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Stai leggendo: "Scappati di casa" di Quinto Moro

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peste, peste, e comincia la festa

peste, peste, mosche intorno alla testa

                                 (Litfiba)

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1.

“Stavolta mi romperà il culo.”

Me ne stavo nel cesso della scuola, la faccia grondante dopo essermela lavata infradiciandomi i capelli a spazzola e la maglietta. Fissavo l’acqua scorrere e gorgheggiare per lo scarico con quel suono schifoso, come un concerto di ubriachi alle sette di sera che fanno a gara di rutti dopo boccali di birra scadente, o come alle gara di rutti della domenica pomeriggio con Andrea e il Ruvido.

Andrea aveva sedici anni ma era alto come uno di venti, ed era l’unico che riusciva a ruttare più forte di tutti senza bisogno di bere. Mi aveva insegnato il trucco, non era difficile. Si trattava d’inghiottire boccate d’aria, come s’inghiotte l’acqua. Mandava giù un paio di bolle e riusciva a dire delle frasi intere ruttando. Io riuscivo a dire al massimo qualche parola. Riuscivo a dire ciao, cazzo e Gort Klaatu. Andrea riusciva a dare un tono e un suono alle parole, a completare frasi e formule, fino a Barada Nikto, o ruttare presente all’appello della professa che la prendeva sul personale, come un’offesa diretta a lei, piuttosto che come un gorgheggio giullaresco per tutti noi della classe. Sono una manica di egocentrici, i professori.

Il bidello mi urlò qualcosa ma ero affetto da sordità temporanea. Forse era il rubinetto lasciato aperto ad accendere nel gargarozzo punteggiato di barba bianca incolta e lercia del bidello quel rigonfiarsi d’urla, un sacro furore vomitato a spruzzi variopinti attraverso il corridoio, mentre tutto sgocciolante mi allontanavo da lui e dalle flatulenze del cesso.

Il bidello aveva guance cadenti da bulldog e gli si gonfiavamo come palloncini quando strillava. Volevo ruttargli in faccia un vaffanculo, e ricordo di aver aperto la bocca per farlo, senza riuscirci. Stavo in apnea. Avrei ripreso a respirare una volta fuori.

Erano le undici e un quarto. La campanella della terza ora fece il suo trillo svogliato e troppo breve. La bidella all’ingresso boccheggiava agitandosi tutta. Mi urlavano tutti addosso quel giorno, dal preside in giù.

Il preside era una via di mezzo tra un frate e un satiro, alto e magro, la pelata coi ciuffetti ai lati della testa che risalivano in piccole corna brizzolate. Urlò per quindici minuti di fila, con più energia e livore di quando grufolava la solita paternale. Tra le urla non avevo quasi sentito la solita minaccia di sospensione con l’obbligo di frequenza. Non capivo se era una sua invenzione o esisteva pure nel resto del mondo, e aveva così poco senso che tutti c’eravamo fatti l’idea che non potessero sospenderci davvero, forse per paura che non tornassimo mai più. La scuola era dell’obbligo fino a un certo punto, e ne conoscevo tanti, quasi tutti amici del Ruvido, quasi tutti delle case popolari, che non finivano la terza media. Alla terza bocciatura mollavano e a volte pure prima. Per qualcuno funzionava la minaccia di dover andare a lavorare, ma la maggior parte aveva già il padre disoccupato, e la minaccia di andare a lavare le scale con la madre non era credibile. Così li vedevi dalla finestra dell’aula, seduti sui gradini della casa dall’altro lato della strada, a fumare e bere birra, a scommettere pesante al fantacalcio, usando le sigarette come valuta a mo’ di galeotti.

Io li invidiavo, perché erano liberi di fare quello che volevano, andare dove volevano. Che quell’infinita libertà fosse solo nella mia fantasia me lo fece notare mio cugino, Stefano, detto Stecchino perché era sempre stato magrissimo anche se alle medie somigliava più a un barilotto di Nutella con due stecchetti per gambe. Il soprannome gli era rimasto cucito addosso perché quando s’era lamentato che il soprannome Stecchino non gli si addiceva più, qualcuno disse che non era più riferito alla sua magrezza ma al suo uccello. Beata ingenuità nello sputare su un soprannome così figo rischiando di vedersene affibbiare uno tipo Palladilardo o Secchiodimmerda, o vedersi modificare le ragioni del soprannome, pure quelle importanti.

Io e Stecchino eravamo coetanei. I suoi e i miei genitori erano amici e Dio solo sa perché, al di là della parentela non avrebbero potuto essere più diversi. Stecchino era destinato a diventare un benestante figlio di papà, ma questo solo nei discorsi di mio madre. Stecco non usciva mai di casa se non coi genitori e parlava poco, tranne che alle interrogazioni a scuola. Eravamo andati allo stesso asilo dalle suore, e alle elementari nella stessa classe. Solo che lui era quattro o cinque anni più avanti, come dicevano le maestre che lo consideravano molto maturo per la sua età. La madre tutta orgogliosa lo ripeteva sempre alla mia, che finiva per buttarmi addosso robe tipo: “non puoi essere di più come Stefano?”

Da bambini, io e Stecco andavamo d’accordo a intermittenza, nella convivenza forzata di una settimana di vacanza organizzata dai nostri genitori, nei pranzi e cene collettivi per le feste, un paio di volte l’anno.

Quando cercavo di scioccarlo con qualche cazzata, Stecco reagiva sempre con una calma da farti uscire di testa. Rideva alle battute, anche le più stupide e le più sconce, poi scuoteva la testa e soffocava il riso. Quando gli facevo ascoltare il disco di qualche metallaro non diceva mai non mi piace. Che fosse un disco dei Black Sabbath, un fumetto di Kriminal o una cassetta porno – vista col muto e di nascosto, mentre i nostri stavano di là a ingurgitare spumante la notte di capodanno – lui guardava e ascoltava tutto. Mi mandava fuori di testa quell’atteggiamento, di chi non farebbe mai qualcosa contro le regole per poi accettare con una scrollata di spalle. Mon avrebbe mai proposto niente di proibito, come vedere la cassetta porno o fare un tiro di sigaretta, ma avrebbe puntualmente accettato. Così poteva restare quello lindo e puro, e avrebbe potuto scaricare sempre su di me, la feccia, la colpa d’averlo traviato. Non che l’avesse mai fatto, anzi, finivo per essere io a fargli qualche carognata per punirlo d’essere com’era. E lui non se la prendeva, non come se la sarebbe presa chiunque altro se gli avessi buttato dalla finestra la merenda o scatarrandogli nel quaderno, o dato una spinta davanti a tutti solo per umiliarlo davanti alla classe. Non mi ha mai restituito un dispetto, quella magrissima testa di cazzo. Ci rimaneva male e si capiva, più deluso che offeso, e mi levava il saluto. Io insistevo a fargli qualche carognata perché non avevo paura delle sue vendette, che se mai le aveva covate, mai le avrebbe messe in pratica.

Ho cominciato a ripensare alla mole di carognate che gli ho inflitto solo anni dopo, a partire quella primavera del 199x, quando avevamo tredici anni.

Quando provo a ricordare quella storia – questa storia – e a com’era Stefano ancora vestito del soprannome Stecchino, tutte le bastardate e i dispetti mi tornano su per la gola, in un magone che non scioglie nemmeno un bicchiere di vodka liscia. Forse è segno che sono cresciuto, o che il senso di colpa iniziato quella primavera somiglia più al buco in una diga che a una presa di coscienza da adulto. Un buco che si allarga e non puoi nemmeno guardarci dentro, perché continua a venir fuori roba, tanta quanta non immaginavi potesse starci, ed era sempre stata là dietro, accumulata negli anni e in bilico tra la minaccia di sommergerti e il più soffice e concreto fastidio di qualcosa che ti sporca, inzuppandoti le scarpe. È sempre lì il buco, vorresti metterci un dito per fermare la corrente ma ormai è troppo grosso anche per il tuo uccello, per il tuo braccio inutilmente pompato da troppe ore di palestra. Potresti tapparlo ficcandoci la testa ma annegheresti, e speri che prima o poi il flusso si interrompa, per poter vedere che dall’altra parte la melma non è infinita ma almeno s’è fermata.

A Stefano detto Stecchino – mi fa sempre strano chiamarlo col nome di battesimo – volevo bene come a un amico che non sai di avere, in barba alla parentela di cugino, che vuol dire tanto e non vuol dire un cazzo. Ma vuol dire tanto quando hai dieci o tredici anni. Non vuol dire più un cazzo quando ne hai trenta o quaranta. Questo è sicuro.

Allora. Non so dove e non so quando. Il dove era probabilmente il parco degli uliveti vicino a casa mia, e il quando un pomeriggio dopo la scuola, mentre parlavo di quanto fossero cazzuti il Ruvido e Bubbone, Gino Strizzatette e Carlo Cannabis, che s’erano ritirati e potevano fare il cazzo che volevano tutto il giorno, Stecchino mi aveva fatto notare che se ne stavano comunque a scuola, solo appena fuori dalle mura. Ad un secchione di buona famiglia come lui certo non potevano piacere quei birraioli che lo prendevano in giro, e avevano abbandonato la sacra scuola. Ma che i miei cosiddetti miti non avessero altri posti dove andare, era vero. Al bar non li volevano se non avevano da spendere. Non erano ancora alcolizzati al punto d’essersi guadagnati le sedie sul marciapiede, tranne forse il Ruvido e Carlo Cannabis, che però non avevano mai un soldo in tasca. Te la dovevi guadagnare la posizione sul marciapiede del bar, ti dovevi fare la tua posizione per poter stare tutto il giorno a guardare le macchine che andavano e venivano con una sola birra. Nel clan dei birraioli over trenta c’era qualcuno che lavorava e per farsi bello allora offriva agli altri, e quando le momentanee ricchezze svanivano e si tornava disoccupati, qualcuno avrebbe fatto lo stesso, ripetendo il ciclo.

I videogiochi cabinati scomparivano soppiantati dalle slot machine e i videopoker, dei flipper restava solo il ricordo, eppure il bar restava un luogo mitologico. Se ci potevi stare eri qualcuno, o così sembrava al me tredicenne. Per Stecco era tutto l’opposto, e anche se quella parola non uscì mai dalla sua bocca, perdenti era quel che pensava di loro. E mi faceva strano che proprio lui, modello di perdente, lo pensasse dei miei migliori amici.

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2.
Avevo già ripetuto una volta la prima media ed era probabile avrei ripetuto la seconda. Non mi importava. Aspettavo solo il giorno in cui mio padre smettesse di dirmi che mi avrebbe rotto le ossa se non prendevo almeno la licenza media, lui che non aveva manco la licenza elementare. Mia madre di contro aveva finito le elementari e pure le medie, a diciassette anni, e si sapeva che l’avevano promossa solo perché incinta del mio fratellastro bastardo e defunto. Il suo bacino era ancora troppo piccolo. Nelle foto da incinta di quel primo figlio – le conservava in una scatola di biscotti in fondo al cassetto delle mutande, lontane da tutte le altre foto di famiglia – sembrava una bambina venuta fuori da un numero da circo, tipo mangiatrice di palloni da basket. Del padre nessuno disse mai niente.
Mia madre aveva rischiato di morire, le avevano fatto un cesareo ma il bastardo era nato morto e lei s’era fatta due mesi di ospedale. Credo che incominciò allora a mangiare a dismisura, forse convinta che facendo crescere il culo avrebbe retto meglio la seconda volta. Le ci vollero altri sedici anni prima di restare incinta di me: la grande speranza e la grande delusione.
Nel cortile della scuola, Andrea e il Ruvido stavano a fumare. Il Ruvido aveva quindici anni e una barba completa, da ventenne, un mito vivente per aver lasciato la scuola al primo anno delle medie, dopo aver rotto il parabrezza ad un’insegnante dopo che gli aveva dato dello stupido davanti a tutta la classe. Lui e Andrea erano amici, ma non quell’amicizia che può passare sopra a una parola detta di troppo in uno scherzo pesante. Ruggero il Ruvido era uno a cui non rompere il cazzo perché era matto come un cavallo. In prima media aveva iniziato a dare in escandescenze, a sfidare gli adulti e minacciare chi lo guardava storto, sino all’episodio delle sassate a parabrezza e finestre della scuola. A volte raccontava delle sue incredibili vendette, fiancate d’auto rigate, gomme tagliate e dozzine di finestrini sfondati. Quasi nessuno ci credeva e i più lo evitavano come si evita un ritardato violento, ma Andrea lo trovava divertente e stavano spesso a ridere e fumare di nascosto nel cortile della scuola. Stavano parlando delle tette di qualcuna, forse della nostra classe. Io e Andrea eravamo compagni solo da un anno, ma lo conoscevo da quando ne avevo dieci, quando sgattaiolavo dalla finestra di casa a tarda sera per andare alle feste di paese. Andrea mi aveva preso in simpatia e mi aveva fatto entrare nel gruppo dei più grandi. Di tanto in tanto mi metteva davanti a qualche sfida, e io le superavo quando nessun altro mi avrebbe dato due lire. Il primo litro di birra d’un fiato, il primo whisky e la prima canna. Il primo stemma di Mercedes strappato ed esposto orgogliosamente come portachiavi. Andare a calarmi i pantaloni davanti ad un branco di maturande mostrando le mie erezioni da undicenne. Dopo un po’ aveva anche cominciato a scommettere su di me, e qualche volta – molte poche in realtà, ma all’epoca mi sembrava la regola – dividevamo l’incasso. Il segreto per non passare da giullare e stupire sempre era darsi un ritmo. Doveva passare un po’ tra una sfida e l’altra, due settimane, un mese, tanto perché quelli che iniziavano a conoscermi non se l’aspettassero da me, e si raccontassero aneddoti sulle mie imprese ogni tanto. Potevo stare una settimana senza dire mezza sconcezza per poi bestemmiare all’uscita di chiesa davanti alle vecchiette di rientro dalla confessione.
Andrea era stato il mio fratello maggiore ideale, ed io per lui quello più piccolo, visto ch’era il quarto di quattro maschi. Mi spingeva al limite senza farmi esagerare, e quando gli altri della cricca mi chiedevano di fare qualche cazzata, Andrea li rimetteva al loro posto.
 
Quel mattino di primavera del 199x, uscito infradiciato dalle urla del preside, e del bidello, e della bidella, ho capito come stavo e come sembravo dalla faccia di Andrea. Aveva smesso subito di ridere, e pure il Ruvido, che non smetteva di ridere facilmente.
“Cazzo ti è successo?”
“Mi ha sospeso”
Scoppiarono a ridere, ma smisero, perché la cosa sembrava avermi sconvolto. Ed era così in effetti.
Non ho finito di spiegarvi come funzionava la faccenda del sospeso con obbligo di frequenza. È una roba tanto surreale che con gli anni ho cominciato a pensare fosse una storiella, una cosa che si erano inventati per tenerci buoni. Ma come tutte le bugie, se tutti ci credono è difficile sfidare la corrente.
Nessuno, a memoria di alunno, era mai stato cacciato da scuola. La “sospensione” significava essere obbligati ad andarci nei quindici giorni successivi, accompagnati da uno dei genitori. Se facevi un’assenza in stato di sospensione, allora venivi cacciato sul serio per due settimane ed eri praticamente fottuto, bocciato, kaputt. Anno da ripetere. Indignazione generale dei parenti. Onta e vergogna, e un’estate di merda salvo rari giorni di tregua.
Allora: se eri un tale rompicoglioni da dover essere sospeso, non aveva senso che ti volessero a tutti i costi a scuola. Né aveva senso farti accompagnare da un genitore, nella speranza che ti rendesse la vita un tale inferno da convincerti a cambiare in meglio. Queste stronzate non hanno mai funzionato con nessuno. Non avevano funzionato col Ruvido e con Carlo Cannabis, non avevano funzionato con Andrea e non avrebbero funzionato con me.
“Il tuo culo è sotto la responsabilità della scuola” mi aveva detto il Ruvido “se quelli ti cacciano la prima cosa che devi fare è attraversare sulle strisce senza guardare, se ti tirano giù ti fai un mese di ospedale, ti pagheranno i danni, così tanti che dovranno chiudere, finiranno tutti nella merda. Mettono in galera il preside, i bidelli e tutti quelli che ti hanno cacciato. E ti fai un sacco di soldi con l’assicurazione.”
Finire sulla sedia a rotelle per superare l’onta della sospensione, e diventare ricco e storpio. Dei due spiritelli sulla spalla, Ruggero era il satanasso dei cattivi consigli.
“Sbattitene, vieni in giro con noi” aveva detto Andrea. Mi fece sentire sollevato per un istante, ma non ci credeva neanche lui. Per quanto fosse un campione di puttanate sotto il tetto scolastico, non l’avevano mai cacciato per davvero. Quell’anno poi aveva ridotto il ritmo e la portata degli accessi d’ira e dei colpi di testa, e mi guardava come avessi fatto un bel casino.
Non capivo perché m’importasse tanto, da dove venisse quella paura gigantesca di affrontare una stronzata come tante. La paura d’aver passato un segno oltre il quale le cose non sarebbero più state le stesse. Per la prima volta mi preoccupavo di ciò che sarebbe successo nelle prossime ore, giorni e mesi. Non avevo mai guardato tanto lontano, ed ora lo facevo con una paura che mi torceva le viscere rimescolando i succhi del mio corpo, mandandomi sapori mai sentiti in fondo alla gola.
Tutte in una volta mi tornavano addosso le urla del preside, con l’elenco di tutto quel che sarebbe successo: se non si fosse presentato mio padre, non mi avrebbero riammesso a scuola. C’era da chiedere scusa, da mettermi sotto sorveglianza, da ripagare i danni e chissà cos’altro.
“E’ una stronzata” aveva detto il Ruvido “non lo possono fare, non ti possono espellere davvero”
Ripagare i danni che avevo fatto. E non potevo pagarli io. Dovevano farlo i miei. Cioè mio padre. Perché mia madre se ne stava dodici ore al giorno sul divano a grattarsi il culo e ingollare vodka, ordinando monnezza dalle televendite, cucinando polpette e pastasciutta una volta a settimana, col pasto che durava da lunedì al venerdì, per un giorno di cibo fresco e quattro di avanzi a pranzo e a cena. E mio padre lavorava dodici ore al giorno per uno stipendio che non bastava per pagare la dipendenza da televendite della consorte. Né per pagare le sue Marlboro e birra scadente.
Una volta al mese saltavo la scuola per andare all’ufficio postale a pagare i bollettini della roba acquistata a rate. La tv nuova per la cucina. La vaschetta vibrante per il massaggio ai piedi di mia madre. L’elettrostimolatore per mantenere il tono dei suoi rotoloni di grasso. La macchinetta per il caffè, anche se si continuava a usare la caffettiera. Il deodorante per ambienti con lo spruzzo a orologeria. L’aspirapolvere che prendeva polvere nello sgabuzzino. La grattugia elettrica. L’aspirabriciole per la tavola. La batteria di pentole che intasava i mobili della cucina, mentre si usava sempre la stessa padella per non rovinare le altre. Il microonde. Il frigorifero megagalattico coi rubinetti d’acqua fresca. Le rate della macchina. Del tapis roulant e dello stepper. Della cyclette. La collezione di sali del Mar Rosso che puliscono la pelle grassa e riducono il grasso superfluo. La lavastoviglie. Tutta roba che avrebbe reso una casa normale una reggia di comodità, e che sembrava invece il tugurio di un rigattiere dove tutto era ammassato e fuori posto. Gli elettrodomestici nuovi invecchiavano dopo un giorno tra i mobili di truciolato gonfi d’umidità, scheggiati e storti. La tv nella credenza di legno tarlato. L’aspirapolvere in una casa dalle mattonelle sconnesse e gialle, che non si pulivano mai. Un intero parco di attrezzi ginnici esposti come pezzi di mobilio di una donna obesa, sempre attaccata al telefono, ovviamente cordless per non alzare il culo dal divano.
Gli oggetti si ammucchiavano, si sporcavano e si rompevano, trovavano posto negli anfratti della casa disordinata, come la discarica di un studio per le televendite, con la roba utile solo a venir mostrata e stipata tra vecchi armadi e muri sgarrupati. E come parassiti di plastica succhiavano tutti la loro rata mensile, per anni.
Mio padre non diceva niente. Gli bastava ci fosse il cibo in tavola e la birra nel frigo. Non sembrava importargli che il suo stipendio finisse all’ufficio postale ogni mese, mentre sbuffava per le diecimila lire dell’assicurazione scolastica, o le cinquemila per l’annuale gita all’orto botanico e l’acquario regionale che puzzava di pescheria, o per i quaderni e i libri all’inizio dell’anno che tanto non avrei usato.
La prima volta che fu costretto a presentarsi dal preside, mio padre ascoltò con sguardo basso e umile le invettive della mia insegnante d’italiano. L’insegnante d’italiano era l’autorità suprema. Valeva da sola più di tutte le altre. E ci dava giù pesante con me. Diceva che ero irrispettoso. Che non mi impegnavo. Non diceva quelle robe tipo “è intelligente ma non si applica”. No. Per lei ero un terrorista assetato del sangue dei compagni, minaccia per tutti i confinanti del mio banco. Ricordo che quel giorno mio padre era rimasto calmo e silente fino all’ora di cena. Se ne stava in attesa del primo sgarro. Probabilmente fu qualcosa che feci a tavola, a cena, quando c’era abbondanza di tensioni e sottili insulti. Dovetti ignorare la sua richiesta di passargli un tegame di avanzi riscaldati, o dissi una parolaccia a caso. La manata mi giunse improvvisa e un poco inaspettata. Forse mi convincevo d’essermela cavata, come se lui potesse ingoiare un indefinito quintalaggio di merda. Ma non era così. Ne ingoiava tanta tutti i giorni al lavoro, e gli scoppiava tutto in quelle mani ruvide e callose, tra le otto e le nove. Era l’ora delle sberle, l’ora degli sfoghi. Mia madre mi avrebbe difeso naturalmente, tirandomi su come si raccoglie un burattino buttato giù da un attore mediocre dopo i fischi del pubblico in prima serata, poi si accodava alle rabbie del capofamiglia.
Sia chiaro che non ero un cagasotto, uno spaventato da un paio di schiaffi. Mio padre non mi picchiava per sport. Non sarebbe neanche giusto dire che mi picchiava. Aspettava sempre una scusa, un buon motivo. Se nessuno diceva niente, se mia madre non diceva niente, se a scuola non era successo niente, potevo stare giorni, settimane, mesi, senza incassare più di un’occhiata storta e un urlo. Ma quelle tregue stavano sempre sul filo del rasoio. Ad Andrea era successa la stessa cosa. Suo padre l’aveva sempre trattato bene, fino alle medie, quando per l’educazione che pensava d’avergli dato non poteva sopportare nessuna mancanza. Gli aveva dato qualche sberla, niente di che. Poi un giorno, alla prima sospensione con obbligo di frequenza, gli aveva rotto la clavicola. Suo padre e il mio erano amici da bar, e li avevo sentiti parlare tra un rutto e l’altro di com’erano orgogliosi dei loro figli, e di quant’erano severi e di come noi fossimo abbastanza intelligenti da capire quali limiti non andavano superati. Bevevano la stessa marca di birra e parlavano con la stessa cadenza, e mi metteva i brividi vederli così simili e sentire i racconti da matti di Andrea, quando il padre sbroccava.
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