Stai leggendo: "Salvaci, o Salvatore" di Quinto Moro
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Dopo una settimana di visite, medicine e mal di testa, a Nicolas tolsero i punti. I capelli stavano già ricrescendo e per pareggiarli accettò di rasare tutta la testa, salvo poi pentirsene subito. Gli fece una grande impressione vedersi allo specchio così rapato, come Jona che visse nella balena, e fece impressione anche ai suoi compagni, che all’ingresso in classe lo guardarono tutti in soggezione. Cristian no, non lo guardava. Forse s’era aspettato che lui parlasse, o sperava che davvero non ricordasse niente. In quel caso avrebbe ricominciato o si sarebbe dato una calmata? Avrebbe cercato di farselo di nuovo amico, o l’avrebbe evitato sino alla fine dell’anno, e delle elementari?
Quando incrociava lo sguardo di Cristian, a Nicolas tornavano in mente i cori della chiesa – Salvaci, o Salvatore – e la voce solenne del prete: io sono la vite. Io sono la vite.
Per la prima settimana, Nicolas non incrociò Salvatore. Il solo sospetto che l’avesse aggredito era bastato a rinfocolare i genitori che chiedevano più controlli, o il trasferimento del ragazzo in un istituto specializzato. Nel giro di due anni, Salvatore ne avrebbe compiuto quindici, e secondo il comitato genitori un quindicenne “in quello stato” non doveva stare con delle ragazze alle soglie della pubertà.
Le maestre erano diventate più premurose e permissive con Nicolas. Gli chiedevano spesso se aveva capito – il che lo irritava – ed evitavano le domande a sorpresa quando se ne stava con la testa tra le nuvole – il che non era male. Se alzava la mano non lo ignoravano, come facevano a volte per temporeggiare durante una spiegazione – come se a rimandare la voglia di far pipì fosse mai passata a qualcuno. Nicolas aveva notato i cambiamenti e pure i suoi compagni, perciò evitava di approfittarne per non passare da cocco delle maestre. Se qualcuno, adulto o bambino che fosse, iniziava a fare l’antipatico lui si metteva la mano dietro la testa e si accarezzava la cicatrice fissando il vuoto, cambiavano subito tono o si zittivano.
Nicolas non aveva più paura che il soffitto dell’androne gli cadesse sulla testa. Magari un’occhiata alle travi ogni tanto, ma senza patemi. Quando andava al gabinetto camminava normalmente, senza scatti di corsa, e faceva la pipì normalmente, senza mettersi in piedi sulla tazza. Non lo mettevano più a disagio nemmeno i cartelloni di Cappuccetto Rosso e di Hansel e Gretel. Il cartellone con Cappuccetto di spalle, senza che si veda il suo viso mentre fissa il lupo, era diventato il suo preferito. Poteva fissarlo finché le maestre non mandavano qualcuno a vedere se stava bene e a riportarlo in classe.
Come poteva una fiaba tanto stupida diventare così famosa? Forse il lupo non aveva ingoiato subito Cappuccetto per ingordigia, pensando a mangiarsi pure la nonna. Ma perché Cappuccetto non era fuggita a gambe levate quando l’ha visto il lupo la prima volta? Chissà cosa le passava per la testa, mentre fissava il lupo tra gli alberi. Forse sapeva come sarebbe finita la storia. Che se l’avesse divorata, qualcuno l’avrebbe ucciso. Quando le bestie mangiano gli uomini, gli uomini sterminano le bestie.
“Buh!”
Salvatore gli aveva urlato all’orecchio. Non aveva sentito i passi, ma ne aveva sentito l’odore. Nicolas non si mosse e Salvatore gli si fece accanto.
“Ti piace Cappuccetto Rosso?”
“Sto decidendo” rispose Nicolas “e a te?”
“A me mi piace il lupo” e fece il suo ululato. Nicolas non ci aveva mai pensato che Salvatore ululasse a quel modo per via del cartellone col lupo.
“Ce l’hai ancora la vite?”
“Quale vite?” fece Salvatore, poi sbiancò e fece un passo indietro digrignando i denti “non sono stato io!”
“A fare cosa?”
“A togliere la vite”
“Quale vite?”
“La vite dello specchio” urlò Salvatore.
Nicolas guardò la porta del bagno in fondo all’androne, era l’unico posto della scuola con gli specchi.
Nicolas entrò cauto, assicurandosi che non ci fosse nessuno nei gabinetti. Salvatore gli era venuto dietro, silenzioso in modo poco rassicurante, la sua attenzione fu catturata dal bidone dell’immondizia, tolse il coperchio e la busta per guardarci dentro. Nicolas esaminò gli specchi, ciascuno era tenuto fermo da quattro viti, con una rondella di gomma e una più piccola, metallica, da cui spuntava la capocchia di una vite. All’ultimo specchio in fondo, mancava uno dei fermi inferiori.
“Come hai fatto a toglierlo?”
“Non è vero! Non sono stato io!”
“Se urli ti sentono tutti, così ti chiedono che cosa hai fatto”
“Se lo dici a qualcuno ti ammazzo!”
“Con cosa? Con una vite?”
“Non ce l’ho più”
“L’hai buttata?”
“Perché? La volevi tu?”
“Hai detto che volevi cavarmi un occhio con quella vite”
“Nooo, non è vero”
“Non ti ricordi che volevi cavarmi un occhio?”
“Non è vero”
Nicolas fu sul punto di insultarlo, ma il rifiuto di Salvatore era sincero, non quello di chi non vuole ammettere qualcosa. O così decise di credere. Salvatore non se lo ricordava perché non gli importava abbastanza. Era stato solo un momento tra le sue scorrerie da indisturbato negli androni della scuola.
“Non l’ho fatto” disse poi Salvatore.
“Non l’hai fatto, però volevi farlo?”
“Non ti ho spaccato io la testa”
“Lo so. Non sei stato tu.”
“Ti ha fatto male?” chiese Salvatore.
“Molto. Ma adesso sto meglio” rispose Nicolas.
“Anche a me mi hanno spaccato la testa” Salvatore s’inchinò di colpo, quasi centrò Nicolas in pieno naso. Con la dita si indicava dei bitorzoli che aveva sulla testa. Potevano essere cicatrici.
“Ti ha fatto male?” chiese Nicolas.
“Molto” rispose Salvatore “ma adesso sto meglio”
“Allora mi aiuti a togliere gli specchi?”
“Li vuoi togliere?”
“Si”
Salvatore si guardò allo specchio, poi uscì dal campo del riflesso, come disgustato. Nicolas ebbe l’istinto di guardarci dentro, in cerca di ciò che aveva spinto l’altro a quella reazione. Ci vide il suo viso e per un istante ne fu colpito. Dal suo punto di vista, il profilo di Salvatore era ancora nella cornice. La differenza d’aspetto tra i due era netta, lui era ancora un bambino nel fisico mentre sul volto di Salvatore e s’intravedeva la peluria sempre più invasiva ai lati della mascella e intorno alle ascelle, che faceva il paio con quell’accenno di baffi sempre più scuri.
Nicolas stava parlando con colui che solo qualche settimana prima l’aveva terrorizzato. Lo temeva ancora, come un bambino teme un cane grosso e digrignante, minaccioso anche quando tiene la bocca chiusa. Negli occhi di Salvatore c’era qualcosa di ferino e al tempo stesso di vacuo.
“Non mi piace guardarmi allo specchio?” chiese Nicolas.
“No”
“Hai tolto la vite per quello? Volevi smontare lo specchio?”
“Li volevo smontare”
“Dove hai messo il cacciavite?”
“Non ce l’ho”
“E come l’hai tolta, quella vite”
“Con le dita. Era mollata. Ma le altre non si tolgono, ci vuole un coso per toglierle”
“Un cacciavite a stella” disse Nicolas.
“Ma mi aiuti a toglierli?”
“Se troviamo un cacciavite ti aiuto”
“Grazie Nicolas”
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>>> continua