… mette il caffè-caffeeeè”.
Lala adagiò il fratellino sul divano, il postino cominciava a darle sui nervi ma era maleducato dire a un adulto di andarsene, anche se lui non avrebbe dovuto essere lì e lei non doveva farlo entrare così facilmente. L’odore del fumo però le stava facendo venire mal di testa e non riusciva a concentrarsi, le stava venendo un po’ di sonno. Lala preparò due scodelle di thè, lasciandoci dentro le bustine finché l’acqua si fece nera, quasi come un caffè. Ne bevve un sorso ed era terribile, mentre il postino bevve la sua in un sorso, chiedendo il bis.
Nell’improvviso silenzio in cui era piombata la cucina Lala s’accorse che il postino batteva rapidissimo col tacco della scarpa, come faceva suo papà aspettando che la mamma mettesse a letto i pargoli per fiondarsi alla bottiglia del thè riscaldante, come lo chiamava lui, anche se del thè aveva solo il colore. E quel battere col tacco dava a Lala una brutta sensazione, col papà era sempre messaggero di sventura e anche adesso non portava buone nuove. Lala chiese al postino, con molta calma e gentilezza, di andar via, Lala, cercando d’essere gentile, chiese al postino di andar via, ma quello la guardò coi suoi grandi occhi sgranati, sghignazzando.
“Quanti soldi hai?”
I grandi scherzavano sempre sui soldi, Lala aveva imparato a riconoscere i toni scherzosi con cui lo facevano. Il tono del postino non era di quelli, e infatti s’alzò di scatto cercando di metterle le mani in tasca per prenderle un portafogli che non aveva.
Lala avrebbe potuto spaventarsi, ma le era già capitato di vedere i grandi fare gli stronzi, perciò disse una bugia, che non aveva soldi anche se ne aveva eccome nel cassetto del comodino: l’intero compenso dei suoi perduti denti da latte che non aveva alcuna intenzione d’intaccare, ma si pentì subito della sua avidità.
Infuriatosi di colpo, il postino s’era messo a perlustrare le stanze della casa, lanciando in aria tutto quel che c’era nei cassetti delle stanze da letto. E a chi avrebbero dato la colpa mamma e papà se non a lei? Chi avrebbe mai creduto alla storia d’un postino come quello? Lalà già si sentiva sommergere dagli strepiti della mamma che l’avrebbe pure costretta a rimettere tutto a posto, attentando forse alla sua scorta di capitali nel comodino per punizione.
Alla fine il postino pazzo desistette, accontentandosi di portar via la cosa che gli sembrava più preziosa: il piccolo Timmy. Lo prese in braccio e solo allora Lala parve accorgersi di quanto il giovane fosse alto – che finora l’aveva visto tutto curvo e rannicchiato – e lei così inutile e bassa. Il giovane scappò col marmocchio che dormiva come un sasso, e Lala maledì Timmy che piangeva e strillava solo per rompere le scatole, ma sballottato da quel postino manesco nemmeno un gemito!
Lala strillò e inseguì il postino su per le scale. Sul momento le sembrò un’ottima cosa perché nel giro di due piani il palazzo sarebbe finito e lui non avrebbe potuto sfuggirle, ma poteva decidere di gettare di sotto suo fratello per dispetto! Terrorizzata a quell’idea Lala corse più che poteva, ma le gambe del ladro erano lunghe il triplo delle sue ed aveva già due rampe di vantaggio. Quando poi quello raggiunse l’ultimo piano prese l’ascensore per scendere a pianterreno e Lala rimase fregata.
Corse di nuovo giù gridando e bussando dappertutto ma nessuna porta si aprì. Sempre così i grandi, non ce n’era mai uno in giro se serviva, e quando invece li si voleva fuori dai piedi eccoli a strillare di non far chiasso e non giocare sui pianerottoli.
Correndo giù per l’ultima rampa di scale verso il pianterreno Lala scorse il portone del palazzo aperto e nello slancio mancò uno scalino ruzzolando a faccia in giù. Nella frenesia sentì solo il colpo e una scossa calda ma si rialzò subito e corse fuori, appena in tempo per vedere il postino sparire dietro l’angolo. Per un attimo Lala pensò d’inseguirlo ma il dolore alla bocca la riportò alla realtà: aveva l’ordine di non uscire in strada, di non lasciare mai la porta aperta e i suoi fratelli soli. Stava infrangendo tutte e tre le regole.
Tornò su mesta mesta, sentendo crescere in bocca quel sapore metallico e il calore tutt’intorno al labbro superiore. Afferrò il suo sgabello e in piedi davanti allo specchio del bagno vide che i suoi incisivi nuovi erano sbeccati. Non erano quelli da latte, erano quelli che avrebbe dovuto tenersi per tutta la vita ed erano rovinati per sempre. Cercò di lavarli come potesse riattaccare i pezzetti scomparsi ma non appena lo spazzolino entrò in bocca vide le stelle e non riuscì più a trattenere le lacrime. Non era ancora un vero pianto, quello venne qualche istante dopo, quando si rese conto che aveva un fratello di meno.
I grandi sanno quel ch’è meglio per i bambini, gliel’avevano ripetuto fino alla nausea, valeva anche per quel postino ladro? Se non altro, Timmy aveva mangiato prima di andarsene, almeno per qualche ora non avrebbe pianto per la fame ma era una magra consolazione.
Lala rimase per un po’ a fissare la rubrica col numero di telefono della mamma, pensando se avvisarla o no dell’accaduto, ma lei se la prendeva sempre così a male quando la chiamava. E non era tanto lei quanto quel signore, il suo capo, che rispondeva col fiatone, e furente per essere disturbato. A volte sentiva anche la mamma in sottofondo che gli diceva di riattaccare, pure lei con la voce di chi sta correndo una maratona. Se poi avesse risposto, quanto si sarebbe infuriata per una cosa tanto grave?
Lala cercò il numero di telefono dell’ufficio postale e dopo aver parlato mezz’ora con una voce elettronica e aspettato un’altra ascoltando musica, la linea era caduta. Inghiottì amaro e fece il numero della mamma che però non rispose, e fu quasi un sollievo. In cucina c’era ancora quell’odore di fumo che le faceva venire mal di testa, si coricò sul divano e chiuse gli occhi desiderando di svegliarsi. Li chiudeva forte e li riapriva ma non era un sogno, era tutto successo per davvero.
Andò a prendere Sandy, l’abbracciò e pianse, finché sfinita s’addormentò davvero. Quando si svegliò, Lala fece finta che nulla fosse accaduto e intavolò con Sandy una seria discussione sulle piogge sempre più insistenti delle ultime settimane, di come aprile avrebbe dovuto essere un mese di calda primavera e si ostinava ad ammantarsi di nubi, a soffiare vento negli interstizi delle finestre che sibilavano, e schiaffeggiarle poi con quella pioggiolina che s’insinuava dai davanzali sgocciolando sui pavimenti. Poi Sandy le chiese come mai quel postino sudava come i maiali in agosto, e Lala strillò che non lo sapeva. Non voleva tornare sull’argomento ma Sandy insisteva, dandole della stupida perché di sicuro quello non era affatto un postino ma un pazzo, non avrebbe mai dovuto farlo entrare e tantomeno offrirgli qualcosa. Quello era così matto che forse aveva pensato a Timmy come suo figlio e non suo fratello, l’aveva scambiata per una mamma nana! Lala non voleva più sentire parlare, e visto che Sandy insisteva la prese per i capelli e gliene strappò una bella ciocca, aprì la stufa e costrinse la bambola a guardare quella pagliuzza bruciare.