Stai leggendo: "Scappati di casa" di Quinto Moro
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11.
Il giorno dopo lo passai a zonzo, esplorando le stradine fra i terreni, fiancheggiate da muraglioni di canne e fichi d’india. Peccato non fosse ancora tempo. M’ero portato una sola pagnotta, una rosetta soffiata già dura, che si sfaldava in centomila briciole. Ero tarchiatello e avevo le mie riserve di grasso, la rogna peggiore era la sete. Avevo la bocca perennemente arsa e impastata, l’interno delle guance mi si attaccava alle gengive dove sembrava si fossero nascoste sanguisughe, microscopiche, a miliardi. Avrei ucciso per una tuta distillante Fremen, e non capivo come il mio corpo potesse essere così stupido da farsi venir voglia di pisciare.
A pomeriggio inoltrato, dopo aver passato due ore rannicchiato all’ombra, tagliai per i campi pensando di tornare a casa, ma la vista dei tetti del paese in lontananza mi respingeva, facendomi cambiare strada ogni volta. Di passaggio per un frutteto feci scempio di quelle che pensavo arance, ed erano invece stronzi, amari pompelmi. Riuscii a succhiare la polpa dei primi due ma mi facevano troppo schifo, e giocai a spappolarli contro una baracchetta di mattoni.
L’irrigazione a pioggia partì in un campo vicino e, dopo essermi assicurato che non ci fosse nessuno in vista, andai ad inzupparmi dalla testa ai piedi, lavando via un po’ del puzzo di bestia che mi sentivo addosso ed abbeverandomi dagli irrigatori, ché forse era acqua di pozzo o di fiume, ma ormai non aveva più importanza.
Tornai alla baracca che era notte fonda e caddi stecchito sul letto. L’indomani mattina, la colazione a base di pane duro fu rovinata dalla scoperta che le formiche s’erano messe a banchettare con le mie scorte. Dopo aver dato fondo al mio frasario d’ingiurie e bestemmie finii per arrendermi a sbatacchiare il pane per levargli di dosso le formiche, sbucciando la crosta più esterna per mangiare la mollica interna, che di molle non aveva più niente.
Passeggiavo sulla riva del fiume, avevo piantato il retino da pesca e lanciavo le briciole del pane in un rigagnolo fra i rami bassi, sperando apparisse qualche pesce. Era mattino ma ero stanco morto. Il giorno prima avevo camminato per ore e non avevo mangiato che una pagnotta secca.
Le formiche stronze avevano colonizzato pure le lattine di birra della sbronza con Ruggero, scelsi quelle intere e le sciacquai nel fiume. Volevo tornare agli irrigatori ma mi arresi a riempirle con l’acqua di fiume.
Avevo fame, e se anche avessi pescato, avrei dovuto accendere un fuoco. Raccolsi sterpi e rami, ammucchiandoli per quando fossi tornato dalla pesca. Retino in spalla presi la strada per il canale, quando Stefano, detto Stecco-Stitico, detto Stogazzo, detto Sto-male-sempre, spuntò dai cespugli.
“Cosa cazzo ci fai qui?”
Non il miglior saluto tra cugini. Stecco se ne stava a guardarmi come un imbecille con una busta in mano. Ero scattato in piedi e da come Ste aveva reagito m’era venuta la mia faccia più truce. Fisicamente ero ancora il doppio di lui, benché dall’inizio delle medie fosse cresciuto in larghezza, e avevamo più o meno la stessa altezza.
Fece qualche passo indietro mentre gli andavo incontro. Non l’avrei mai picchiato senza motivo, ma il fatto che fosse lì era uno più che buono: era un secchione, un perfettino, quello perbene, che tutti erano sicuri avrebbe combinato qualcosa nella vita a differenza del sottoscritto. Di sicuro ne erano convinti i miei genitori tanto quanto i suoi. Già me lo immaginavo a correre a dire a mamma che mi aveva trovato, e a diventare l’eroe di giornata. O sarebbe corso direttamente a casa mia, allora sì che sarebbe diventato il figlio ideale pure dei miei genitori, se già non lo era. Avrei voluto afferrarlo per il colletto affondandogli le dita sotto la pelle, stringergliele su per il collo e soffocarlo. Poi pensai che non era stato lui a trovarmi, ma mio zio, suo padre, o tutti quanti, tutta la famiglia bel belli a rastrellare le sponde del fiume a caccia del fuggitivo. E m’immaginavo mio padre rampare come un cane idrofobo a urlarmi in faccia con la sua fiata alcolica, prendendomi a sberle davanti a tutti.
“Chi altro c’è?”
“Perché?” fece lui “chi c’è?”
Per essere la speranza della famiglia sapeva essere lento e tonto come pochi. Avrebbe alzato la mano come per una molla infilata su per il culo che gli faceva scattare meccanismi dalla schiena alle braccia, se solo ci fosse stata un’insegnante a fargli la domanda. Fuori dalla scuola non brillava per svegliezza, ed eccone un’altra dimostrazione.
“Con chi sei venuto?”
“Con nessuno”
“E che cazzo ci fai qui?”
“Ti stavamo cercando”
“Allora qualcun altro c’è”
“Ti stanno cercando tutti”
“E chi ti ha mandato qui?”
“Nessuno, ci sono venuto da solo”
“Ecco, e adesso te ne vai da solo affanculo, e se dici a qualcuno che mi hai visto ti spacco la faccia. E te la faccio spaccare anche dai miei amici”
Sembrava spaventato, ma a pensarci bene non doveva esserlo. Perché o era spaventato sempre, o non lo era mai, dato che aveva sempre quell’espressione stranita, di chi non capisce cosa gli succeda intorno e perché.
“Lo sapevo che eri qui”
“E come cazzo lo sapevi?”
Gli diedi una spinta e feci il gesto di tirargli un pugno. Aveva la faccia stupita, offesa, e fece roteare la busta che aveva in mano, schiantandomela in faccia con un rumore di plastica che si spacca. Da qui a riprendermi per la botta, Stecco era già in fondo alla sterrata e stava sparendo tra i cespugli. Era meglio se ne andasse così, aggredito e offeso tanto da fargli desiderare che fossi morto di stenti là al fiume. Anche se in realtà ero io quello aggredito. Volevo fargliela pagare, ma se l’avessi picchiato allora sì che sarebbe corso a raccontare tutto.
S’era lasciato indietro la busta con cui mi aveva spaccato la faccia. Dentro c’era una bottiglietta d’acqua mezzo vuota che scolai al volo, un walkman e quel che restava della custodia di una musicassetta, la copertina disegnata in pennarelli neri e rossi che diceva “Litfiba 3”. Avevo il cd a casa, me l’ero fatto regalare per i miei dieci anni. Più avanti mi sarei ricordato di quando avevo fatto conoscere i Litfiba a Stefano, una notte di qualche festività in cui i nostri genitori stavano a bere spumante da quattro soldi e raccontarsi storie d’infanzia, mentre noi stavamo ad ascoltare il disco in camera mia. Mi sarei ricordato delle quattro o cinque volte che avevo dovuto fargli ascoltare Peste, per fargli capire che l’urletto strozzato alla fine era il rantolo della morte, solo che durante il pezzo ci mettevamo a parlare d’altro e ce lo perdevamo ogni volta.
L’unica cosa che mi venne in mente col walkman tra le mani fu che Stefano non ce l’aveva il lettore cd, anche se la sua famiglia doveva essere più ricca della mia. E che i Litfiba non li conosceva prima che gliene parlassi io. L’adesivo sulla musicassetta diceva Peste da un lato e Luisiana (scritto senza la “o” di Louisiana, che poi era il mio pezzo preferito dell’album).
Andai dietro al mio strambo cugino a forma di Stecco ingrassato, chiamandolo e chiedendo scusa per averlo spaventato. Io, con la faccia livida, spaventato lui. Gridavo forte la fantasia di tutta la famiglia con parenti fino al dodicesimo grado schierati in una battuta di caccia al me fuggiasco. Stefano detto Scarafaggio era quasi arrivano alla strada asfaltata, e avrei voluto afferrarlo per il colletto senza più intenti violenti, solo per tirarlo giù, lontano dagli sguardi di eventuali cercatori. Lo convinsi non so come a seguirmi fino alla baracca.
Stefano disse che tutti mi stavano cercando, in modo più o meno convinto. Gli sbirri facevano qualche domanda in giro, ma non si strappavano i capelli per me. Per tutti sarei tornato a casa da solo, come se la mia fama di infimo studente e l’aura miserabile della mia famiglia bastasse a considerare la fuga come una bravata. Nessuno temeva di ritrovarmi morto in un fosso. Tutti sapevano della sospensione da scuola e tanto bastava a tutti quanti.
Quando gli chiesi come cazzo ci fosse arrivato lui, il mio cuginetto, a trovarmi in quel giorno animato da un infame vento di maestrale e un sole assassino, se ne uscì con un racconto che sulle prime era tutto nuovo per me. Saltò fuori che io e lui, alla baracca del fiume c’eravamo già stati, una volta che l’avevo convinto a venire a pescare con me e gli altri, che poi erano Andrea, Ruggero e una manciata di altri nomi sfuggenti.
Stando al suo racconto, dovevamo andare soli io e lui, solo che io avevo invitato gli altri. E gli altri erano venuti con sigarette e birra, stufo di farsi perculare perché lui non fumava e non beveva, il mio cuginetto puro di cuore s’era seccato o offeso per qualcosa. Mentre si allontanava qualcuno – forse Ruggero – gli aveva lanciato dietro una bottiglia di birra. La parabola perfetta s’era chiusa giusto ai suoi piedi, col vetro ad aprirgli calzini e pelle sul malleolo. Ste se n’era andavo via piangente e sanguinante. Per non fare la spia su di me aveva raccontato d’essersi tagliato su una bottiglia urtata a caso per strada. Così s’era fatto un altro po’ di fama da imbranato a scuola, e presso i parenti che, quando non volevano misurare il mondo sui voti di scuola, scherzavano e ridevano di lui come e più di noi a scuola.
Stefano s’era beccato due punti sul malleolo per la bottigliata. Non aveva fiatato sulla mia presenza e complicità quel giorno. L’avesse fatto, gli avrei pure dato del bugiardo, che non ricordavo nulla dei miei primi pomeriggi alcolici.
Si ricordava che “Litfiba 3” era uno dei miei dischi preferiti, anche se nel tunnel temporale delle medie era passato un secolo da quando l’oh-oh-oooh di Louisiana accompagnava i miei sballi ravvicinati tra un tiro di canna e una bevuta. M’ero pure scordato di cosa parlava il testo della canzone, non ascoltavo quel disco da una vita.
Ricostruivo pezzo a pezzo quei ricordi mentre ne parlavamo in riva al fiume, con lui che si lamentava per il fango sotto le scarpe, e la paura che si notasse al ritorno a casa. Non mi chiese perché ero scappato, né cerco di convincermi a tornare. La cosa mi fece incazzare. Forse pensava che la mia fosse una famiglia da cui scappare, lui mezza sega cresciuto nella bambagia col destino scritto da impiego in banca ed eredità sicure di case e casette, da non dividere con fratelli e sorelle.
12.
C’eravamo messi a parlare in riva al fiume, io seduto sull’erba umida, mio cugino su una pietra, troppo schizzinoso per rischiare di sporcarsi il culo.
“Come hai fatto con la scuola?” gli chiesi. Mi guardò senza capire. Sembrava impossibile avesse fatto vela solo per venirmi a cercare.
“Oggi sei mancato”
“Uscivamo prima. Riunione sindacale” appunto.
“Io non ci vado mai quand’è così. E zia ti ha lasciato andare in giro? Da solo?”
“Gli ho detto che andavo a pranzo a casa di Chiara”
“Chi è Chiara?”
“Era in classe con noi alle elementari”
“Ah quella. Te ne stai sempre con le femmine, poi ti lamenti che ti dicono che sei frocio”
Stecchino si mise a scuotere la testa, guardando dall’altra parte del fiume. “Io non lo so come fate a essere così stronzi” disse “state sempre sbavando per le ragazze ma siete sempre in giro tra maschi, e chi sta con le ragazze sarebbe frocio?”
“Se uno ci sta come te”
“Cazzo ne sai di come ci sto io?”
“Vuoi farmi credere che ci fai qualcosa?”
“Io non ti faccio credere niente. Intanto non sono cazzi tuoi, e poi non ci crederesti”
“Le hai toccato le tette?”
“Ma smettila”
“Me la ricordo Chiara, le erano già spuntate alle elementari. Le sono spuntate in quarta e adesso c’ha una quarta da quanto è grassa”
“Smettila!”
“Eh, scuuusa, allora sei proprio innamorato di Chiarona la chiattona”
Non vidi nemmeno partire il colpo. Stefano m’aveva tirato una sassata, dritta sulla guancia. Scattai in piedi e gli saltai addosso. Ci rotolammo sull’erba e stavo per tirargli un pugno in faccia ma mi limitai a fare un bel grido con una faccia da guerra.
Tornai a sedermi, standogli di fronte. Non gli potevo dare le spalle a quel figlio di puttana, né stargli di lato. E dovevo essere io quello grosso e manesco dei due.
“Si può sapere che cazzo ti è preso?”
“Io vengo a trovarti e tu mi tratti di merda, sei sempre il solito coglione”
“Ma se m’hai spaccato la faccia appena mi hai visto!”
“Sei tu che mi hai aggredito!”
Stavamo di nuovo per saltarci al collo, avrei voluto fargliela pagare, fargliele pagare tutte. Ero già scattato in piedi ma qualcosa guizzò nell’acqua, come un uccello sceso in picchiata o un grosso pesce guizzato fuori. Tanto bastò a spezzare la tensione, perché tutti e due c’eravamo voltati a guardare il pelo dell’acqua. Il guizzo si ripeté più forte e con un mucchio di spruzzi.
“Che cazzo è?”
“Il mio pesce che si sbatte una trota” dissi scuotendomi il pacco.
Stecco fece una risatina infantile ed io tornai seduto.
“Non mi hai ancora spiegato com’è che mi hai trovato”
“Te l’ho detto che c’eravamo già venuti a pescare, anche se non abbiamo pescato niente e i tuoi amici hanno fatto gli stronzi, ma il posto me lo ricordavo”
“E allora? Potevo essere dappertutto”
“Dappertutto no. Se io scappassi andrei in un posto che conosco. È pure vicino a casa tua. Ed è facile arrivarci dalla strada di scuola. Era il primo posto dove cercarti. Elementare Watson”
“Sherlock Holmes di merda. Perché sei venuto a cercarmi, cosa te ne sbatte a te?”
“Sei mio cugino”
“Embè?”
“Siamo amici”
“Macché amici”
Stecchino mi guardò deluso, riprese la busta col suo walkman scassato e fece per andarsene. Ammisi d’essere stato stronzo e lo convinsi a restare. Gli feci vedere l’interno della baracca, poi ci arrampicammo sulla tettoia, stesi sul soffitto piano di ferro ondulato. Io giocherellavo a calciare il coperchio della botola con un piede e tenevo l’altra gamba penzoloni nel vuoto. Ascoltammo “Litfiba 3” passandoci le cuffie a metà di ogni canzone. A metà di Paname, senza motivo, Stefano mi disse d’aver baciato Chiara. Non gli credetti e lui non disse altro per convincermi. Al cambio cuffie per Cuore di Vetro glielo chiesi: “ma con la lingua?”
Mio cugino Stefano detto Stinco-di-Santo scosse la testa. Alla fine della cassetta disse solo: “non ancora.”
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