Stai leggendo: "Nella Terra dei Cani Pazzi" - di Quinto Moro
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Capitolo 20
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BENVENUTI A BORDO DELLA BATHISDEA
O INCAUTI STRANIERI CHE IMBOCCATE LA VIA
ATTENTI AI VOSTRI SOGNI SUGLI OCEANI DI MORPHEA
O NAUFRAGHERETE ETERNI FIGLI DELLA SUA MAREA
La scritta era un fine lavoro da ferramenta, le lettere intarsiate fissate in un’arcata di quattro righe che troneggiavano su un arco di ferro, in cima alla scalinata d’accesso per i passeggeri. Mentre leggeva la scritta Lily si sentì spintonare e voltatasi ritrovò il volto rosso di Madni.
“Rieccoti, dov’eri finito stavolta?”
“In giro”
“Hai visto quella scritta?”
“Quale scritta?” il folletto le volse un’occhiata storta.
“Come quale? Quella scritt...” l’arco era sparito “era lì prima che mi girassi, non me la sono sognata”
“Sì invece” la schernì Madni “stai sempre lì col naso per aria a illuderti e fantasticare”
“Ha parlato lo spaventapasseri, faccia di pomodoro secco”
“Ah ah! Faccia di pomodoro secco, questa sì che è bella” la risata di Madni era fasulla, forzata, come un burattino vibrava le spalle e le gambe, mettendosi le dita davanti alla bocca, strizzando a turno gli occhi e muovendo le orecchie avanti e indietro. Lily gli diede un buffetto sulla spalla e il folletto si bloccò in una posa bizzarra.
“Sciocco. Questa nave non mi piace per niente, dà i brividi”
“E’ il transatlantico degli oceani di Morphea, l’unico modo per raggiungere la Terra dei Cani Pazzi. E non chiamarmi sciocco perché potrei scioccarti”
Lily gli tirò un altro buffetto e finalmente Madni si sciolse, tornando a muoversi normalmente.
“Biiiiiiglietti, bigliettiiiiii, biglieeeeeetti!” il grido era simile al ruggito d’un leone “comprate i biglietti, i più cari del mondo, garantito!”
Il bigliettaio era un orso grasso e squamoso, dall’andatura incerta. Si mise dondolava ai piedi della scala facendo avanti e indietro sulle tre zampe e agitando con la quarta un campanaccio da pecora.
“E adesso?” bisbigliò Lily all’orecchio del folletto.
“Lo buttiamo in mare e saliamo a bordo come clandestini”
“Sei matto?”
“Ovviamente” esclamò lui sgranando gli occhi in un sorriso splendido e inquietante. Con due piroette Madni raggiunse l’orso, gli tirò un calcione sul sedere, quello si voltò furioso alzandosi sulle due zampe e con un altro calcio dritto sullo stinco Madni lo fece barcollare, poi gli scivolò dietro le spalle e lo fece girare ancora su se stesso. L’orso perse l’equilibrio e cadde in acqua senza uno spruzzo né uno splash.
“Cosa hai fatto?” gridò Lily.
“Sshhhh! Zitta! Non gridare. Avevi per caso i biglietti? O qualcosa con cui pagarli?”
“No ma…”
“E allora che storie fai? Sbrigati a salire prima che arrivi un altro controllore. E poi con quel cappello puoi anche passare per un marinaio no?”
Lily che nemmeno si ricordava di portare il berretto tanto era leggero, se lo tolse per esaminarlo. “Questo non è un cappello da marinaio”
“Vuoi salire a bordo?”
“E se ci scoprono? E che fine ha fatto quell’orso? L’hai fatto affogare!”
“Che noia! Una cattiva azione fatta per uno scopo nobile”
“Quale sarebbe mai lo scopo nobile delle tue azioni?” sbottò Lily.
“Vuoi continuare la discussione in fondo al mare insieme all’orso?” digrignò il folletto. Il naso e le orecchie gli si appuntino, gli zigomi sembravano due palline spinose. Persino i graffi sul volto, scomparsi da che avevano raggiunto il porto, si riaprirono dandogli un’espressione terrificante. “Stai attenta a te ragazzina, ho già cercato di aiutarti una volta e mi hai buttato tra le spine, non sopporterò altri scherzacci da umana.”
Lily non ebbe il coraggio di replicare e si affrettò a salire la scala, abbassandosi come a sgusciare via dagli sguardi dei marinai nascosti pronti a castigare intrusi e clandestini. Madni la seguì saltellando tra i gradini e con qualche capriola, affatto preoccupato d’esser visto. Si ritrovarono sull’ampio corridoio laterale della nave, pavimentato di robusti ebani punteggiati di chiodi rossi. Sul muro bianco del ponte le bocche a specchio degli oblò si mimetizzavano tra gli arabeschi di linee blu e argento che creavano un curioso effetto cromatico: il bianco si faceva indaco e cobalto a seconda degli sguardi, e passandogli accanto, con la coda dell’occhio si aveva la sensazione che i tratti serpeggiassero animati, liane rampicanti e bisce di boscaglia che si arrestavano quando scorte.
Madni camminava lento dietro Lily e lei detestava averlo così alle spalle, quindi accelerò il passo facendo finta di niente ma Madni teneva intatta la distanza. Lily si ritrovò a correre verso la prua e fu una corsa lunghissima perché la nave era ancor più imponente di quanto non apparisse da terra. Al ponte basso di prua si voltò a guardare le ciminiere, enormi bocche fumanti come quelle di una centrale nucleare, poste in cima agli enormi muraglioni traforati di oblò e porticati: un castello alto almeno venti piani. Finalmente Madni era rimasto indietro e camminava con le mani dietro la schiena, con l’aria di chi fischietta svagato.
Da un estremo all’altro, tra la poppa e la prua, la nave era lunga più di un chilometro. Ogni cosa era tanto pulita da sembrare asettica, immacolata e… finta. Ma c’era un che di mutevole nell’aspetto della nave, come se l’aspetto dipendesse solo dal modo in cui la si guardava, ma la Bathisdea dava sembrava un modellino gigantesco che fingeva d’essere una vera nave. Giusto mentre lo pensava, quella facciata mutò le sporcature del tempo e dell’usura, le crepe camuffate da motivi intarsiati. La nave, pensò Lily, era una creatura vivente, che respirava e camminava sull’oceano come le persone camminano sulla terra, e nasconde i suoi segreti e le brutture proprio come le persone. Sporgendosi oltre il parapetto, a distanza di sicurezza dagli schizzi di follia di Madni, notò i ghirigori di nebbia che avvolgevano la parte più bassa dello scafo. I vapori schiarivano il mare nero e pareva che la nave galleggiasse sopra il pelo dell’acqua: una città galleggiante, grande e alta più del porto da cui stava mollando gli ormeggi.
L’orizzonte cominciava a muoversi e il vento si alzava tra gli ululati dei fumaioli che sbuffavano vapori rossi e neri, i due soli calavano uno di seguito all’altro.
A che serve avere due soli, pensò Lily, se la notte arriva lo stesso. Ma tramontavano prima uno e poi l’altro preparando all’oscurità con dolcezza, e per lei che non aveva mai visto un tramonto vero, vederne due in un colpo solo fu una gran meraviglia. Ma tra la sparizione di un sole e dell’altro l’aria si faceva inquieta, fredda e tremante, come un terremoto pronto ad esplodere in seno alla brezza, il vento contratto sull’orlo di uno strillo, un fulmine strozzato in piccoli sfrigolii sparsi tra le nuvole. Le scintille morivano sopravvivendo solo tra i crespi moti dell’oceano, i colori si facevano opachi mentre le nuvole si abbassavano stringendo il tetto del cielo. Eppure Lily si sentiva rinfrancare all’idea di quella partenza benché salpasse alla volta di un orizzonte oscuro, perché stava finalmente per raggiungere Andy in quella sua Terra dei Cani Pazzi.
Il secondo sole sembrò risalire un poco, quasi avesse solo voluto accompagnare il gemello. Guardando la curva dell’orizzonte che si stringeva in estremità ascendenti Lily si chiedeva cosa ci fosse di là del mare. Altri inganni forse, ancora creature pronte ad aiutarla od ostacolarla senza un perché, che per loro l’eternità era solo un gioco. Era stanca e non riusciva a desiderare niente più del suo letto e la sua camera, abbracciando il cuscino.
E va bene, si disse, adesso piangi un po’ e spremi con le lacrime tutta la vigliaccheria e la paura, perché se ne resta qualche goccia saranno dolori nella Terra dei Cani Pazzi.
Per scuotersi dal freddo e dai cattivi pensieri si lasciò trascinare dai passi verso la gigantesca sala ove si apriva il ponte in coperta. Altissime vetrate si ergevano in una maestosa cupola, come quelle d’una stazione ferroviaria. Sullo sfondo c’erano sparute ombre in movimento, i bei completi neri li distinguevano quando non erano sfumati come fantasmi. Non avevano un davanti o un didietro e camminavano a vuoto, zigzagando un po’ come lei, mostrando l’inquietante piattezza delle teste senza faccia. Poco più in là, nella sala da pranzo deserta un cameriere dalla giacca rossa e i pantaloni bianchi si muoveva a scatti servendo ai tavoli vuoti. Il volto sfuggente pareva quello di un giovane dai capelli neri, con le forme spigolose e indistinte di un manichino.
Dal lussuoso banco del bar si poteva vedere tutta la sala, anche gli angoli nascosti, perché la miriade di bottiglie luccicanti catturava ogni dettaglio in uno specchio composito, come occhi di mosca. Due colpi di tosse alle sue spalle la fecero sobbalzare, un altro cameriere chiedeva permesso per raggiungere il tavolo più grande del salone: passi lesti da marionetta senza peso. Sotto il gigantesco vassoio che ondeggiava più in là doveva esserci un terzo cameriere, e un quarto, a far l’equilibrista coi vassoi sulle mani e sulla fronte.
La sala da pranzo s’affollava di camerieri burattini, lesti e operosi come formiche a far straripare i tavoli con ogni ben di Dio. Il cibo era ammucchiato senz’ordine: spaghetti sulle bistecche e aragoste affogate nei budini di gelatina verde e blu, minestre di mele e torte di mortadella. Lily sentì i morsi della fame, c’era una tale quantità di profumi che nemmeno il più sazio degli uomini avrebbe resistito ad allungare la mano per afferrare una coscia d’astice o una chela di pollo. Rannicchiata nel suo angolo tra una pianta azzurra e l’orologio a pendolo, Lily non poteva azzardare un passo negli stretti corridoi tra i tavoli: sarebbe stata inghiottita dalla corrente dei passanti che l’avrebbero calpestata, o messa su un vassoio e servita con una parrucca di tagliatelle alla panna e una mela in bocca. Ma ecco che il pendolo spezzò la folle corsa dei camerieri ed un rintocco dietro l’altro la folla sparì lenta e ordinata com’era venuta. All’ultimo, solenne dong non c’era più neanche un burattino, mentre i tavoli erano tanto pieni che sarebbe bastato spostare un solo biscotto per far crollare le piramidi di cibo.
Lily uscì guardinga dal nascondiglio e si sgranchì le gambe in una corsa al centro del salone. Sedie imbottite di velluto rosso e cesellature barocche sul legno chiaro e umido come appena tagliato invitavano a sedersi. Al cospetto della montagna di cibarie – incrocio geometrico perfetto di tre piramidi emuli di quelle egizie – notò che tutti i cibi erano fuori misura e i colori sballati: sembravano usciti da una lavatrice maldestra che si era divertita a restringerli o allargarli, con la centrifuga che aveva scambiato il rosso di ciliegia nella polpa di banana o il verde kiwi sul carapace dei granchi. Ma i profumi erano invitanti e la fame troppa per curarsi del caos di colori e forme. Spostò la sedia a capotavola, ed era tanto leggera che prima di sedersi volle tastarla per giudicarne la resistenza. Sembrava di carta ma resse il suo peso. Lily si fermò dunque ad esplorare il mucchio di cibo, sfilò un piatto da sotto un cuscino di lattughe, un tovagliolo da una testa di melone e le posate dal torsolo di una mela. Ritagliatasi uno spazio sufficiente apparecchiò con ordine e si diede un contegno da signorina aristocratica, afferrò due spiedini argentati e usandoli a mo’ di shanghai catturò un gambero grosso e violaceo che spiccava sul nero striato di un’anguria, lo sbucciò e lo mangiò di gusto. Poi fu la volta di una succosa chela di granchio gigante, e di un pomodoro giallo brillante che sapeva di peperone e maionese.
Il pendolo scoccò le ore gracchiando come un disco rotto, ed ecco comparire un cameriere dalla giacca rossa e la testa squadrata. I rintocchi cessarono e i passi del burattino si fecero pesanti, alzò le braccia piegandole coi gomiti verso l’alto, la giacca si sfilacciò in batuffoli di cotone mostrando il nero scheletro legnoso che si infoltiva di aculei corvini. Agguantandosi il mento con una mano e la fronte con l’altra, il cameriere si schiacciò la testa facendola oblunga e canina. Inarcata la schiena e battuti i pugni a terra la metamorfosi fu completa: una iena di legno e peli di spine che digrignava i denti scintillanti. Lily fece in tempo ad evitare il balzo, la belva atterrando sulla seggiola la dilaniò in mille coriandoli. Altri burattini raggiunsero la sala e con gli occhi accesi di blu cobalto si trasformavano a loro volta. In breve altre due, tre, quattordici iene mannare camminavano in preda a convulsioni e fame di carne umana. Artigliavano con rabbia la moquette gialla e verde mentre si schieravano per circondarla: rivoli d’acido dalle bocche aperte, i respiri fischianti.
Lily si lanciò tra i tavoli rovesciando le sedie per intralciare le iene, ma percorse da nitriti equini le sedie si animarono unendosi all’inseguimento. Lily uscì nel corridoio del ponte in coperta chiamando aiuto ma l’unica parola che suonava nell’aria era il nome del folletto rosso: “Maaaadniiiii!” gridò una, due, tre volte, invano.
La galleria si stava stringendo all’imbuto con le porte stagne. L’uscita era sul lato opposto del corridoio, proprio dietro alla cavalcata di belve alle sue spalle. I passi sincopati incalzavano sul pavimento molliccio e crocchiante di carapaci sotto un pestello. Il cuore scoppiava di paura e stanchezza. L’aria sfregava sulla pelle del viso come carta vetrata. I vestiti le si stringevano addosso, ogni filo di stoffa lenza di una canna che si riavvolgeva alla bocca delle iene mannare: il loro fiato puzzava di whisky e tabacco di fogna. La porta stagna a meno di tre passi, chiusa. La maniglia piccola e sottile come un cucchiaino le si piegò sotto le dita ma in un istante si ritrovò al buio. L’orda di belve s’infranse sulla porta e Lily fece appena in tempo a sigillarla con il passante di sicurezza, prima di indietreggiare rotolando giù per una scala a chiocciola, sino al ponte inferiore.
Si rimise in piedi nel nulla assoluto. Non sapeva più neanche se si trovava a bordo o se era sprofondata nell’abisso di qualche inferno. Riusciva però a sentire l’ondeggiamento della nave, gli scricchiolii delle paratie e i tonfi delle onde sullo scafo. Strinse il passamano della scaletta con tutte le sue forze, tastando il vuoto col piede in cerca del gradino successivo – un déjà-vu. Odore di muffa e un rumore lontano d’ingranaggi o di chissà cosa muoveva quel transatlantico spettrale.
Dopo un’interminabile discesa Lily sbucò finalmente in una specie di stiva avvolta nella penombra. Il tetto di legno gonfio sgocciolava qua e là sui mucchi di enormi casse e funi. Due dita d’acqua stagnavano sul pavimento nero. Una lampada ad olio penzolava mandando una luce fioca senza raggiungere gli angoli ombrosi della stanza. Lily avanzò cauta verso l’alone più scuro all’imbocco di un corridoio stretto, profondo solo mezzo passo. La porta squamosa di ferro arrugginito era socchiusa e dovette spingere con tutte le sue forze per aprirla. Oltre la soglia un pallido crepuscolo lasciava distinguere massicce forme in movimento. Il suono sordo di passi e lo scricchiolio di enormi catene si diffuse nella stanza, satura di un odore di caverna al sapor di calcare e ruggine. Un riflesso di pupille luccicò a due passi da lei.
“Grob! E tu cosa sei?” la voce era possente e mostruosamente rauca, Lily sobbalzò ma reduce da uno spavento ben peggiore si stupì del suo sangue freddo. Strizzò gli occhi un istante come aspettandosi un colpo – un morso, o forse uno schiaffo – che non arrivò. Riaprì gli occhi e prendendo fiato rispose.
“Io... sono Lily”
“Non ti ho chiesto il tuo nome…” la voce tuonò sopra il tintinnio di una lanterna che prese ad ondeggiarle davanti agli occhi “ti ho chiesto cosa sei!”
Investita dall’urlo e dall’immagine terrificante della creatura Lily si ritrasse nel buio, col cuore in gola e i pugni stretti in gesto di difesa. La bestia aveva spalle larghe e l’enorme testa incavata tra queste, curva su un lato. Orecchie da pipistrello schiacciate sui lati del cranio e la punta all’insù, il naso pure schiacciato e gli occhi grandi e minacciosi. Aveva la bocca d’un leone che tra le scure labbra rugose mostrava denti storti, larghi. La pelle del volto appariva dura e ruvida come quella di un cinghiale, peli ispidi sotto il collo e dietro le orecchie.
Lily osservava ogni dettaglio nel più assoluto silenzio, mentre la creatura con sguardo furente agitava la lanterna nel buio.
“Grob! Ma si può sapere cos’è?” grugnì avanzando. Finalmente la catturò nella sfera di luce e mostrando i denti si mise a fissarla. “Mmmm, che stranezza saresti tu?” disse più calmo ma non meno minaccioso.
“Sono Lily...” disse lei d’un fiato, senza riuscire a staccare gli occhi da quella bocca enorme e quegli occhi nerissimi.
“Ti ho già detto che voglio sapere cosa sei!”
Il gigante si mise ad annusare l’aria e prima che Lily potesse rispondere alzò la mano con l’indice ritto in segno di silenzio.
“Sniff sniff... tu... sniff... tu seiiiiii... umana! Una bambina umana. Grob!”
“Non sono più una bambina!” protestò lei dimenticando ogni pericolo.
“Non rispondermi ragazzina!” sbraitò lui.
Dopo il primo impatto Lily aveva pensato che se quella creatura fosse stata pericolosa l’avrebbe di sicuro già fatta a pezzi, così si fece più audace. “E tu che cosa sei?”
La creatura la fissò sospettosa, con sguardo torvo. “Sono un orco” disse, e avvicinandosi la luce al viso come per intimorirla urlò nuovamente “perché, non si vede?”
Lily incrociò le braccia e strinse le spalle, controllando un brivido. “E che cosa ci fai qui?”
“Cosa ci faccio qui? Io ci lavoro, grob! Tu cosa ci fai qui?!”
“Come fai a lavorare con questo buio?”
“Qui non c’è buio! C’è solo poca luce” gridò “e qui sotto non si può lavorare con la luce.”
Seguì il silenzio. L’orco scrutava l’umana incuriosito più di quanto lei non lo sembrasse nei suoi confronti. Da tutte le storie che aveva letto, Lily sapeva che gli orchi erano malvagi e pericolosi. Eppure al di là di quel suo essere scorbutico non sembrava poi così terribile. “Perché c’è poca luce?” abbozzò lei per vedere la reazione del gigante.
“Perché i troll non possono stare alla luce” stavolta l’urlo riuscì con meno energia e meno sgarbo. “Senti… ma perché non scappi?”
“Non ho paura dei troll, non li vedo neanche…”
“Non per i troll. Grob! Per me!” l’orco sembrava offeso.
“Hai fame?”
“No. Ma questo cosa c’entra?”
“E allora perché dovrei scappare? Se volevi mangiarmi l’avresti già fatto, e non vedo perché dovresti farmi del male”
“Perché sono un orco no?”
Lily fece spallucce. “Forse essere orco o no non c’entra niente con l’essere cattivi” pensò alla tartaruga che le aveva morso l’orecchio, a Madni che l’aveva spinta in acqua, al delfino che l’aveva quasi lasciava affogare, e a suo padre. Forse Madni era ancora il folletto buono pronto ad aiutarla. La tartaruga e il delfino l’avevano aiutata in fondo. E in suo padre c’era ancora un po’ di quella benevolenza dagli anni dell’infanzia. Forse tutti loro non erano né buoni né cattivi, erano così e basta. Lo stesso doveva valere per quell’orco, che fu spiazzato dalla noncuranza con cui le stava davanti, senza facce disgustate e occhi sgranati di paura.
“Grob! Ma che cosa ci fai qua sotto?” disse stavolta senza urlare, sforzandosi anche di affievolire la raucedine.
“Niente” disse Lily pensando alla fuga dalle belve e al fatto che fosse una clandestina “stavo solo… esplorando la nave”
“Esplorando la nave? Non dovevi metterci piede su questa nave, non sui ponti inferiori almeno!”
“Sei burbero di natura o cerchi solo di mettere paura alla gente?”
“Grob! Io non sono burbero!” tuonò “sono solo un orco ecco tutto”
“Ok signor orco, ce l’hai un nome?”
“Un nome?” fece lui perplesso “nessuno mi aveva mai chiesto il nome... tutti mi chiamano orco e basta” si grattò la testa pensando a quel fatto eccezionale. Chi mai l’aveva chiamato signor? E come le era venuto in me di chiedere il nome ad un orco? Finalmente si schiarì la voce: “Gollterim”
“E dove vivi?” incalzò Lily con un sorriso che lo turbò ancora.
“Vivo qui! Bathisdea è la mia casa e il mio lavoro da quando…”
“Da quando?”
“Da quando gli umani non si fanno più i fatti loro!” ruggì Gollterim voltandosi a picchiettare qualcosa di metallico, il corpo quasi svanito nell’ombra.
“E tu vieni dalla Terra dei Cani Pazzi?”
“Non si fanno i fatti loro, mai, mai i fatti loro gli umani!” sbraitò lanciando attrezzi da tutte le parti. I troll s’innervosirono e presero a strattonare le catene, tanto forte da far scricchiolare travi e paratie.
“Va bene, me ne vado” fece Lily tastando il buio in cerca dell’uscio.
L’orco la richiamò: “ma cosa ne sai tu della Terra dei Cani Pazzi?”
“Non molto, solo che un certo Monchio potrebbe volersi mangiare mio fratello, e che sto andando là ad impedirglielo”
“Così… stai andando nella Terra dei Cani Pazzi?”
“È lì che sta va questa nave no?”
“Davvero? Grob! A stare sempre qua sotto non ci si accorge mai di dove va. Ma a te come viene in mente di andarci? Ad affrontare il Monchio per giunta!”
“Tu cosa ne sai di quel Monchio?”
“So che ha divorato intere tribù di orchi ecco cosa so!”
Lily tornò ad avvicinarsi a Gollterim, la tristezza sul suo volto superava la durezza dei lineamenti orcheschi. “Ha mangiato qualcuno che conoscevi?”
“Qualcuno? Tutti! Vigliacco, vigliacco maledetto”
“Dev’essere proprio un vigliacco a prendersela coi bambini, pensa che Andy ha solo cinque anni”
“Vigliacco non lui, io! Vigliacco a scappare a bordo della nave per non affrontarlo, vigliacco a portar via i troll robusti per combatterlo. Paga ricca e pasti regolari in questo buco di macchine infernali, su e giù per Morphea senza vendicare la tribù, ecco cosa sono diventato. Quanti anni sono qui, tu lo sai? Io non lo so più. Dannata Terra dei Cani Pazzi, sempre stata un postaccio, già prima del Monchio, e dopo poi, grob! E cosa vuol farci là un’umana? Sciocca! Io non ci tornerei neppure se mi facessero Re di Uluru. Meglio lavorare qui te lo dico io, occuparmi dei troll, tenerli sotto controllo ma vivi, sia io che loro, al buio ma vivi e con la pancia piena, grob!” ma Lily capì che l’orco mentiva, non gli piaceva affatto stare laggiù. Anche Gollterim se ne rendeva conto per la prima volta da tempo, l’impulso di parlare ancora ne era la riprova. Lui sempre solo e muto a fare il suo lavoro, terrificante e brutto col gusto per gli scherzi orridi e i ruggiti per scacciare i curiosi. Non era sempre stato così scorbutico o forse sì, ma tra orchi non ci si badava, solo che non c’erano più orchi con cui confrontare la propria scorbutichezza.
L’orco mosse la lanterna verso le grandi ombre alle sue spalle che si colorirono mostrando le schiene di bizzarre creature dieci volte più grosse di lui, con braccia possenti ed elefantiache gambe corte e tozze. I volti restavano nell’oscurità ma s’intravedevano i contorni delle teste grigie, tonde e rugose. I troll camminavano uno dietro l’altro in un girotondo infinito, incatenati, spingendo sui bracci di un gigantesco argano. “Avevi mai visto un troll?”
Lily scosse la testa con un misto di paura e meraviglia.
“Non li hai mai visti perché stanno sempre al buio, e non se ne trovano molti nelle terra là fuori. Divorati dal Monchio, già. E sono lontani i regni sotterranei da cui vengono”
“Sembrano mostri di pietra” sussurrò Lily.
“Grob! E diventerebbero di pietra se stessero per troppo tempo alla luce dei soli. Che bella ombra c’era nella Terra dei Cani Pazzi, e quanto spazio, tanto spazio per camminare, adesso solo giro girotondo”
“Perché girano in tondo?”
“Fanno muovere i motori della nave. Azionano i mulini che danno energia alle fornaci e alimentano le macchine. Devo tenerli incatenati perché potrebbero sfondare lo scafo e farci affondare. Non c’è niente di più forte e più letale delle loro braccia, te lo dico io.”
Lily continuava a scrutare per distinguere meglio i contorni dei troll mentre l’orco era sempre più sbalordito da quel coraggioso entusiasmo. “Vuoi vederli più da vicino?”
“Non si arrabbieranno?”
“Non ci faranno caso, tu sei molto piccola.”
Gollterim strisciò ai piedi dei troll, tenendo alta la torcia perché Lily potesse vederli. Si muovevano piegando tutto il corpo in avanti per spingere l’argano, a passi lenti e pesanti con quelle zampe che avrebbero potuto schiacciare Gollterim in un colpo solo. Lily si era avvicinata tanto da poterne quasi toccare uno, e mentre allungava la mano l’orco la spinse via con violenza. “Grob! Attenta” gridò, e uno dei troll scattando con insospettabile agilità si allungò verso di lui per morderlo. L’orco fece appena in tempo ad afferrare la frusta e assestargli un bel colpo in mezzo alla faccia per calmarlo. “Grob! Via! Via! Continuate a spingere!”
“Accidenti. Mi dispiace”
“Ah, sono così i troll. Stare rinchiusi li ha resi più aggressivi. Una volta mi temevano, si ritraevano alla luce della lanterna, oggi non ci fanno più caso e quando mi avvicino ringhiano come cani affamati.” Un altro troll si sporse buscandosi una schioccata di frusta sul naso. “Grob! Si stanno agitando troppo, è meglio se te ne torni su”
“Ecco… io non vorrei”
“Non vuoi? Devi! Quando si arrabbiano non scherzano ed è molto difficile tenerli a bada, te lo dico io”
“Il fatto è che sono qui perché sono scappata”
“Scappata da cosa?”
“Dai camerieri”
“Chi? Quei burattini idioti? Sono senza cervello”
“Ma quelle specie di lupi mannari, di iene…”
“Hai risvegliato le iene? Grob! Devi stare più attenta ragazzina. Se esci sui ponti esterni non ti daranno fastidio. C’è una scorciatoia dietro la cassa rossa nella stiva da dove sei venuta: è una scaletta di legno, stai attenta perché il legno è marcio”
“Grazie Gollterim, scusa se ho fatto arrabbiare i troll”
“Grob! Non ti preoccupare” con uno schiocco di frusta ne mise in riga un altro che lo guardava storto “è il mio lavoro questo, non certo badare a ragazzine umane!”
Lily annuì mentre imboccava l’uscita, si voltò un attimo a salutarlo con la mano prima di sparire nel buio. Gollterim schioccò la frusta due o tre volte, poi stette lì a fissare la porta vuota. Si guardò la pancia. Non era ingrassato come pensava, poteva ancora passarci. Magari anche i troll. Che vergogna che una ragazzina fosse pronta ad affrontare il Monchio tutta sola e lui, grande e grosso e con un branco di troll non ne avesse più il coraggio, grob!