
Stai leggendo: "Junkie '87 - L'ultimo giro in barca" di Quinto Moro
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5.
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Sir Beronì permetteva a quasi tutti i suoi dipendenti di prendere in prestito una barca qualche volta a settimana. Mai le barche in pronta consegna, solo i gommoncini e i motoscafi fino a dieci o quindici metri, ma tanto bastava perché si sentissero coccolati e fortunati. Dopo i primi approcci ansiogeni anche Morgan aveva preso l’abitudine, scorrazzando per la costa con arie da lupo di mare. Quando si allontanava dalla costa scioglieva la bandana piratesca e sfrecciava a petto nudo, col vento a riempirgli i polmoni nel torace rinsecchito. Aveva i capelli lunghi e crespi, brutti a vedersi, ma sentiva l’aria passarci in mezzo come quando da bambino metteva la testa fuori dal finestrino, quando suo padre lo portava in giro col furgone facendogli saltare la scuola.
D’estate, quando le calette si riempivano di yacht di lusso, li fiancheggiava adocchiando le donne bellissime che passeggiavano sui ponti, vestite con quei costumini dai colori sgargianti e a volte neppure quelli. A volte lo salutavano con le mani, o gridando qualcosa in lingue straniere. Morgan non aveva mai avuto fortuna con le donne, se lo ripeteva sempre, ma il pensiero non lo tormentava più di tanto. Era un pensiero relativamente nuovo, come un oggetto rimasto chiuso negli scaffali d’un rigattiere, passato di moda e il cui interesse era stato abbandonato fino al revival dell’anzianità incipiente. Negli anni da tossico il desiderio sessuale era andato somigliando sempre più al gusto della frutta di stagione, quella dei tempi andati che s’immagina sempre più saporita, e quando si riusciva a darne un morso nel presente si scopriva il frutto marcio o senza sapore. Le favolose fantasie sessuali dell’adolescenza s’erano consumate in frettolosi approcci doposcuola con ragazzine di cui non ricordava più il nome, eclissate dalle matrone Mamma Ero e Maria, Coca e Avana, puttane da orgasmi chimici che l’avevano tenuto sotto per vent’anni.
L’estate perenne che gli sembrava di vivere al cantiere risvegliava istinti antichi, pur senza renderli davvero importanti. Desideri effimeri, come i profumi sentiti per strada, passando sotto la finestra di un ristorante in cui non poteva ancora permettersi di mangiare. Così si godeva la fantasia del sesso al solo adocchiare i grandi yacht e le silhouette dei giovani corpi abbronzati in lontananza. Senza pensarci troppo. Almeno fino all’incontro con Virginia.
6.
Nessun nome era mai parso così fuori luogo. Tutto ispirava Virginia, fuorché l’idea di un’illibata purezza. Ed era stato proprio il nome ad attrarre Morgan, per quella sorta di scherzo che ispirava al cospetto di una procacità così prorompente.
Virginia s’era presentata al cantiere alle nove di un sabato mattina. Tutti gli altri dipendenti, tranne il capofficina, avevano la mattinata libera. E tranne Morgan che al cantiere ci viveva. La testa era quanto di più voluminoso si fosse mai visto, con quei ricci neri che abbracciavano le spalle e le braccia, cascando sulla schiena in un taglio affusolato e stranamente definito per una chioma tanto ribelle, un taglio che sembrava indicare come una freccia quel culo sporgente tanto perfetto da meritare un monumento da marmi greci.
Morgan l’aveva visto per primo e per istinto le si era fatto incontro. L’aveva immaginata come una ricca ereditiera, figlia di qualche cliente straniero. Il taglio degli occhi e la carnagione scura potevano camuffare l’origine mediterranea scolpita nelle labbra e negli zigomi, così come nelle forme generose e nei capelli corvini. Morgan l’aveva invitata nella sala ricevimenti per ascoltare distrattamente il suo racconto, che non gli sarebbe divenuto chiaro fino all’indomani sera a cena, quando ripetizione dopo ripetizione, sforzandosi di guardare oltre quell’attrazione che lo rincoglioniva dagli alluci alle sopracciglia, la storia era diventata chiara.
Virginia era capitata lì per caso. C’era di mezzo la crisi con un fidanzato che non sentiva più da un mese, una vacanza presso una coppia di amici che per l’avevano lasciata sola e smarrita, in una zona in cui il trasporto pubblico ignorava le necessità di turisti e residenti in egual misura. L’autobus non ne aveva voluto sapere di presentarsi alle otto, facendole perdere il volo delle dieci. Era andata più o meno così. Morgan si perdeva i dettagli ogni volta che lei iniziava a parlare, ad ogni scrollata di spalle che produceva un sobbalzo dei seni, chiaramente avvolti in nient’altro che una fine canottiera semitrasparente, e l’agitarsi di quelle labbra carnose che spandevano l’odore piacevole del suo respiro.
Da buon gentiluomo, Morgan s’era offerto di accompagnarla all’aeroporto, prendendo in prestito uno dei chopper nella fornita scuderia del capo. Sentirsela premuta sulla schiena mentre sfrecciava tra le curve gli aveva procurato un’eccitazione e un’euforia inedite. Ovviamente non fecero in tempo, c’era voluto un quarto d’ora solo per fissare le sue valigie al chopper, e Morgan pur premendo sull’acceleratore aveva fatto il giro più lungo. Lei d’altronde era già rassegnata a stare lì qualche altro giorno, la cosa non sembrava preoccuparla granché.
Giunsero presso l’aeroporto alle dieci in punto, Virginia decise che l’aereo appena decollato sulle loro teste fosse il suo volo. C’era la possibilità d’un ritardo, ma nessuno dei due insistette per andare a controllare. Morgan diede di manico per passare oltre, verso il porto e giù fino al bar del molo. La passerella che si allungava per cinquanta metri fino all’ampio gazebo sarebbe stata una cornice elegante e romantica per una serata invernale, senza il marasma del traffico estivo mattutino che la rendeva quasi squallida. C’era meno chiasso del solito, il vai e vieni delle nuvole strozzava la brutalità del sole e la brezza spegneva ogni accenno d’afa.
Morgan e Virginia fecero colazione chiacchierando per un’ora. Quando il telefono aveva squillato, Morgan aveva impiegato cinque minuti a spiegare dove si trovava e con chi era, costretto ad insistere sul fatto che si trovasse con una donna, ché Igor – il figlio maggiore del capo – era più propenso ad immaginarlo strafatto in un fosso che in dolce compagnia. Igor conservava quella diffidenza cui Morgan era abituato per i suoi trascorsi da tossico. Nel caso di Igor era piuttosto il classismo da ricco figlio del capo, cresciuto nella bambagia. Qualcosa di innato e non voluto, privo di cattiveria, che ogni tanto si faceva sentire.
Alla fine della telefonata Virginia aveva preso il telefono dalle mani di Morgan, gli si era stretta accanto ed aveva scattato una foto, così lui avrebbe potuto mandarla e al capo, al figlio del capo, e a chiunque volesse un buon motivo per la sua scappatella. Solo qualche istante dopo Virginia si fece lo scrupolo che non ci fosse di mezzo una moglie. Morgan s’era atteggiato a lupo solitario, parlando di come il lavoro fosse impegnativo e di come avesse perso il treno della famiglia tanto tempo addietro. Non c’era stato nessun treno in realtà, la cosa che più aveva somigliato alla prospettiva d’una famiglia era quella volta in cui credeva d’aver messo incinta una delle tossiche che bazzicavano la casetta, almeno venticinque anni prima. Venticinque, come gli anni che dimostrava Virginia.