Stai leggendo: "Nella Terra dei Cani Pazzi" - di Quinto Moro
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Capitolo 30
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Quando Lily aprì l’armadio dovette scavare fra gli strati di vestiti prima di trovarci Andy: aveva il capo riverso all’indietro ed era tutto sudato, pallido come un fantasma. La fronte scottava e non reagiva agli strattoni con cui Lily cercava di svegliarlo, respirava e muoveva appena le labbra senza riuscire a parlare. Lily lo trascinò fuori e lo stese sul letto dove cercò di parlargli senza disperarsi. Corse giù per le scale a cercare il vecchio tassista. Troppo tardi. Ismaele se n’era andato. Tornò dentro bussando a tutta forza sulla porta della vecchia signora del primo piano.
“Sono Lily, aprite, apritemi per favore!” attese qualche minuto per una risposta, invano. Bussò allora alla porta del signore incinto implorando allo stesso modo e dall’interno si sentì finalmente il suo cane abbaiare, forte come solo lui sapeva fare e di certo avrebbe svegliato tutti. Ma dalla casa della vecchina esplose un gran rimbombo, perché quel suo figlio coi capelli da femmina cercava sempre di coprire l’abbaio del cagnaccio con la musica a tutto volume. Lily rimase così tra i due baccani che si scontravano sul pianerottolo assordando solo lei. Bussò infine all’ultimo piano, quello di Mona Mozzicona, la signora con gli occhiali da sole anche di notte.
“La prego signora, deve aiutarmi, è un’emergenza! Andy sta male!”
Lily non implorava, ruggiva. Era la rabbia a guidarla e a farle prendere a pugni e calci quella porta, ma in risposta ricevette solo urla crescenti e le parolacce d’un signore. Lily rispose di rimando, con tutte le parolacce che conosceva. Li maledì tutti quanti e tornò in casa a cercare il telefono. Rovistò tra i cassetti e gli armadi, fin nella stanza di suo padre: sembrava più l’antro di uno stregone che una camera da letto coi suoi bollitori ed alambicchi. In fondo al baule coi vestiti di sua madre Lily trovò finalmente il telefono. Spese un’infinità di minuti in cerca della borchia a cui collegarlo. Lily gattonò lungo il battiscopa del corridoio e del soggiorno, spostando scatole piene di bottiglie vuote e prodotti chimici. Finalmente trovò il cavo del telefono reciso di netto, e si rese conto che pur riuscendo a collegare il telefono sarebbe stato muto, chissà da quanto non pagavano le bollette.
Dalla tromba delle scale salirono le urla degli altri inquilini. Si era scatenato un putiferio. Il signor Porco Incinto era uscito col suo cagnaccio a chiedere che il ragazzo dai capelli lunghi spegnesse la radio. La vecchina sorda cercava di placarli dispensando biscotti muffiti sdegnati perfino dal gatto appena rientrato dalle sue scappatelle. La signora dell’ultimo piano gridò minacce e ingiurie che calmarono l’incinto e il femminuccio, mentre il suo ospite caracollava per le scale sudato e stravolto accettando un biscotto dalla vecchina ancora impalata sul pianerottolo. Il cane e il gatto cominciarono una baruffa tutta loro. Il gatto fuggì nell’appartamento di Mona Mozzicona che lesta chiuse la porta, ché di guai non voleva averne. La lite tra il grasso e il femminuccio stava ricominciando quando Lily sbucò sul pianerottolo e il cane idiota del grassone le si avventò contro, per farle le feste e non per azzannarla, ma issatosi sulle zampe posteriori e aggrappandosi a lei per strappare una carezza le fece perdere l’equilibrio. Lily rotolò giù per le scale. Il silenzio le piombò addosso.
Non aveva perso i sensi. Stava guardando da vicino i listelli sconnessi del parquet al pianterreno, l’incastro con le ombre più scure dei pezzi mancanti e il rigonfiamento del legno macilento, la trama slabbrata come una fisarmonica gonfiata troppe volte dalle infiltrazioni d’acqua ed esplorata in lungo e in largo dai tarli.
Lily pensò s’esser diventata sorda, non era possibile che tutto quel chiasso si fosse interrotto di colpo. Eppure sentiva il suo respiro, gli scricchiolii del legno e il fruscio del polsino sul pavimento, mentre con la mano cercava di puntellarsi per tornare in piedi. Le voci degli inquilini tornarono. La vecchina fu la prima a parlare, presto zittita dal figlio che la spinse dentro casa. No, Lily non era sorda. Benché tutto accadesse alle sue spalle, ché non riusciva a voltarsi nello stordimento della caduta, sentiva i suoni chiaramente e non faticava a immaginare la scena. Il signor Porco Incinto doveva fissarla preoccupato, sentiva i suoi respiri pesanti come gli sbuffi d’un gigantesco mantice che impiegava un’eternità a rifocillarsi d’aria. Il suo cane idiota, forse accortosi del pasticcio, era corso via uggiolando, colpevole. Il figlio della vecchina prese a confabulare col grassone, l’incidente sembrava aver cancellato ogni antipatia e si stavano mettendo d’accordo. Lily non distingueva tutte le parole, percepiva i suoni di contorno, respiri e movimenti, ma il senso delle parole sfuggiva, annebbiato dalla botta. I due giunsero a un accordo: avrebbero fatto finta di niente, si sarebbero mostrati ignari di tutto senza tradirsi a vicenda. Il rumore dei chiavistelli serrati alle rispettive porte suggellò il patto. Nessuno era sceso a vedere se Lily fosse o meno cosciente. Dovevano averla data per morta o svenuta.
Con uno sforzo immane Lily ruotò sdraiandosi sulla schiena, il sedere schiacciato contro l’ultimo gradino e le gambe distese lungo gli altri due, la schiena ben appiccicata al pavimento. Si sentiva storta. A guardarlo così il suo corpo sembrava tutto intero. Le gambe non erano a zigzag come se l’era immaginate per una frazione di secondo, subito dopo la caduta. La spalla le faceva male ma la calda ondata adrenalinica si stava portando via tutto: dolore e paura, spavento e confusione.
Si rialzò di scatto. Le faceva male tutto, ma non tanto da immaginare ossa rotte. Non si era mai rotta niente. I dolori diffusi al costato, alla spalla e alla coscia, là dove il corpo s’era schiacciato nella rotolata in quella sfilza di gradini, non erano tanto diversi dalle botte che aveva preso da suo padre. Non erano botte più dure di quelle che già conosceva. Si aspettava un numero variabile di lividi, il suo corpo sarebbe diventato un vestito di pelle a pois viola, niente che qualche notte di sonno abbracciando Andy come un cuscino miracoloso non potesse guarire. Andy. Il malore del fratello la colpì con più violenza della caduta dalle scale. Doveva fare qualcosa per Andy e doveva farlo subito, ma non avrebbe trovato nessun aiuto da quei farabutti che s’erano chiusi in casa piuttosto che chiedersi soltanto se si fosse fatta male.
Lily caracollò fuori dal palazzo. La pazza idea di piazzarsi in mezzo alla strada per chiedere aiuto non era poi così male, ed essere investita da una macchina non sembrava più tanto doloroso. Sentì l’aria notturna sferzarle il viso, l’ondata di freddo rese insensibili gli arti attenuando il dolore. Non c’erano auto. Lily si portò al centro della carreggiata.
“Avanti” sussurrò. C’erano pochi lampioni accesi, una pigra mezzaluna e poche stelle ma ad ogni respiro vedeva la nuvoletta di vapore. E ripeteva: “avanti”.
Due fari, finalmente. Voleva agitare le braccia ma si limitò a qualche goffo gesto di saluto al vuoto. Il cuore le batteva a mille di preoccupazione e speranza. Lo stridore degli pneumatici alla curva e il cigolio delle sospensioni tra una buca e il sobbalzo sul marciapiede. Era un taxi. Il vecchio uscì all’improvviso, come sputato fuori dal ventre giallo dell’auto, scosso da quello che sembrava un violento singhiozzo. Controluce ad un lampione lontano la sagoma di lui si tinse d’un chiarore spettrale, il volto paonazzo e imperlato di sudore, il volto di Ismaele.
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