Stai leggendo: "I racconti del Buco Nero" di Quinto Moro
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1° Racconto - Storia di Robert
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Nessuno l’aveva visto aprirsi, e anche se ci fosse stato qualcuno a fissarlo, mentre la crepa inghiottiva l’intonaco, non ci avrebbe fatto caso. Eppure era uno di quegli eventi improbabili da osservare, un poco d’intonaco che si stacca non è gran cosa, ma si è più abituati a vedere un muro già scrostato che osservarlo mentre il processo si consuma. È come se i muri ci tenessero ad invecchiare con discrezione, senza drammi, muti e rassegnati, mostrando di volta in volta una ruga o una crepa. Solo che questa non era una crepa come le altre, il nero si presentò da subito molto nitido nonostante il sole che batteva dritto sulla superficie del muro, lo spazio di qualche millimetro, scuro perché profondo, come qualcuno ci avesse piantato un chiodo per poi sfilarlo.
Nessuno ci prestò attenzione per settimane, finché un dodicenne che passava di lì spipettando una sigaretta vide in quel cerchietto nero il nascondiglio perfetto per nascondere la sua malefatta. La cicca era ancora a metà ma aveva assolto il suo scopo: procurare quel pizzico di ammirazione tra i compagni mentre se l’accendeva appena varcato il portone della suola, noncurante all’apparenza ma con gesti precisi e teatrali. I genitori sapevano che Robert fumava, come tutti in casa, dai nonni alle sorelle maggiori e nessuno gli avrebbe contestato la sigaretta in sé quando la sua provenienza.
Robert non fumava per sfida, era cresciuto in mezzo al fumo e alla cenere, e già a otto anni, ciucco per un’occasione particolarmente allegra, il padre l’aveva sfidato, perché il bimbo l’assillava chiedendo – più per scherzo che altro – una sigaretta come tutti gli altri. Il padre gliene aveva messo in mano una, a patto che riuscisse ad accendersela direttamente dal fuoco del camino. E Robert si era preso una sberla, perché s’era bruciacchiato le dita lasciandola cadere tra le braci, ma era stato forte e senza piangere aveva sfidato il padre con sguardo alto e fiero ad offrirgliene un’altra. La sigaretta non cadde, prese fuoco e si sarebbe consumata subito se il piccolo Robert non si fosse affrettato a soffiarci sopra e poi tirare per tossire almeno un po’ di fumo. La sfida era vinta, e anche se da quel giorno per molto tempo non aveva più assillato nessuno, arrivato alle scuole medie ci aveva messo poco a volersi distinguere tra i primi tabagisti, andando a fumare nel bagno o negli anfratti del cortile della scuola coi compagni più grandi.
Nessuno l’aveva rimproverato per aver preso il vizio di famiglia, ma nessuno voleva saperne di condividere il pacchetto con lui. La famiglia era povera, e le sigarette andavano sottratte con destrezza, guai a comprarle. Per tutto il primo quadrimestre della seconda superiore Robert era riuscito a scroccarne qualcuna dalla borsa dell’insegnante di religione, che chiudeva un occhio per non scadere nell’ipocrisia di una predica a quel vizio. Questo fino a poco prima le vacanze di Natale, quando qualcuno l’aveva calunniato per il furto di qualche banconota dal portafogli dell’insegnante. Robert era l’unico che qualcuno avesse mai visto infilare le mani nella sua borsa, così non s’era sprecato tempo in interrogatori e indagini. Nessuno aveva creduto alla sua innocenza, e quale movente migliore per quel furto più delle sigarette, e quale conferma migliore della povertà della sua famiglia.
Robert aveva ingoiato il rospo. Era stato sospeso e pur di evitare le botte aveva continuato ad uscire di casa tutte le mattine, rientrando puntualmente per il pranzo dopo aver bighellonato con la squadriglia dei ritirati dalle superiori. Loro non lesinavano le cicche, e l’avevano aiutato a scoprire – a suon d’intimidazioni e minacce – chi fosse stato l’infame che l’aveva incastrato. Robert lo seppe solo al rientro dalle vacanze scolastiche, quel tizio non lo conosceva nemmeno, aveva una faccia ebete e un po’ da secchione ma a scuola andava peggio di lui. Robert lo gonfiò di botte davanti a tutti, sul marciapiede dall’altro lato della strada prima di entrare a scuola. Fu sospeso di nuovo, cosa che a parer suo non aveva senso, essendosi consumato il misfatto alla ragionevole distanza di venti passi dal cancello. Il perché della rissa non fu mai chiarito, o meglio, nessuno tra professori e genitori lo venne mai a sapere. Il motivo, semplicemente, era la mala fama che Robert s’era appena fatto. Tra i ragazzi invece la verità si sapeva, e in tanti presero a guardarlo con parità di timore e rispetto. Quando rientrò dalla seconda sospensione, tutti – lui compreso – davano per scontato che sarebbe stato bocciato. Non era mai stato una cima, il buon Robert, ma prima dei fattacci qualche sufficienza l’aveva portata a casa, prima di mancare quei trenta giorni che sapevano d’ergastolo a rate, amari doni di Natale e Pasqua. I suoi genitori l’avrebbero scoperto solo a giugno, perché nessuno s’era curato di convocarli se non per ambasciata del ragazzo, e in una famiglia di tal mala sostanza non c’era da stupirsi troppo di tanto sprezzo per le regole.
Fu così che in quella metà di maggio Robert prese, di giorno in giorno, a buttare la sua cicca a metà nel buchetto sul muro ben tinteggiato di giallo del casermone davanti a quella gran spianata di terra incolta. Era strano che nessuno si fosse preso la briga di costruirci o di seminarlo. Apparteneva a un tal taccagno che poteva permettersi un pezzo di terra tanto grande alla periferia del paese, senza fare altro che ararlo due volte l’anno senza buttarci mezzo seme. A Robert piaceva quella strada, c’era una gran pace. Poteva prenderla dall’alto o dal basso: casa sua e la scuola stavano agli angoli opposti della diagonale di quell’enorme rettangolo che includeva, oltre agli sgarrupatissimi casermoni anni Sessanta della scuola, il campo sportivo – in terra battuta e caolino, un macello per le ginocchia – e quel grande campo incolto.
Robert vide il buchetto e ci buttò la cicca senza spegnerla, più educato che buttarla per strada. Il buco era profondo, forse una sacca vuota tra i mattoni, o il vano di un foratino di cemento. Fatto sta che ogni cicca veniva inghiottita senza resistenza. Era diventato il suo portacenere personale, ed era poi successo che un vecchio, uno di quei pensionati che non hanno altro da fare che rompere le scatole ai lavoratori edili e ai ragazzini che fumano, l’aveva rimproverato, perché avrebbe potuto incendiare l’intero palazzo. Robert l’aveva presa a ridere, ma quello aveva insistito, e Robert l’aveva mandato a farsi fottere. Era la prima volta che insultava una persona anziana ma quello gli aveva dato il tormento, senza contare che era il giorno in cui la bocciatura era diventata ufficiale. Se l’aspettava, ma gli dava comunque noia. Sulle prime aveva anche pensato di mentire, fingere d’essere bocciato e farsi regalare una bella stecca di sigaretta per premio. Avrebbe passato una bella estate, ma la bugia avrebbe solo potuto accrescere le conseguenze. Sempre che ce ne fossero state, di conseguenze. Sì, in casa gli chiedevano come andava a scuola, ma a nessuno importava davvero. Avrebbe anche potuto ripetere la seconda e, una volta promosso, fingere di venir bocciato ripetendo la terza. O fingere anche d’aver preso la licenza media e rifiutare d’iscriversi alle superiori. Ogni variante poteva funzionare ma non aveva voglia di mentire per mesi o anche anni. Meglio prendersi qualche calcio in culo fintanto che aveva un po’ di dignità, e che l’estate cominciava e si poteva spazzare via ogni paranoia solo guardando il sole.
Ma quello non era proprio l’anno di Robert.
Nelle campagne dall’altro lato del paese era scoppiato un grande incendio, il fumo aveva oscurato il cielo e le fiamme avevano distrutto un allevamento di bestiame. Una volta, da piccolo, suo padre ce l’aveva portato. Ci aveva lavorato per qualche tempo, e c’era da esser felici che per una volta avesse perso il lavoro. I braccianti migliori, i più affidabili, lavoravano là anche per dieci o vent’anni. Era una proprietà importante d’una famiglia conosciuta da tutti in paese. I padroni non erano antipatici come ci si immagina sempre la gente ricca, non avevano obiettato che il piccolo Robert visitasse i recinti e i capannoni, l’avevano anzi accompagnato, permettendogli di dar da mangiare un po’ di foraggio fresco ai cavalli e alle mucche, accarezzare pulcini e oche. La moglie del padrone gli offrì ciambelle alla marmellata di albicocche, fatta da lei disse. Era stato uno dei giorni più belli della sua infanzia. Tutta la famiglia era più felice a quel tempo, o così si era convinto che fosse.
Per domare l’incendio c’erano voluti quattro giorni. Nessuno aveva mai visto niente di simile. La campagna era stata distrutta per ettari. Dai ponti dell’autostrada e dalle case più alte da quel lato del paese si vedeva uno scenario apocalittico. Le colline verdi d’inverno e gialle d’estate erano nere. Un nero intenso, senza quelle screziature di sterpaglie ocra e scie bianche e grigie di cenere che capita di vedere dopo il passaggio del fuoco. Era stato un incendio selvaggio, come se la terra stessa si fosse trasformata in carbone, in ogni zolla da poco rivoltata per la semina, in ogni pietra e piega del terreno.
Robert si era lasciato convincere dalla cricca dei ritirati delle superiori – con cui faceva ormai gruppo fisso – ad andare a vedere i resti del grande incendio. Si diceva che il campo fosse cosparso delle ossa dei bovini, alcune delle quali sembravano scheletri in un museo di storia naturale. I ragazzi volevano vedere degli scheletri autentici, nessuno ne aveva mai visti, non tanto grandi, non come gli scheletri dei gatti dopo che gli hai fatto il bagno nella benzina, disse il capo della cricca. Questi erano scheletri di mucche e tori, teschi di cavalli grandi quando un sacco di patate. Qualcuno sperava in un souvenir, una testa di bue con le corna, o una testa di capra da appendere in cameretta.
Partirono di primo pomeriggio, quando il sole batteva violento e tutti se ne stavano rintanati a succhiare aria dai condizionatori. In casa di Robert c’era solo un ventilatore da tavolo, bianco e celeste, vecchio e senza la grata di protezione anteriore, gli piaceva provare a fermare le pale con il dito quand’era piccolo, suscitando l’ira delle sue sorelle e della madre, riversa sul divano come una balena spiaggiata e sudaticcia, troppo stanca anche per alzarsi a dargli uno sculaccione. A Robert il caldo non dava fastidio, come non gli dava fastidio il freddo. Si sentiva spesso come quel ragazzo selvaggio nel film che avevano visto ad ottobre – quando non era ancora diventato un nemico pubblico – quel ragazzo che non parlava e non sentiva il freddo né il caldo.
Quando varcarono il ponte della superstrada, passando per le roulotte degli zingari che sarebbero scomparse di lì a poco. Ora che la campagna incendiata andava raffreddandosi i focolai della rabbia e del sospetto si preparavano ad esplodere nella loro vampa. Quei tizi sporchi e malvestiti sarebbero scomparsi in un modo o nell’altro, migrati in cerca di luoghi più sicuri o distrutti da un altro incendio, quello che avrebbe visto loro come vittime e che nessuno avrebbe pianto. Il paese aspettava solo i funerali che si sarebbero svolti il lunedì seguente, ché la polizia aveva ancora i suoi rilievi da fare e il fuoco – come sempre – era già stato giudicato di origine dolosa. Si parlava addirittura di una sigaretta. Il vecchio capo zingaro fumava, lo sapevano tutti. Robert si ricordava suo padre irritato perché gli stava davanti nella fila al tabacchino, perché chissà dove li trovava i soldi per le sigarette. A Robert, l’idea che fosse stata una sigaretta a fare tanti danni, metteva i brividi. Avrebbe potuto essere anche lui il colpevole. Non in quel caso, lui non passava in quella strada sin da piccolo, da prima che suo padre lo sfidasse davanti al caminetto. E lui aveva il suo portacenere personale dentro il muro di quel casermone a cinquanta metri da casa. Lui non gettava le cicche per strada.
Mentre lo scenario dell’incendio cominciava a mostrarsi, Robert si convinse che nient’altro che la furia dell’Inferno avrebbe potuto scatenare un tale scempio. Ci sarebbe voluto più di una sigaretta per scatenare un simile disastro, un’intera pioggia di scie infuocate lanciate all’unisono dal più grande raduno di tabagisti del mondo, intervenuti ad una riunione di mangiafuoco circensi e pompieri della squadriglia quattrocentocinquantuno.
Strano come l’odore di bruciato si presentasse così all’improvviso. In realtà tutti s’erano abituati al fumo e all’odore di fuliggine in quei giorni. Ma al limitare della zona del grande incendio, l’odore investiva con una violenza nuova, come il cambio tra l’umidità sulla pelle per la spuma degli schizzi delle onde sulla scogliera e il gelo dell’acqua in tutto il corpo dopo un tuffo.
Robert era senza fiato e riprese fiato solo grazie a qualche battutaccia che non aveva sentito da uno dei compari, ma la risata di riflesso, contagiosa, l’aveva costretto a respirare con la bocca. C’erano ancora fumarole qua e là tra i bitorzoli di terra annerita, ed era difficile attribuire al solo sole di luglio il calore che si percepiva dal campo.
Uno dei più esuperanti del gruppo s’era avventurato nel campo, e dopo aver danzato e saltellato come sui carboni ardenti, gli altri l’avevano seguito.
Robert viaggiava in fondo al gruppo. In due s’erano accesi una sigaretta, Robert ringraziò qualsiasi dio esistente che in altri avessero rifiutato di fare lo stesso, evitandogli il ruolo della mammoletta.
Lo scheletro del capannone si stagliava sull’orizzonte. La pianura non era mai sembrata così ampia e profonda. Sembrava un miracolo che il calore non avesse fuso anche il metallo. Robert si voltò a guardare quella che un tempo era stata la cupola del granaio, e pensò a come somigliava a quella foto sul libro di storia nel monumento di Hiroshima. In lontananza c’erano i resti della casa in cui i padroni erano morti carbonizzati ma distolse subito lo sguardo, sforzandosi di non ripensare alle ciambelle alla marmellata, con quella spolverata di zucchero a velo, e quella forma a petalo sopra e sotto, il piccolo buco in cima da cui traboccava la dolce crema di albicocche.
Nel nero della terra non di distinguevano le ombre della struttura, nemmeno sotto il solleone. Il metallo rumoreggiava, piano, come il lamento di un animale morente troppo forte per accasciarsi ma sfinito e disperato. I suoi compari s’erano fatti più silenziosi, i codardi si guardavano intorno temendo di venire schiacciati dai resti della struttura, i capi avanzavano insultando gli altri zigzagando tra gli scheletri.
Gli scheletri.
Gli scheletri erano come tutti li avevano descritti. I buoi dovevano essere mastodontici, grandi come nelle sue memorie di bambino. Uno sembrava accucciato come un cane che sonnecchia rilassato con la testa fuori dalla sua cuccia, le zampe stese di lungo, il muso per terra, le costole ancora integre a sostenere la colonna vertebrale in una gabbia di fumo per quei chili di carne e viscere consumati dalle fiamme. Altri scheletri sembravano integri solo per lo scherzo d’essere ammucchiati, nella calca del terrore mentre le fiamme salivano, con le ossa di uno compenetrate con quelle dell’altro in un grottesco totem, quasi un trono per dio sinistro e malvagio.
C’erano urla in lontananza e per un istante a Robert parve di sentire quelle degli animali che morivano tra le fiamme, ma erano più squillanti di come s’immaginava quei muggiti, erano le voci dei suoi compari che si allontanavano, fuggivano forse. Per un istante Robert pensò che qualcuno avesse preso fuoco, o fosse stato aggredito da uno scheletro dell’armata delle tenebre bovina. Alzò lo sguardo e vide uno dei ragazzi correre via con un teschio in mano, tenuto per una delle corna. Lo vide che lo lasciava cadere mentre correvano più veloci, e poi il suono dei clacson e le urla indignate di gente più in là sul ciglio della strada. Gridavano, da quella camionetta bianca, gridavano alla mancanza di rispetto e all’infamia. Gridavano anche contro di lui. Robert guardò di nuovo i suoi compari, ormai lontani nella nube di fuliggine alzata dalla corsa. Robert guardò sotto i suoi piedi le ossa e sentì la terra sotto le ginocchia, la sentì calda sotto le mani, senza paura di bruciarsi, stringendo quella poltiglia c’era stata carne e terra dentro e sotto i corpi delle bestie.
Non ricordava l’ultima volta in cui avesse pianto per qualcosa.