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6. Il villaggio di Cetus

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L’aria era pregna d’un nauseabondo puzzo di pesce morto. Un qualsiasi Warframe avrebbe potuto estraniarsi da un odore sgradito ma Hydroid si costringeva a subirlo perché rappresentava forse l’unico punto di contatto tra sé e il popolo di Cetus: gli Ostron. Loro sentivano quell’odore ogni giorno, ne erano pregni, e quelle bocche dalle labbra gonfie, i volti tirati e gli occhi ampi sgranati, davano loro quasi l’aspetto dei pesci, come se secoli a vivere di quella dieta li stesse lentamente trasformando. Forse nel giro di un millennio agli Ostron sarebbero spuntate le branchie ed avrebbero strisciato nuovamente nell’oceano. Hydroid non aveva mai provato per loro particolare simpatia, i loro modi e costumi, le manifatture rozze e le architetture scarne non restituivano ai suoi occhi la stessa visione che ne riceveva Ivara: un modello di convivenza pacifica in una galassia in guerra. Ma la persistenza di quel modo di vivere era solo il frutto della fortunata vicinanza con quella torre costruita da un popolo più evoluto e potente come gli Orokin, perciò non si poteva attribuire a quei pescatori il talento di esistere per propri meriti.

 

Per Hydroid i pesci avrebbero dovuto restare in mare, dove non puzzavano a quel modo e riuscivano a fargli provare una qualche forma di pace, quando scioglieva il proprio corpo mescolandosi ai banchi che si avvoltolavano in turbini argentati per difendersi dai predatori. Gli piaceva insinuarsi al centro del vortice e lasciarsi trasportare dal flusso della colonia. Lo sorprendeva il modo in cui i pesci riuscivano a ignorare la composizione sintetica del suo corpo acquoso, ed anzi cercavano il contatto sedotti dalla carica elettrica dei suoi naniti di Warframe. Il distacco con cui gli Ostron macellavano i pesci, il modo in cui trattavano e a volte sprecavano le carcasse gli risultava irrispettoso proprio perché erano la loro principale fonte di cibo, e per questo gli sembrava dovessero mostrare una qualche forma di rispetto che invece preferivano dedicare a divinità pagane del tutto slegate dal mare. Veneravano la Torre, senza però frequentarla o conoscerne i segreti, veneravano in parte i Tenno senz’averne mai compreso l’identità né condiviso i tormenti. E non avevano esitato a venerare Ivara, novella dea di caccia e giustizia, e perfino lui come oscuro dio del mare. Gli Ostron sapevano che i Warframe erano macchine, e pur coltivando sospetto e diffidenza tendevano a compiacerli per scongiurarne l’ira.

 

Ivara si recava spesso a Cetus per mantenere vive le relazioni, accettare doni e ricambiarli. Dopotutto era stata lei a volersi stabilire nelle Piane per sostenere quella popolazione, così vicina al suo ideale di convivenza pacifica. Era per lei che Hydroid si era lasciato coinvolgere nella scissione dal Clan Tenno, ma la vita delle Piane lo tormentava in un costante senso d’insoddisfazione, perché pur condividendo il rifiuto d’essere mero strumento di morte nelle mani altrui – quelle di Lotus – era anche vero che starsene isolato gli sembrava un enorme spreco di potenziale. Perciò non aveva esitato ad aiutare quel nuovo Excalibur, che di aiuto aveva un gran bisogno ora che inerme nell’abbraccio dei suoi tentacoli tremava per le contrazioni dolorose dell’ascaris.

 

Ivara non aveva provato il suo stesso istinto protettivo per il nuovo arrivato e Hydroid sperava di non doversi pentire d’averlo aiutato dal momento che solo i Warframe risvegliati da Lotus avevano sviluppato una coscienza, mentre tutti quelli che non erano sfuggiti alla schiavitù Grineer erano diventati guardiani sui Raccordi della Rotaia Solare, spietati guerrieri senza coscienza pronti a combattere fino alla morte, senza il benché minimo spirito di conservazione. Il nuovo Excalibur non mostrava una vera coscienza ma era pregno d’un forte istinto di sopravvivenza e un’innata avversità ai Grineer, fondamentali per un possibile nuovo membro del Clan Tenno.

 

Hydroid attraversò indisturbato il bazar di Cetus, con le merci in bella vista in ogni negozio, dal pescivendolo al gioielliere, sintomo di una cultura in cui il rispetto della proprietà era tale da non temere il furto. Hydroid non riusciva a considerare nemmeno questo come un pregio, non dopo che la sopravvivenza sua e dei suoi fratelli era dipesa per anni dal furto di risorse altrui.

 

La baraccopoli si sviluppava come un anello tutt’intorno al bazar e al porto, cuore pulsante dell’economia degli Ostron. Le abitazioni più periferiche sorgevano presso la parete rocciosa su cui si ergeva lo scudo, ma il grosso del villaggio si stendeva dalla scogliera in una miriade di palafitte, collegate tra loro da pontili fissi e mobili, con bagnarole semoventi a fare da passerelle e mongolfiere in pelle conciata di pesci norg a tendere cavi per i ponti sospesi e regolare la tensione tra il grosso delle baracche e le balconate della Gran Torre Orokin.

 

Il ponte di collegamento tra Cetus e la terraferma era crollato o distrutto anni addietro, ma era difficile distinguere intorno alla Torre tracce di attacchi che lasciassero supporre una passata vulnerabilità dello scudo, o una sua attivazione successiva alla distruzione del ponte. Gli Ostron avevano provveduto a costruire una rete di camminamenti che conducevano ai cancelli della torre, ma più ci si avvicinava e più le baracche sembravano spettrali a dispetto dei nobili materiali impiegati per costruirle, come se quelle case fossero state costruite e mai abitate.

 

Camminare sui pontili di legno era una delle poche cose che ricordava ad Hydroid la sostanza biometallica del suo corpo di Warframe, le assi scricchiolavano ma reggevano il peso non eccessivo dell’armatura, studiata per adattarsi agilmente a qualunque variazione gravitazionale conosciuta nel Sistema Solare. Tuttavia la fragilità del legno umido e la precarietà di quei pontili abituati al modesto peso degli Ostron, nanetti e di stazza modesta, era una delle poche cose che riusciva a fargli ricordare che il suo corpo era un artificiale prodigio dell’ingegneria Orokin.

 

Mentre Hydroid attraversava il villaggio qualche tenda qua e là si scostava per una sbirciata, altre invece venivano srotolate per chiudersi. Sapeva che non si trattava tanto di timore quanto di irritazione e diffidenza: gli Ostron non fingevano mai cordialità, erano sempre sinceri e in nome di quella schiettezza, se minacciati, sarebbero diventati pericolosi perfino per un Warframe. Hydroid non era tanto ingenuo da scambiare vestiti di stracci e baracche come segno di manifesta debolezza: le zaw degli Ostron erano robuste e letali quanto le armi Orokin, sebbene si trattasse quasi esclusivamente di armi bianche. E forse non era una buona idea presentarsi nel cuore della notte – l’ora del terrore su Cetus – con un Warframe inerme e privo di forze. Considerandoli dèi, non era bene che li vedessero vulnerabili: il giorno in cui la diffidenza e il pregiudizio avessero preso il sopravvento, quegli umili pescatori avrebbero potuto pensar bene di trucidare i loro divini, così come doveva essere accaduto agli Orokin durante la Vecchia Guerra. Sparse nelle Piane c’erano caverne in cui sopravvivevano pitture che ritraevano la conquista della Gran Torre Orokin, e per quanto fosse surreale immaginare primitivi pescatori a sopraffare anche una sola legione del più grande impero umano mai esistito, si sarebbe potuto pensare lo stesso dei Tenno ai tempi della rivolta.

 

Hydroid era ormai al cospetto della Gran Torre Orokin che levava mastodontica, un robusto totem sulla cui testa era posto un diadema d’oro e zaffiro che dalla cresta più alta spandeva il flusso dello scudo che avvolgeva il villaggio, tenendolo al sicuro. Mentre procedeva spedito presso lungo pontile che conduceva alla Torre, Hydroid si vide raggiungere da una goffa e bassa figura avvolta in un lercio saio e un grottesco cappuccio con la faccia da pesce. Com’era solito fare nelle rare occasioni in cui si recava a Cetus, Hydroid torse il collo a centottanta gradi – tante volte aveva suscitato il disgusto e il terrore dei pescatori con quel gesto innaturale – mostrando il suo sguardo più torvo, agitando i tentacoli della barba riccioluta come fauci d’un granchio affamato. La piccola figura aveva l’altezza consona ad un bambino umano in epoche in cui l’umanità aveva ancora misure standard legate alla gravità terrestre e slegate alla forzata evoluzione di Corpus e Grineer. Le fattezze umane post-crollo Orokin avevano subìto una moltiplicazione di fattori, da forme di gigantismo indotte per i potenziamenti da battaglia alle malformazioni di genie sottosviluppate per le più disparate forme di inquinamento e radiazione. E pur consapevole di questo, Hydroid vedeva negli Ostron un popolo di pigmei soggetti ad anzianità precoce, perché era davvero difficile trovare in loro fasi intermedie di sviluppo tra i bimbi che giocavano sulla spiaggia e gli adulti dai volti rugosi e segnati, consumati dalla salsedine come dall’acido.

 

 Finalmente l’Ostron sollevò la maschera e tirò indietro il cappello a tesa larga svelando il volto del vecchio Konzu.

 

“Guerriero d’acqua” salutò alla sua maniera cordiale ma stentata in quella lingua per lui ostica. Konzu si sforzava di usarla correttamente per non offendere i divini col rozzo idioma dei pescatori, era il massimo oratore del villaggio e quanto di più simile ad un’autorità, sciamano, sindaco e.

 

“Devo raggiungere la cima della Torre” disse Hydroid.

 

“Porti con te un nuovo guerriero!”

 

“La corruzione Grineer è su di lui” disse Hydroid in tono drammatico “se lo prende, contagerà tutto il villaggio”

 

Il volto del vecchio parve sciogliersi, gli occhi spalancati, le guance bianche e cadenti. Nonostante le sue gambe fossero lunghe metà di quelle di Hydroid, lo superò raggiungendo il pontile spezzato della Gran Torre gridando e implorando nella sua lingua natia. Hydroid ridacchiò tra sé mentre il cancello si apriva. Il vecchio Konzu s’inginocchiò per rendere omaggio, canticchiando una preghiera di buon augurio.

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