Stai leggendo: "Il bambino buio - Nerezza 4" di Quinto Moro
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3. Estranged
L’auto filava silenziosa nella notte. La temperatura continuava a calare.
“Ma tu non senti freddo?”
Il bimbo fece spallucce.
“Se ti ammali non posso portarti dal dottore, e non ho soldi da spendere in medicine”
“Tanto non mi ammalo”
Mary emise un lungo mugugno. Il bimbo rise.
“Brontoli come Marge Simpson”
“E’ questo che fai tutto il giorno? Guardi cartoni animati?”
“Da quando ti interessa?”
Il tono del bimbo era sprezzante come quello di un adulto.
“Puoi mandarmi a scuola se non vuoi che guardo la tv”
“Ne abbiamo già parlato”
“Non è vero. Tu ne hai parlato. Hai deciso che non ci devo andare e basta”
Come sempre quando si arrabbiava, il bimbo cominciò a grondare copiosamente di nerezza.
“Smettila di sporcarmi la macchina”
“Più sporca di così” fece lui pestando i piedi sul tappetino, per poi raggomitolarsi sul sedile e mostrare le informi propaggini punteggiate di sabbia, fango, carta di caramelle e persino mozziconi di sigaretta. “Guarda, mi si attacca tutta la sporcizia ai piedi. Non la fai mai a pulire questa macchina?”
“Non posso permettermelo”
“E perché non la pulisci tu?”
“E perché non la pulisci tu?” ripeté Mary canzonandolo. “Perché non ho tempo per respirare, ecco perché.”
“Adesso stai respirando”
“Ma stai zitto”
Il bimbo tacque sul serio. Non era offeso. Battibeccare a quel modo era diventata la loro normalità. Si punzecchiavano a vicenda.
“Allora oggi chi ci facciamo?”
“Ci facciamo? Cos’è questo linguaggio? Non siamo una gang di strada”
“Mi porti a spaccare la macchine e le gambe della gente e non siamo una gang?”
“Non-siamo-una-gang!”
“Ma spacchiamo le ossa”
“Le abbiamo spaccate una volta sola”
“Tre volte”
“Non è vero!”
“Uno” contò il bimbo “quel coglione che ti ha licenziata l’anno scorso”
“Non dire parolacce”
“Lo hai sempre chiamato così: quel coglione. Non mi hai mai detto come si chiamava”
“E va bene. Sì, a lui abbiamo spaccato le gambe”
“E la macchina. E la cassetta della posta. Poi c’era quel tuo vecchio fidanzato”
“Ma quale fidanzato?”
“Quello che ti picchiava. Ricordi che ti eri infilata la sciarpa in bocca, per non farti riconoscere mentre gli dicevi tutte quelle parolacce?”
“Sì, mi ricordo. Ma non gli abbiamo spezzato le gambe”
“Tu gliele hai spezzate”
“No invece. Era solo una botta”
“Non camminava”
“Perché era svenuto”
“Ha strisciato per tutta la camera da letto prima di svenire”
Mary azionò di nuovo il tergicristallo, concentrandosi sulla strada, poi ammise: “d’accordo, due”
“E la terza è quella tizia della banca”
“Non le abbiamo spaccato le gambe. Era solo un braccio. Camminava ancora. È scappata in macchina”
“Vedi che te la ricordi?”
“Sì, me la ricordo quella… schifosa puttana… ma non vuol dire che spacchiamo le ossa alla gente a casaccio”
“Ma a chi se lo merita sì! Allora oggi chi ci facciamo?”
“Smettila. Non dobbiamo pestare qualcuno ogni volta”
“Io pensavo di sì”
“Questo non è un gioco”
“Io pensavo di sì!”
Mary tacque di nuovo.
“Dove stiamo andando?”
Mary non rispose.
“Ti sei arrabbiata?”
“No. Ma non faremo più niente del genere, o prima o poi ci beccheranno”
“Vuoi dire che ti beccheranno. Io posso fare l’invisibile”
“E puoi anche fare la spesa, pagare l’affitto e le bollette? Se mi arrestano, la casa di chi andrai ad infestare?”
“Non ci arresteranno mai. Hai visto i poliziotti prima?”
“Sì, appunto”
“Ma loro non ci hanno visti” disse il bimbo.
“Non faremo più niente, anche perché non ce n’è più bisogno”
“Ce n’è sempre bisogno! Il mondo è pieno di farabutti. Noi due possiamo fare i supereroi, anzi i supercattivi”
“Noi non-siamo-supercattivi!”
“Certo, possiamo migliorare!”
Mary fermò la macchina e chinò la testa sul volante. Aveva un gran mal di testa.
“Lo sai che se arriva una macchina ci sbatte addosso?”
Mary sospirò, seccata. “Certo che l’ho so. Te l’ho spiegato io”
Mary abbassò il finestrino e sporse la testa per guardarsi intorno. C’erano poche auto dall’altra parte della strada, lungo la tangenziale. Nessuno in arrivo sulla sua corsia.
“Allora” disse il bambino, quasi timidamente “dove andiamo stanotte?”
“Facciamo una passeggiata e basta”
“Va bene” disse lui.
Mary richiuse il finestrino e ripartì. Stavano in silenzio da dieci minuti quando il bimbo si appiccicò al cruscotto e prese a fissarla.
“Posso chiamarti mamy?”
“Ne abbiamo già parlato”
“Non ho detto mamma, ho detto mamy. Come Mary, ma con la m. Come un soprannome. Si scrive quasi uguale”
“Non si pronuncia uguale però”
“Mandami a scuola, così imparo le pronunce”
“Perché accidenti vuoi andare a scuola? Non ti piacerebbe”
“Sì invece”
“Dici così solo perché non ci sei mai stato”
“Tu ci sei andata molte volte?”
“Per anni” Mary lo disse infondendo alla parola anni tutto il tedio e la stanchezza che le ricordava quel periodo. Nel silenzio che seguì le vennero in mente anche due o tre ricordi piacevoli e cambiò espressione, ma non disse nulla e il bimbo non se ne accorse. Un po’ le mancavano gli anni della scuola. “Quando la vita era più facile” canticchiò “e si potevano mangiareee – accendi la radio”
Il bimbo pigiò le dita bisunte sull’autoradio con entusiasmo. C’era una canzone in inglese. Gli sarebbe piaciuto andare a scuola per capire cosa diceva. Ascoltarono altre canzoni in silenzio. I finestrini dell’auto si stavano ripulendo dalla nerezza. Un’auto giunse a tutta velocità e li superò con una strombazzata perché andavano piano. Mary esplose in un fragore di parolacce. Fossero stati ancora invisibili li avrebbe tamponati.
“E’ quasi l’una. Torniamo a casa”
“Aspetta. Perché non andiamo a bruciare la casa di nonna?”
Mary si voltò a guardare il bimbo. Cercò una scusa per dissuaderlo ma non ne trovò.
“Non oggi”
“Uffa, e allora quando? Stiamo sempre rimandando, rimandando, rimandando! Me l’avevi promesso”
“Ma guarda, sta piovendo, non riusciremmo a bruciarla”
“Macché piovendo e piovendo? Per due gocce cagate!”
“Linguaggio!”
“Scusa” disse il bimbo, e sotto lo sguardo severo di Mary sedette composto, con la schiena ben appiccicata al sedile. La canzone alla radio era finita e il disk jockey attaccò a blaterare. “Facciamo un patto? Se trovo una canzone che ti piace ci andiamo”
“Voglio tornare a casa e dormire”
“Si ma vuoi anche bruciare casa di nonna”
“Non stanotte”
Il bimbo prese a pigiare furiosamente sull’autoradio. Aveva già fatto il giro delle stazioni una volta senza che Mary facesse inversione di marcia. Lei voleva dar fuoco a quella casa forse più di lui, e come aveva esitato alla proposta dell’uscita notturna, esitava ancora. Ma mentre la radio gracchiava fra una ciancia, una pubblicità e una brutta canzone, Mary mise in moto e partì. Aveva imboccato una rotonda quando il suono di una chitarra esplose nell’abitacolo e il bimbo esultò: Mary adorava quella canzone. Fece il giro della rotonda due, tre, quattro volte, ma nel mentre sorrideva, e infine riprese la marcia. Il bimbo non sapeva dov’era la casa della nonna, ma sapeva che l’appartamento di Mary stava nella direzione opposta alla direzione imboccata dall’auto.
La canzone era bella lunga, Mary alzò il volume a palla seguendo il ritmo con la testa, sempre più coinvolta e rilassata. Era diventata una di quelle notti in cui si divertivano insieme. Non ce n’erano tante, e chissà perché coincidevano sempre col proposito di far male a qualcuno – qualcuno che se lo meritava.
Il bimbo dovette sforzarsi di non canticchiare, anche se non capiva le parole. Anche Mary non le capiva tutte e sovrascriveva i versi con una lingua tutta sua. Accese una sigaretta. La pioggia entrava dal finestrino.
“Non piove così tanto” disse il bimbo.
Mary aspirò forte la sigaretta. Aveva capito dove andava a parare con quell’osservazione. Non pioveva tanto forte da spegnere un incendio, non uno appiccato come si deve, e all’orizzonte il cielo sembrava più pulito. Mary espirò con un sorriso. “Sei un bastardello furbacchione.”