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Stai leggendo: "Nella Terra dei Cani Pazzi" - di Quinto Moro

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Capitolo 2

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Una mattina d’autunno.

Aveva otto anni.

La stufa a legna sbuffava dal giunto difettoso della canna fumaria. Il portello chiuso soffocava lo scoppiettio dei carboni accesi. I respiri facevano appannare i vetri squadrati e giallognoli della finestra del soggiorno e Lily ci stava disegnando con un dito le lettere stilizzate del titolo di una fiaba letta la notte prima. Dietro la striscia d’impronte che schiariva il vetro poteva veder fumare le ciminiere delle case di fronte e il tetto del palazzo vicino farsi scuro e verdastro per i muschi nati dalle prime piogge. Era sola in casa e la scuola era chiusa, o così aveva detto il papà. Sentì la porta aprirsi e corse ad abbracciare la mamma che quasi non la guardò, andando a sedersi sul divano con un’espressione mai vista. Non si capiva se fosse contenta o arrabbiata, sembrava imbronciata ma da qualche parte sul volto era nascosto un sorriso, intorno agli occhi persi, a metà delle guance.

Lily rimase in disparte sbirciando seminascosta dalla poltroncina rossa vecchia e rovinata. Le sfilacciature della stoffa simili a lombrichi rossi ricadevano sul tappeto e Lily ne faceva piccole trecce, guardando la mamma di sottecchi mentre se ne stava seduta con la testa all’indietro e le mani sulla pancia. Quando si curvò in avanti per poggiare i gomiti sulle ginocchia e giunse le dita come in preghiera, la mamma spalancò gli occhioni sulla figlia come si fosse appena accorta della sua presenza.

"Ciao piccola"

Lily adorava quello sguardo. Come adorava quella voce. E quelle mani e quelle braccia. Le piaceva quando la chiamava piccola, un nomignolo che non le sarebbe piaciuto sentire dalla bocca di nessun altro. Qualunque cosa fosse uscita da quella bocca, a Lily sarebbe piaciuta. Ogni sua parola sembrava iniziare prima del suono, suggerita dagli occhi o da un fugace gesto delle mani o della testa, dal respiro esitante nel petto prima di parlare, e l’impercettibile scrollarsi delle spalle. Quando poi il suono finiva le parole non sparivano dall’aria, ci restavano un poco prima di ricadere, piano, su tutte le cose e su di lei, come i corpuscoli di cenere dalla canna storta della stufa.

“Vieni qui” disse per spezzare l’esitazione della bimba, che scattò in piedi e andò a sedersi a gambe incrociate davanti a lei, guardandola dal basso.

“Presto non sarai più sola” disse la mamma in un sospiro, allungando la mano per accarezzarle i capelli mentre con l’altra si sfiorava il ventre.

Lily non era sicura di aver capito, ma ripetendosi la frase in testa realizzò di cosa si trattava, e si sentì in tanti modi diversi. Si sentì fiera e felice, importante e grande. Quando la mamma scomparve a sbrigare le faccende di casa lei andò a disegnare sui vetri riappannati piccole figure infantili. Bimbi fatti di segmenti di braccia e gambe, con testoline oblunghe e occhi grandi. Piccoli alieni, perché come gli alieni, anche i bambini dovevano scendere dal cielo, come in quella filastrocca:

"Ogni bimbo vien dal cielo, perciò si dice che viene al mondo

un ciel notturne che insegue l'alba, perciò si dice che viene alla luce

e atterra da straniero in una terra strana, perciò va accolto e accompagnato

ché ogni bimbo è un alieno da ammaestrare"

Lily disegnò quattro piccoli alieni e pensò che un fratellino avrebbe reso tutti una vera, grande famiglia. Lily non aveva mai pensato che lei, la mamma e il papà bastassero a farne una. Si sentì felice con intensità crescente, e ripreso il gioco delle lettere stilizzate mise insieme un nome: A-n-d-y.

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