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Stai leggendo: "Nerezza 2" di Quinto Moro

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5.

 

Il maestro non aveva mostrato segni di cedimento. Intascata la bustarella per il concerto sfoggiò tabelle di orari e posti assegnati dal primo al sesto grado di parentela.

Mio padre non si era mai mostrato interessato alla faccenda del pianoforte. Sapevo avrebbe trovato una scusa per non venire al saggio, il che alleggeriva un poco la prospettiva d’essere umiliato. C’era almeno uno per cui quel fallimento non avrebbe fatto alcuna differenza e le cose tra di noi sarebbero rimaste le stesse.

Progettavo di fingermi malato, ma un vago malore non avrebbe impietosito mia madre. Già la sentivo dare la colpa all’emozione, e il mio cosiddetto maestro darle ragione, ché tutto sarebbe passato una volta messe le dita sul piano. Non potevo fingere. Serviva l’evidenza di una crisi di vomito o diarrea. Pensai di bere l’olio da frittura esausto conservato sotto il lavandino della cucina, ma da vigliacco qual ero bastava l’odore a fermarmi. Serviva qualcosa di inodore e insapore, tale da avvelenarmi con successo quanto bastava. Mezzo chilo di pisellini surgelati sembrava una soluzione. Con le mani dentro al freezer feci ampi respiri tra i vapori gelidi. E se mangiandoli fossi morto? Non volevo morire, solo scamparla. Feci grandi respiri sperando nell’influenza, ma mia madre era maestra ad ammansire i peggiori febbroni da cavallo per non farmi saltare un solo giorno di scuola.

Tenni le dita sulla parete gelata del freezer, le immaginavo spezzarsi e andare in frantumi, ma non c’era tempo per ustioni da gelo degne di tal nome. Era ora di prepararsi per andare a lezione, ultimi esercizi prima del gran giorno. C’erano quindici scalini fino al pianerottolo d’ingresso e rimasi a fissarli un istante di troppo pensando d’inciampare. Potevo rompermi un braccio. Ma rieccola, la vigliaccheria: potevo rompermi ben altro, le gambe o addirittura la testa. Scesi lentamente, ripensandoci a dieci scalini – ancora troppo alto – e a cinque sembrava ormai troppo poco per farsi male seriamente.

Mia madre era tutta contenta, già sentiva la platea glorificare il suo pargolo a suon di applausi. Già ubriaca d’illusione mi aprì la portiera come a un principino viziato – cosa che di norma non avrebbe fatto.

Il mio urlo fu acuto e lacerante. Lei si spaventò a morte, senza capire cosa fosse accaduto. Poi capì: mi tenevo la mano destra, stringendola con la sinistra e guardandola come potessi guarirla a suon di urla e lacrime.

“Ti ho chiuso lo sportello sulla mano?”

Sgomento, occhi grandi da cerbiatto, poi disperazione e coccole a non finire, abbracci e baci sulla fronte e sul dorso della mano martoriata.

“Ma come hai fatto?” gridava accusandomi, poi si scusava, disperata e colpevole. “Mi dispiace” ripeteva. “Andiamo all’ospedale – facciamo le lastre – speriamo non sia rotto niente – avviso il maestro – oddio il saggio – non ci voleva – non ci voleva!”

Ero stato veloce. Quasi non concepivo d’averlo fatto davvero. Dissi che stavo cercando di prendere la cintura di sicurezza, e quella spiegazione restò valida per qualche giorno. Nessun dito rotto, ma avrei perso di lì a poco le unghie di medio, anulare e mignolo. La mano rimase di due taglie più grossa per settimane. A scuola non potevo scrivere e ottenni uno status di compassione da ferito di guerra.

Quando rividi il maestro di pianoforte, con la mano ancora fasciata e le dita nere, il suo sorrisetto malizioso sembrò congratularsi con me per la trovata. Fece con mia madre una lunga chiacchierata. Li guardavo da lontano. Lui insisteva sui dettagli dell’incidente, lanciandomi occhiate sibilline. Si disse ben disponibile a riprendermi sotto la sua ala, che un talento come il mio era un peccato sprecarlo.

Non l’avevo mai odiato tanto. Lui sapeva che l’avevo fatto apposta, e in cento modi avrebbe potuto sollevarmi per sempre dall’incombenza di quelle false speranze. Poteva dirsi irritato e offeso, come lesa maestà alla sua immagine che un suo allievo mancasse un concerto. Dire che le mani di un pianista sono troppo delicate per certi traumi e non avrei mai più suonato come prima, a prescindere dal parere dei dottori. Poteva liberarmi ma non lo fece. Anzi le sue domande costrinsero mia madre a ripassare l’accaduto, trasformando il senso di colpa in presa di coscienza.

“Tanto lo so che l’hai fatto apposta. Ci hai messo tu la mano perché non volevi fare il saggio. Io mi sono sentita in colpa e tu mi hai fatto credere ch’era tutta colpa mia. Avresti anche potuto perdere le dita e restare storpio a vita, tutto pur di non fare il saggio! Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te, con tutto quello che abbiamo speso per comprarti il pianoforte, per pagarti le lezioni. Io mi sono fatta in quattro per accompagnarti in orario, per farti studiare, e tu sputi sul nostro lavoro, sul tuo talento. Dio ti ha dato questo dono e tu vuoi sprecarlo!”

Ad attenuare l’umiliazione d’essere stato scoperto – chiuso nel silenzio dei colpevoli – c’era la ben peggiore prospettiva che se a comprarmi il pianoforte era stata lei, Babbo Natale non esisteva. Fu in parti uguali delusione e sollievo, ché era meglio quel grassone non esistesse. Sempre meglio d’immaginarlo come quello che mi aveva rovinato la vita col regalo sbagliato.

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