Genere:
romanzo breve (o racconto lungo), infanzia, adolescenza
Pagine: 90 circa in formato libro
Capitoli: 20 - concluso
Scritto tra marzo e agosto 2020
Tempo di lettura: 180 minuti
180'
C’è sempre stato qualcosa che non mi torna nella definizione di “scappati di casa”, nella concezione che si ha di questo modo di dire e verso chi effettivamente lo fa, lo è. L’espressione è vecchia, ben più di quanto l’ho sentita usare io, eppure lo snobismo e la sozzura borghese che la ricopre sono arrivate intatte fino ad oggi, generazione dopo generazione, come se non ci si fosse mai soffermati tanto da doverla smantellare.
Nell’accezione comune, l’espressione “scappato di casa” guarda sempre e solo il fuggiasco, per denigrarlo, schernirlo, accusarlo. La casa, il caldo focolaio domestico, da cui se scappi devi essere un poco di buono o fuori di testa. Perché non è ammissibile che il focolaio sia un rogo, una gabbia, una prigione, un tempio di ipocrisia, di violenza, pressioni e snobismo borghese.
Gli scappati di casa sono sempre stati visti più come colpevoli che come vittime, più come ribelli insofferenti all’autorità, alla sacralità dell’incontestabile istituzione famiglia, alla tradizione buona e giusta della casa come scudo di difesa dal resto del mondo.
Quando la casa non è scudo ma gabbia, quando ti spoglia d’ogni individualità per vestirti di omologazione, di spirito critico per cieca obbedienza, per tradizione accettata come dogma supremo in cui giovane e nuovo sono incarnazioni sataniche della modernità corrotta. Quando le promesse del mondo immenso si chiudono in quattro mura e nelle prospettive di miseria, povertà e poca speranza, lì c’è chi scappa di casa.
Strani paradossi quelli di una società che prima addita gli scappati di casa come portatori d’onta maledetti e rinnegati, poi frigna per i figli costretti dalle scarse possibilità di affermazione a stare inchiavardati alle famiglie, come ci si divertissero. Come sempre godessero, i giovani, a scappar di casa prima, e a restarci ad oltranza poi. Come il loro fosse sempre un gioco ai danni di chi li ha messi al mondo, o di chi al mondo sta da più tempo e pretende di avere la giustizia e la ragione sempre dalla sua.
Allora chi sono poi questi scappati di casa? Per definizione non si scappa da ciò che è buono, bello e sicuro. Si scappa da ciò che minaccia, che causa sofferenza, che non offre possibilità, che danneggia. Non si scappa dalle opportunità e dal benessere. E allora, se c’è sempre stato e c’è ancora chi scappa di casa, il crimine forse non sta nella corsa del fuggiasco, ma in ciò da cui cerca scampo.