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Stai leggendo: "Scappati di casa" di Quinto Moro

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19.

“Al canale”, aveva detto Stefano. Di tutto quello che accadde, del trauma e del senso di colpa, del terrore e persino il desiderio d’essere scoperti, e di tutte le conseguenze che avrebbe portato, questo è quel che più mi dà i brividi: al canale, ovvero la lucidità di come affrontammo il dopo. Mi angoscia più della visione del cadavere di Ruggero trasformato in un banchetto per ratti. Qualcuno direbbe che non abbiamo mai subito le conseguenze di quanto accadde, il che è una stronzata. Non fummo arrestati certo. Non ci furono conseguenze legali. Altre. Altre sì.

Negli anni ho rielaborato le parole dette e gli eventi troppe volte per distinguere tra quelle vere e quelle immaginate. Di alcune sono certo, di altre no. Ma la sua lucidità – e di riflesso la mia, nell’accettare per istinto e senza esitare ciò che andammo a fare quella notte – mi terrorizza. Stefano s’era presentato con l’intento preciso di quella spedizione notturna. L’aveva meditata dall’inizio alla fine, nelle stesse ore in cui mi sforzavo di ricostruire e dimenticare l’accaduto, sostituendolo con versioni migliori, in cui Ruggero era solo ferito e si salvava, in cui Andrea veniva a dirmi che il nostro amico era ricoverato in ospedale, che se l’era vista brutta ma se la sarebbe cavata.

Stefano invece s’era procurato una torcia. Aveva chiesto di rimanere a dormire, e indossato i miei vestiti e scarpe per non sporcare i suoi. Aveva preso le lenzuola da avvolgere sul corpo per trascinarlo. E aveva pensato di far saltare al corpo le grate del fiume, dove poteva impigliarsi e venire ritrovato nel giro di un giorno o due, a poca distanza da dove m’ero rintanato. Anche il più idiota degli sbirri avrebbe pensato di venirmi a fare qualche domanda. Sarebbero venuti comunque, giorni dopo la sua scomparsa, e mia madre quasi li cacciò via, ché tipi come quello era meglio perderli che trovarli, ed io amici come quelli non ne avevo, o quantomeno non ne avrei avuti più.

Il canale correva ininterrotto per decine di chilometri, fino al mare. La corrente avrebbe portato il corpo lontanissimo da dov’era morto. Lontano nello spazio e nel tempo.

Il resti di Ruggero furono rinvenuti una mattina di fine giugno, dopo una mareggiata, tra gli scogli di un lido poco accessibile. I pescatori amatoriali, com’eravamo stati io e mio padre, con mio zio e mio cugino, l’avevano preso per qualcuno rotolato giù dalla scogliera. Non c’era rimasto quasi niente. Dopo i ratti e i pesci, pure i gabbiani s’erano impegnati a renderlo irriconoscibile.

I giornali ne parlarono per qualche settimana, inizialmente si temeva fosse un bambino. L’interesse si spense quando parlarono delle tracce di barba ispida che resisteva sulla poca pelle delle guance, ed io seppi che si trattava del Ruvido. Anche dopo l’autopsia ci vollero settimane per un riconoscimento ufficiale, e quando i familiari cominciarono a litigare la voce si sparse dando la notizia per certa. Alcuni non vollero accettare che si trattasse di lui, al punto che la madre non si presentò al funerale, ché suo figlio era vivo, vivo e delinquente, scappato di casa solo per farle dispetto e perché il padre era un uomo di merda. In parallelo nascevano storie di tutti i tipi. Ogni settimana, nei racconti da bar e mercatino, Ruggero moriva in un modo diverso. Molte meno di quante ne erano nate sulla sua scomparsa, di cui non era fregato un cazzo a nessuno.

Ci furono pochi altri inutili interrogatori, sommati a quelli già improduttivi seguenti la sua fuga, che solo ora veniva chiamata scomparsa. Impastato con l’immondizia delle acque, il corpo era stato penetrato dai detriti nei modi più atroci e grotteschi, ma dall’autopsia il giovane era morto soffocato nel suo stesso sangue, presumibilmente per un corpo contundente rimasto incastrato fa le costole. Bingo. E al momento della morte il giovane aveva tracce di hascisc e alcol nel sangue. Due punti per la medicina legale.

Accettato che si trattava di Ruggero nessuno parlò più di omicidio, come non si parlò di incidente, né di disgrazia. Un incidente è una cosa inaspettata. Una disgrazia è una cosa che nessuno si augura. Non stupiva nessuno che quel ragazzino di strada, beccato dagli sbirri a fumare spinelli e ciondolare sbronzo sui marciapiedi, a importunare ragazzine e finire coinvolto nelle liti da bar, fosse finito male. Un sollievo per tante mamme cristiane ammassate a starnazzare all’uscita di chiesa, parlando di giustizia. Mia madre era una di loro.

Tutto scivolò nel cestino dei chissenefrega. Gli adulti smisero di parlarne in fretta, più preoccupati della meta per il ferragosto, con traffico e spese da affrontare e parcheggi da trovare e bollette da pagare. Non fu lo stesso chi Ruggero lo conosceva di persona anche solo di vista ma stava nella stessa fascia di delirio e angoscia, da tutti i ragazzi della scuola, dalle medie alle superiori, fin pure alle elementari, dove Ruggero divenne l’esempio di cosa succede se ti ubriachi e ti droghi. Finisce che i pesci ti mangiano gli occhi e i gabbiani le viscere.

Faceva ridere quell’interesse post mortem. Pure dai suoi cosiddetti amici e compagni di sbronze agli uliveti, da cui l’indomani stesso della sua scomparsa erano cominciate le testimonianze contrastanti a mo’ di barzelletta: chi diceva d’averlo visto poco prima del tramonto, chi avvistato da lontano sulla strada di casa sua, e d’averlo salutato ma non gli aveva risposto. La metà di loro aveva detto cazzate solo per antipatia verso gli sbirri, e in egual misura per antipatia o simpatia per il Ruvido: chi voleva coprirlo da qualunque cazzata l’avesse indotto a sparire, chi a sbattersene del suo fato per lo scroccone fuma e bevi a tradimento che era. E comunque la convinzione che gli sbirri misero nel torchiare quei cazzoni fu assai meno di quanta ce ne mise Andrea con me, sapendo che Ruggero era venuto a trovarmi il giorno prima di sparire. Mi credette quando dissi che l’avevo visto solo quella volta, anche se dopo il ritrovamento del corpo l’interesse tornò a farsi pressante, e svanì insieme alla nostra amicizia.

La verità è che agli sbirri, ai parenti e rari amici non sarebbe importato nulla, finché non ci fosse stato nessuno da incolpare. Questo lo so perché a nessuno venne in mente d’incolpare nessun altro che Ruggero stesso. Da cadavere s’era preso tutte le colpe di questo mondo, perché era un mezzo tossico e un alcolizzato precoce, perché era un poveraccio in una famiglia di merda.

A scuola dissero ch’era colpa della famiglia. In chiesa dissero ch’era colpa delle cattive amicizie. Altri dissero ch’era colpa della scuola, della televisione, della droga. Altri ancora dissero ch’era colpa sua, ché quella era la fine che facevano gli scappati di casa.

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20. Post mortem

Scappati di casa. Lo volevo chiudere così il racconto, con le stesse parole del titolo, ma era d’obbligo un colpo di coda. Un disclaimer postumo. Alla fine ho romanzato un po’, ma la memoria è un meccanismo imperfetto, in continuo movimento i cui buchi vanno cuciti, e come una coperta di toppe tenute in una cassapanca per troppo tempo, quando vai a cucire insieme i pezzi non è detto che tutti vadano al loro posto. E poi c’era qualcos’altro da dire, di cui mi sono reso conto solo alla fine. Qualcosa che avevo voglia di dire fin dall’inizio ma m’ero imposto di lasciare fuori.

Le conseguenze.

Nell’ipocrisia del bisogno di punire i colpevoli, pena il fallimento della società tutta, io e mio cugino dovremmo essere giudicati, per quanto non essendo americani avremmo comunque avuto le spalle coperte. Questa è una storia degli Anni ’90, e ringrazio di non esser cresciuto negli Stati Uniti, quella patria suprema di libertà eletta davanti a Dio che ha abolito la pena di morte sui minori solo nel 2005. Lo so che sto parlando da colpevole. È da paraculo. Ma la cosa mi ha sempre messo i brividi.

Il fatto è che le conseguenze, quelle vere, ci sono state comunque. Ho trascorso notti insonni e giorni d’angoscia ripensando – più che alla morte di Ruggero di cui alla fine mi sono fatto una ragione, nata da una serie di sfortunati eventi – alla lucidità con cui il mio cuginetto l’aveva affrontata. I giorni e le notti in cui il senso di colpa morde più forte e vorresti solo raccontare tutto per liberarti del fardello, ma il peso delle conseguenze ti schiaccia oggi come allora. Non sono fardelli per una società civilizzata. Alla morte si dà troppo peso in una società civilizzata, o che s’atteggia d’esserlo.

Non è degli sbirri venuti a prendermi la paura che m’ha tenuto sveglio. Era la paura del non riuscire a tenere il segreto, di cedere e raccontare tutto, e da qui aprire il cancello alla paura più grande, quella vera: che mio cugino dubitasse del mio silenzio. Perché dalla notte in cui trascinammo il corpo di Ruggero fino a quel buco nella reticella di fianco alla strada, ho avuto paura. Paura che un giorno avrebbe trovato il modo di restare lui, l’unico a portare il segreto. Ho incominciato ad immaginarla come una guerra di nervi, in cui io stesso avrei voluto farlo tacere per sempre, o almeno cancellarlo dalla faccia della terra. Dalla scuola, dai marciapiedi in cui potevo incontrarlo. Dai discorsi dei miei genitori, dal solo sentirne pronunciare il nome.

Quello stato d’angoscia è ritornato negli anni, più flebile man mano che procedevano gli anni delle superiori, con le loro angosce tutte nuove, e l’inattesa decadenza del mio peggior amico.

Non avrei dovuto goderne ma so d’averlo fatto negli anni, mentre sentivo della caduta in disgrazia del buon vecchio Stefano. Mentre ci trasformavamo ciascuno nell’altro, e ciascuno nell’opposto di ciò ch’era stato. Io che mi sono diplomato senza colpo ferire, pur in una galera odiata, ma con una diligenza noiosa che mai m’era appartenuta. Ed eccolo il ragazzo di strada, via dalla gabbia di matti di famiglia a prendersi cura di se stesso, a scrivere racconti da pio sognatore. Ed ecco il virgulto della branca sana di famiglia, destinatario d’eredità e sostante, col futuro radioso del bravo ragazzo, trasformarsi in alcolizzato e manie da sessuomane, come ereditando l’anima di chi aveva ucciso. Come una tarda vendetta del fantasma del Ruvido, impossessatosi dello Stecchino ormai imbolsito dal pancione da birra e l’apatia del fallimento.

Guardami negli occhi, e prendi la mia anima. Ci scambiammo di posto, quella notte sotto la pioggia. Uno prese il destino dell’altro e viceversa. E se ci fosse mio cugino a scrivere questa storia racconterebbe delle conseguenze che ebbe su di me, tutte quelle che sono troppo vigliacco per raccontare, ché così ne esco pure troppo bene. Ma ho avuto la mia dose di incubi e deliri. E se ci sono io qua a scrivere, mi sono guadagnato almeno il diritto di tenermi addosso quella corazza che serve per sopravvivere, e non scappare un’altra volta.

Fine.

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