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Stai leggendo: "Nerezza 2" di Quinto Moro

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Mio padre non credeva in Dio. Era ostile ai salamelecchi verso i santi, i preti e gli dei lassù nel cielo. Oh, fosse nato e cresciuto ai tempi dell’Antica Grecia sarebbe stato di tutt’altra idea, felice di brindare alla salute di Bacco e Marte. Gesù non gli stava simpatico. Avrebbe dovuto, visto ch’erano entrambi falegnami, ma gli rodeva che da falegname fosse diventato così famoso, come lui non sarebbe mai stato. E gli dava del fannullone, se poteva starsene a fare ciance da professorone invece di lavorare.

“Se fosse stato davvero un falegname” diceva “costretto a stare tutto il tempo in officina a lavorare non l’avrebbero mai messo in croce. Le avrebbe fatte lui per gli altri.”

Quando lo sentiva parlare così, mia madre lo rimproverava, ma solo se si accorgeva che c’ero io ad ascoltare.

Mio padre non veniva mai in chiesa, nemmeno il giorno di Natale. Anche se a pensarci bene, in chiesa ci andavano solo le donne della famiglia, e a me piaceva sempre meno perché sembrava troppo da femmine. C’erano anche uomini che andavano in chiesa, ma erano per lo più vecchi scorbutici, costretti dalle mogli o quelli che di mogli non ne avevano mai avute, e forse ci andavano a pregare che il buon Dio gliene mandasse una. E mi sembrava che gli uni e gli altri – uomini e donne – guardassero noi bambini con fastidio, monstrando sprazzi di simpatia nei soli casi in cui conoscevano qualcuno dei nostri genitori, zii o nonni. Simpatia che mostravano solo quando noi si stava con la scorta di taluni parenti, e se stavamo soli non mancavano di lanciare minacce: che avrebbero fatto la spia ai nostri parenti se non ci comportavamo da santi cherubini.

Non sembrava posto per bambini, la chiesa. Dall’odore di vecchia e sporca legna delle panche all’odore di vecchia e sporca gente, dalle facce segnate di severità e rughe, tanto profonde e nere da sembrare cicatrici lasciate dai demoni dell’Inferno.

Ma la mattina di Natale cambiava tutto.

Natale era quel giorno in cui tutti sembravano contenti di starci, in chiesa, e sembravano pronti a perdonare tutti. A sopportare tutti. Era di quei giorni in cui ciascuno sembrava portare sopra i vestiti della domenica quella contentezza tenuta chiusa negli armadi tutto l’anno. Tanto era distesa quell’aria altrimenti flatulenta ed austera, che quasi mi dispiaceva di far saltare in aria la chiesa a colpi di bazooka.

 

Fuori pioveva e c’era freddo, ma era dicembre. A dicembre si perdonava tutto perché c’era il Natale. E al Natale si perdonava il freddo, la pioggia e il vento, il buio troppo presto e pure di dover andare a messa. C’ero riuscito, durante canti e preghiere, a non pensare tutto il tempo ai regali. Almeno fino alla recita del “Credo”, che cadeva a metà funzione e da lì sembrava tutta in discesa fino al sempre lodato “andate in pace”.

Quella mattina, tutti i miei compagni di scuola e catechismo avevano già aperto i regali e snocciolavano liste facendo a gara a chi aveva ricevuto più cose e più belle, tanto che a momenti piangevo per non aver nulla con cui farmi bello davanti agli altri. Cercai di compensare con l’idea del “regalo da grande”, senza pronunciare la parola fatidica a cui nessuno avrebbe creduto: non dire gatto se non l’hai nel sacco, e non dire bazooka se non tieni il dito sul grilletto. Alla fine, i miei compagni erano quasi più ansiosi di me di sapere cosa fosse il regalo misterioso.

Non ne potevo più dei baci e abbracci e auguri e chiacchiere di mia madre e tutto il seguito di comari. La tiravo per il braccio cercando di trascinarla inutilmente verso la macchina. E mamma dai. Mamma andiamo. Mamma è tardi. Dai e dai. Quando finalmente giungemmo in macchina lei era furiosa. Che ero stato maleducato. Che non avevo pazienza. Lei era furiosa! In altri giorni mi sarei appuntato tutte le sue lamentele e rimproveri come spille e pendagli di piombo dal petto in giù, ma era la fottuta mattina di Natale e volevo solo il mio strafottutissimo bazooka.

Feci irruzione in casa senza asciugarmi le scarpe, scivolando a faccia in giù, sprofondando ben al di sotto delle mattonelle a guardare il gorgo vuoto sotto l’albero. Un buco nero s’era inghiottito il mio regalo o Babbo Natale s’era perso l’indirizzo. Stavo già piangendo quando mi spiegarono che il regalo non ci stava sotto l’albero – troppo grosso – e mi aspettava in cameretta.

La porta era chiusa. La spinsi piano, con lo stomaco strizzato dall’interno come una zampogna sorda. Ad avvolgere il pacco non c’era la carta rossa coi motivi natalizi, né quella verde in tinta militare come mi sarei aspettato. La cosa nella stanza era nera e lucida, una zampa robusta saliva squadrata verso un corpo spigoloso e possente. La forma non sembrava avere senso. Cominciò ad averne quando le girai intorno, vedendo la sua massa svelarsi nell’ingombrante mole scura. Sì, era pesante. Sì, faceva rumore. Ma non avrebbe fatto esplodere chiese o scuole. Né sparso le budella dei nemici giurati nella mia classe, o quelli peggiori del catechismo. Non ci avrei potuto minacciare nessuno. Era pure troppo grosso per darlo in testa a qualcuno. Era un pianoforte, e quando mi avvicinai, alzando il coperchio anziché tasti vidi denti, nell’ampia bocca deformata d’ira per l’insolenza della mia curiosità infantile. E a tutti piacque scambiare le mie per lacrime di gioia.

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