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Stai leggendo: "I racconti del Buco Nero" di Quinto Moro

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2° Racconto - Storia di Diego

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“E’ ora di pranzo, rientra in casa”

Diego era sordo. Non a tutto. Solo a certe cose. Era sordo a buona parte di quello che diceva sua madre. Una specie di sordità inversa, di quel tipo che le cose urlate non si sentono, al contrario di quelle dette sottovoce.

Diego aveva sei anni ed era mancino. Aveva un sacco di giocattoli. A bizzeffe, sua madre continuava a comprarglieli in continuazione. Lui non capiva nemmeno perché lo facesse. Non che gli dispiacesse, anzi, erano i momenti in cui si sentiva più felice. Tutte le mattine quando rientrava da fare la spesa, lei tornava con un giocattolo nuovo. Anche suo padre a volte gliene portava. Ma la verità era che a Diego importava solo del pallone. Non era affezionato ad uno in particolare. Andava bene qualunque pallone o palla, qualsiasi cosa potesse far rimbalzare contro un muro, prendendolo a schiaffi o a calci. Le palline da ping pong le adorava. Avevano quel loro strano modo di rimbalzare, erano leggere, e soprattutto gli piaceva il rumore che facevano, così caratteristico, unico. Anche le palle da tennis non erano male, un po’ troppo ribelli però, riottose, schizofreniche. E gialle. Non gli piaceva il giallo. I palloni da pallavolo erano i suoi preferiti, perché poteva usarli coi piedi e non le mani, ma sapeva per esperienza –nei suoi sei anni di vita di palloni ne aveva visti e studiati tanti con gli occhi, con le mani e con i piedi – che non tutti i palloni che sembravano da pallavolo erano autentici. Valeva lo stesso per quelli da calcio. I palloni bugiardi si assomigliavano tutti, erano di plastica, o quella gomma che se li lasci sotto il sole s’incresca e poi si secca, fino a rinsecchirsi. Si sgonfiano, i palloni finti.

Sua mamma gliene comprava sempre tanti, poteva comprargliene anche quattro o cinque in una settimana, eppure si rifiutava sempre di comprargli quell’unico che voleva lui. Diego voleva il pallone di pelle ma costava troppo. Il che, pur non avendo grandi cognizioni di moltiplicazioni, matematica o economia spicciola, era abbastanza ridicolo. Meglio avere un solo pallone che non si buca mai di dieci palloni che si bucano subito. Sua madre però non la pensava così. Per lei era molto più importante farlo contento quattro volte a settimana con quattro palloni nuovi, e poterlo rimproverare ogni volta che ne rompeva uno, piuttosto che farlo contento una volta sola e non poterlo rimproverare mai per averlo rotto.

Ed era lo stesso coi giocattoli. Diego non era abituato a chiedergliene di nuovi. Quando se lo portava appresso a fare la spesa, non era mai lui a pretendere, era sempre lei a chiedergli: “lo vuoi questo?” e come dire di no! Dopotutto, lei voleva solo farlo contento, sempre contento. Anche se poi si arrabbiava se non giocava col gioco nuovo ma sempre e solo con quel maledetto pallone. Quello schifoso pallone. Quel pallone di merda. Quel pallone del cazzo.

Diego riusciva a non preoccuparsi fintanto che sua madre sembrava prendersela col pallone invece che con lui. Almeno finché non la combinava abbastanza grossa, come rompere un vaso, sprimacciare un fiore o rompere qualsiasi cosa di vetro. Vetro e palloni, nemici giurati. Certo, poi lei odiava il pallone ma gli sculaccioni se li prendeva lui. Ma in fondo sapeva di meritarseli. Era nato discolo, lo era sempre stato e lo sarebbe stato sempre. E forse era questo che gli dava più fastidio di tutto: sapere che non riusciva ad imparare nulla dalle lezioni impartite dalle mani a guance e natiche, perché lui sarebbe tornato a sbagliare, e a quel punto perché preoccuparsene troppo. Solo che di quel passo non sarebbe mai diventato un campione, e anche per questo, perché preoccuparsi di un tiro sbagliato allora.

Aveva sbagliato così tanti tiri, contro le piante grasse, i fiori, i vasi, le finestre, i vestiti stesi ad asciugare, e oltre il cancello, che alla fine la madre l’aveva spedito a giocare in strada. Diego sapeva d’essere fortunato per questo. A nessuno dei suoi compagni d’asilo era permesso di giocare a pallone in strada, di allontanarsi da casa più di qualche passo, anche perché gli altri vivevano nelle strade più trafficate, mentre lui poteva stare tutto il giorno a giocare dovendosi spostare solo quattro o cinque volte per far passare una macchina. Si sceglieva un bel muro e cominciava a calciare a più non posso. Certo, anche così sua madre si arrabbiava perché lui faceva davvero troppo rumore, e qualche sberla veniva a tirargliela per convincerlo a tirare piano. Ma non si può tirare piano. Chi ha mai vinto una coppa tirando piano? Non l’avrebbe vinta lo stesso. Sapeva di non meritarsela l’iscrizione alla scuola calcio. Il campo sportivo però era così vicino. Cioè, era lontano. Lontanissimo. Ci volevano almeno duemila passi per raggiungerlo, ma riusciva a vederlo dalla strada. Il muraglione oltre il campo incolto, i grandi fari e le grida di pomeriggio quando i giocatori – quelli veri – facevano le partite. Aveva supplicato suo padre di portarcelo almeno una volta, ma lui lavorava e quando stava a casa era sempre stanco. E la mamma che stava sempre in casa aveva da fare. Anche se doveva solo guardare la televisione e parlare e fumare con le sue amiche.

Diego era troppo basso per vedere cosa ci fosse dentro quel buco nel muro. Riusciva a toccarne il bordo inferiore se alzava le braccia ma aveva paura che dentro ci fosse qualche animale. Somigliava a quei buchi che le rondini usano per fare il nido, anche se non ne aveva mai visto una entrarci. Più probabile che dentro ci fosse qualche ratto, e se Diego fosse riuscito a colpirlo mentre tirava fuori la testa e l’avrebbe ucciso forse sua madre sarebbe stata fiera di lui, trovando finalmente utile la sua passione per il pallone e magari l’avrebbe iscritto alla scuola calcio. Così Diego cercava sempre di colpire il punto del buco, e la sua precisione migliorava di giorno in giorno: poteva centrarlo anche quattro o cinque volte di fila tirando dal ciglio opposto della strada, o allontanandosi ancora e facendo dei tiri in diagonale, con un bell’effetto.

Un pomeriggio, le amiche di sua madre erano arrivate tutte insieme, uno di quei raduni in cui bevevano caffè e fumavano sigarette per tutto il pomeriggio, ridendo e parlando a voce alta. D’inverno Diego se ne andava a chiudersi in cameretta, ma d’estate c’era troppo caldo perché dall’una alle sei il sole batteva proprio sul muro della sua stanza, trasformandola in un forno. Poiché la mamma non lo voleva tra i piedi quando c’erano le sue amiche, l’aveva mandato a giocare fuori.

Erano le tre del pomeriggio. Il solleone di agosto picchiava duro, tanto che aveva fatto un’altra vittima tra i suoi palloni di gomma, squamato e poi sgonfiato. Eppure l’aveva lasciato all’ombra, dietro il vaso dei fiori, ma la mamma li aveva spostati e il pallone era finito proprio all’angolo del cortile più battuto dal sole. Arrabbiato, Diego uscì in strada.

“Non allontanarti” aveva gridato la mamma, prima di perdersi in una risata di qualche sua amica.

Diego fece il giro dell’isolato, a passo più lento sotto le ombre, giocando a far camminare la mano dal cofano di un’auto all’altra, con l’indice e il medio a far da gambe rapidissime sulla lamiera bollente. Poi lo vide. Se ne stava vicino ad una grata di scolo, vicino alla macchina impolverata e con le ruote sgonfie che faceva parte del panorama del quartiere da quando lui era nato. Di solito Diego pasticciava e disegnava sui finestrini sporchi, scrivendo parolacce piene di orrori di ortografia, ma stavolta c’era qualcosa di meglio. Era un pallone di pelle. Il colore bianco e grigio delle toppe consumate, la gomma esterna smangiata, ma era gonfio. Diego si chinò a raccoglierlo come fosse un tesoro, era più pesante dei suoi palloni di gomma, lo fece rimbalzare e il suono era magnifico. Non come quel rintocco metallico cui era abituato. Era un suono pieno, secco. Si guardò intorno, chiedendosi da quale casa, da quale cancello o muretto troppo basso era stato spedito. Non c’erano bambini della sua età da quelle parti, o almeno nessuno che lui conoscesse. Non aveva mai nemmeno sentito nessuno giocare a pallone, ma l’avrebbe riconosciuto quel suono così nuovo?

Diego mise giù il pallone, e sempre guardandosi intorno come un ladro, facendo finta di niente, tirò un calcetto. Com’era duro e pesante rispetto ai palloni di gomma. Con quello sì che avrebbe dovuto tirare forte, e quant’era bello il brivido del colpo sul piattone del piede, quasi il rinculo di una fucilata. Ed essendo più pesante, non rimbalzava ad ogni sassolino sulla strada, cambiando direzione a casaccio. Filava dritto, scorreva sull’asfalto come sull’olio. Diego lo raggiunse e sempre guardingo gli diede un altro calcetto distratto, portandolo alle ombre del caseggiato di casa sua. Se qualcuno l’avesse visto giocare con un pallone non suo, si sarebbe difeso dicendo che lì l’aveva trovato, e lì l’avrebbe lasciato, anche se aveva tutta l’intenzione di nasconderlo da qualche parte per poterci giocare di nuovo.

A Diego sarebbe piaciuto mettersi a tirare contro il grande muro col buco, per affinare da subito la mira col nuovo mezzo, ma il sole picchiava troppo duro e rimase nel lato ombroso della strada. Cominciò a giocare, i primi tiri richiesero più sforzo del solito, il pallone di pelle era obbediente ma pretendeva forza ed energia, tanto che dopo i primi dieci minuti era sudato come dopo un’ora col pallone di gomma. Ma il divertimento non lasciava spazio alla stanchezza e i suoi tiri diventavano sempre più alti e più forti. Pam. Sbam. Tum. Tumf. Un suono pieno e forte, il rimbombo di ogni colpo faceva esultare il bimbo per la bella riuscita del tiro, proprio là dove voleva, all’angolo alto del muro appena sotto il cartello della via. Stum. Stum. Tam. Lento e ritmato canto di tamburi. Sbum. Sinistro. Tam. Destro. Punf. Di testa. Tutti contro il muro, mai un tiro fuori dal bordo. Con quel pallone avrebbe centrato una porta da calcio cento volte su cento, gli sarebbe bastato un solo tiro per segnare e far vincere la sua squadra. Già si vedeva il migliore della scuola calcio, il goleador della squadra, il cannoniere del campionato, a far impazzire i tifosi del paese con sua madre in prima fila ad incoraggiarlo. Ed eccola lì, come un sogno avverato, sua madre apparsa dal nulla.

“Ciao mamma, guarda cos’ho trovato!”

La mamma gli andò incontro e pat! La sberla lo colse così impreparato che Diego non sentì neanche il rumore.

“Ti sembra questa l’ora di fare casino?” la voce della madre era trasformata, come si trasformava sempre quand’era furiosa, ed eccola con tutto il corpo eclissargli la vista, chinandosi su di lui, afferrandolo per il braccio con la sinistra e mandare a segno gli sculaccioni con la destra. Pam. Tam. Tam.

“E’ tutta l’ora che rompi i coglioni con quel pallone!”

Diego sentì il culo nudo. La madre gli aveva calato i pantaloni e le mutandine, e continuava a colpire con tutta la sua furia. Sciak. Sciak. Squatch.

“Chi ti ha dato il permesso di uscire in strada? Chi ti ha dato quel pallone?”

Diego sentiva a malapena le domande, interrotte dalle sue grida di pianto. Il culo gli bruciava come si fosse seduto su una padella accesa, piena d’olio bollente. Non era olio, era la pipì che gli scorreva lungo la gamba, giù ad inzuppare la scarpa, umiliando il suo sinistro fatato.

“Guarda, guarda com’è rosso!” stava dicendo la mamma. Diego aveva tenuto gli occhi chiuso e li riapriva ora, col collo girato innaturalmente dietro di sé, per non vedere il volto della madre deformato dall’ira, scorgendo ora una delle amiche di lei venuta a vedere. Poi ecco far capolino il volto di un’altra sopra la spalla della prima. Per un attimo non gl’importava che lo stesse picchiando, Diego avrebbe solo voluto avere i pantaloni addosso.

“Ma… ti sei pisciato addosso?”

Sciaf. Per un attimo il pianto si era interrotto. Quest’ultimo schiaffo non l’aveva neanche sentito. La vista delle amiche di sua madre gli aveva spezzato il respiro.

“Io adesso non ti cambio, resti pisciato addosso finché non torna tuo padre, poi glielo spieghi tu perché sei in queste condizioni!”

“Dài Lella, vieni dentro che ho rifatto il caffè”

“Si dài, lascialo in pace che ormai l’ha capito”

La madre volse a Diego un ultimo, terribile sguardo, poi mentre se ne andava raccolse il pallone di pelle portandoselo via, con un’ultima minaccia di farlo a pezzi di cui il bimbo colse solo vaghi frammenti.

Rimase così impalato, coi pantaloni abbassati, umido di piscio e lacrime.

Tum. Tum. Tunz. Un’auto aveva girato l’angolo, la radio a tutto volume, il finestrino aperto a mostrare un braccio robusto e tatuato. L’auto gli rallentò davanti, il signore alla guida lo guardò ridacchiando.

“Nasconditi l’uccellino che te lo mangia il gatto”

L’auto sparì in lontananza. Diego, finalmente scosso, si guardò intorno. C’era laggiù un gatto bianco, il pelo sporco ed emaciato, mezzo guercio, non sembrava interessato al suo né a nessun altro uccello. Diego tirò su i pantaloni, le mutande sembravano carta vetrata sulle natiche arroventate. Barcollò fino a girare l’angolo. C’era un rumore strano. Un cik-ciak che lo seguiva, poi si accorse che era la sua scarpa umidiccia. Tolse le scarpe e le calze. L’asfalto era rovente e gli ustionava i piedi. Fissò il muro di casa sua, parte del balcone al piano di sopra, la finestra della sua cameretta. Rimase in mezzo alla strada aspettando di vedere un’auto comparire in lontananza. Non si sarebbe spostato. Che lo schiacciassero, e che sua madre corresse a spremere tutte le sue lacrime di coccodrillo. Guardò il buco sul muro, quello spazietto nero che nemmeno il sole battente poteva schiarire.

Diego attraversò la strada, fin oltre il corto marciapiede che ove si apriva quell’enorme campo incolto. Si chinò a rimestare con le mani tra quei duri sassi di terra che si sfaldavano mostrando il loro cuore di dura roccia. Scelse un sasso rotondo e levigato, simile ad un hamburger. Il respiro gli si era fatto grosso, ma non come nel mezzo del pianto. Era un respiro gonfio di rabbia, un respiro trattenuto fra i denti stretti e gli occhi assottigliati. Tese il braccio e lasciò cadere il sasso, sfoderando il suo sinistro al volo.

Il sasso fece una parabola perfetta, fin dentro al buco. Diego si accasciò a terra tenendosi il piede spezzato. Singhiozzando sottovoce, senza gridare. Il sasso non aveva toccato i bordi del buco, non li aveva scheggiati, s’era infilato dritto nello spazio buio che l’aveva inghiottito muto. Eppure i bordi del buco s’erano crepati, scivolando in dentro, raddoppiandone il diametro. Adesso era abbastanza grande per infilarci la testa a guardare, non ora forse, ma fra due o tre anni, quando sarebbe cresciuto.

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