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Stai leggendo: "Scappati di casa" di Quinto Moro

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9.

C’era una mezzaluna stronza in cielo, nascosta da quelle nubi da notte horror che sfarfallavano levando di mezzo tutte le stelle e lasciando solo un alone biancastro presso la luna.

La strada del fiume era buia da fare schifo, col puzzo umido dei muschi e di quei tentacoli filacciosi di melma verde scura che s’impigliava tra le canne e ammucchiavano sulle sponde. Il fango s’impregnava di un odore diverso dalle ore diurne. Nel fottio di cespugli fruscianti si gonfiava il roglio d’insetti e rane e uccelli notturni riempivano l’aria, e tutti insieme quei rumori e suoni sembravano appartenere ad un’unica grande bestia acquattata nell’ombra, a pelo d’acqua.

Non riuscivo a dormire. La notte era umida e calda ma sentivo freddo. Non avevo coperte, e nemmeno piegando in due il materasso di gommapiuma, tirandomelo sotto il mento come un piumone che mi si sfaldava tra le dita in brandelli e polvere, riuscivo a scaldarmi.

Uscii dalla baracca, grugnendo e ringhiando di rimando ai fruscii degli orrori invisibili che minacciavano di assalirmi.

“Cagasotto” dissi tra me, e cantilenai a voce più alta: “caga-sotto-caga-sotto!”

Imboccai la strada con la sola idea di scaldarmi un po’, ma mi ritrovai tra una fantasia e l’altra sulla via di casa. Al primo accenno di fari feci un balzo oltre il guardrail buttandomi tra l’erba alta con abbondanza di spine. La fantasia di squadre di ricerca, pattuglie di polizia e parenti che venivano a cercarmi mi coccolava e mi spronava a sfuggire dai ricercatori, reali o immaginari che fossero.

Alla terza o quarta vettura, e al terzo o quarto salto oltre il guardrail, mi scorticai le mani tra i sassi. Raggiunsi casa ciondolando indolenzito e sudato, con le mani appiccicaticce per le stigmate di sangue sui palmi, arricchite dalla pomata di sputi per disinfettare le ferite.

Scavalcato il muro del cortile sul retro, vidi entrambe le finestre aperte, quella della mia camera, lasciata lì come se i miei si aspettassero il mio ritorno a notte tarda, come d’estate, con la festa del patrono del paese. E c’era aperta la finestra della stanza dei miei, da cui misto al lampeggio della tv e gli strilli di una presentatrice salivano i grugniti e i lamenti di una scopata. Non erano poi così preoccupati della mia assenza. Mi attaccai alla pompa dell’acqua, facendola scorrere pianissimo e bevendo sino allo sfinimento. Per un istante sperai d’essere scoperto, che mio padre si affacciasse alla finestra e mi vedesse rannicchiato sul rubinetto, lanciandomi un urlo perché me ne andassi a letto, ch’era troppo tardi per le botte e le scenate. Poi il silenzio e la voglia di scappare ancora.

Fantasticavo sulle prossime imprese di pescatore. Io e mio padre avevamo canne da pesca uguali, appese in bella vista nello sgabuzzino in fondo al cortile. Prenderne una sarebbe stato come strillare che stavo al fiume. C’era poi il retino da pesca, quello da quattro soldi, più un giocattolo da bambini che un attrezzo da pescatori. Pescare con la canna sarebbe stato più entusiasmante, più autentico, ma non avevo esche, anche se non era difficile immaginare i fanghi e melma sulle rive offrire un’ampia scelta di lombrichi e vermi. Ma vista l’abbondanza di trote nella pozza stagnante allo sbocco del canale, il retino sembrava la scelta più intelligente.

Ricordo chiaramente d’essermi sentito ridicolo, con quel retino in mano, a due passi dalla finestra della mia cameretta, aperta e pronta a risucchiarmi tra le grinfie del copriletto e le scenate dell’indomani mattina. Le punizioni per aver fatto stare in pensiero mia madre, e le sberle per la sospensione, le urla, gli insulti, la vergogna nei discorsi coi parenti, al telefono, o quelli venuti a vedere la vergogna della famiglia. Che vergogna, scappare di casa.

Ero stato sul punto per saltare dalla finestra al letto, anche solo per strappar via un lenzuolo o un cuscino ma corsi via, brandendo il retino da pesca come una lancia da cacciatore. Sbagliai ad imboccare la stradina del fiume due volte, stordito dalla stanchezza e dal buio, dal frinire degli insetti e il frusciare di nutrie grandi come foche.

Tornato alla baracca sprofondai in un sonno ingarbugliato di risvegli e ansie. M’ero sentito sollevare per il collo da mio padre che ruggiva vapori di birra e rabbia con un rumore da sfiatatoio di balena ubriaca, ritrovandomi sollevato dal letto come se fosse stato là a prendermi di peso. Il puzzo per la melma del fiume mi nauseava ma ero sfinito e crollai di nuovo, risvegliandomi con le mani insanguinate nella fantasia di scannamento del preside, e di quella stronza di una professoressa dalla faccia truccata come una zoccola dei bassifondi. E stavolta ero io a prenderli per il collo e urlare tutto il mio disprezzo.

 

10.

I rumori del fiume m’avevano tormentato il sonno e il freddo non mi lasciò riposare fino a tardi. Ero pesto come dopo una rissa al campo sportivo. Mi facevano male le braccia e le gambe e avevo la nausea per la fame. Ero abituato ad andare a letto senza cena, anche se avevo scorte di merendine e caramelle schiaffate tra rete e materasso, o in fondo ai cassetti.

Avevo il mio bel retino da pesca ed ero pronto a buttarmi nel vascone dei pesci, ma una volta sul posto la sagoma del vano saracinesca, nero e puzzolente, mi restituiva i ricordi disseppelliti il giorno prima. Doveva essere quello lo sfogo del fiume che s’era portato via il mio Trunks.

Tirai dritto per la strada verso gli orti, avventandomi sulle piante di arance, e caricando il retino e facendo della maglietta una saccoccia per fare scorta. C’erano piante di nespole e fichi che promettevano di maturare presto. Feci avanti e indietro tre o quattro volte, rubando tante arance da fantasticare di rivenderle a qualche angolo di strada.

Era pomeriggio e mi stavo ingozzando di arance vaniglia quando Ruggero apparve singhiozzante e allegro per qualche boccale di birra già ingollato, e ben intenzionato a proseguire dalla scorta di lattine di birra e patatine che s’era portato appresso. Rovistò divertito dalla mia nuova baracca, saltando sul letto e raccontando i sozzi dettagli di una che s’era scopato proprio lì l’estate scorsa.

“Stanno impazzendo per cercarti, tuo padre è venuto a chiedere al bar. M’hanno già rotto il cazzo un paio di volte per dire se ti avevo visto”

“E tu cosa gli hai detto?”

“Non gli ho detto un cazzo”

“Bravo”

“Però per sdebitarti devi farmi un pompino” rise e fece il suono del risucchio con la bocca.

“Vaffanculo”

“Oh, se vuoi darmi il culo non dico di no”

“Cos’è, tua madre ti sta lasciando in astinenza?”

“La mia no, la tua si”

Andammo avanti a scolarci le birre per tutto il pomeriggio. Non mangiavo cibo solido da un giorno ed ogni sorsata mi sdongiava, voce del verbo sdongiare, onomatopea per lo sdong delle campane, vuote e che rimbombano. Così la mia testa rimbombava di zozzerie al malto e modi di dire solo nostri, che col Ruvido ripetevamo come in una gara di mantra e filastrocche.

Quando Ruggero se ne andò caracollando verso casa fui preso da un misto di nausea e paura. Avrebbero potuto investirlo, o poteva sbagliare strada e cadere nel canale facendo la fine del mio povero Trunks. Lo stesso poteva succedere a me, se chinandomi a bere acqua dal fiume, fossi scivolato in acqua e annegato, o finendo impastato fra canne e tronchi nelle grate della diga.

Con la testa tre taglie più grossa e ugualmente pesante riuscii a trascinarmi a letto. Mi svegliò il batti e ribatti di qualcosa contro la porta di ferro della baracca. Era notte, e pensavo fossero venuti a prendermi. Dalla violenza di quei pugni mi assalì la paura che il Ruvido avesse parlato, che mio padre fosse venuto a prendermi e mi avrebbe fatto a pezzi sul posto. O forse erano gli sbirri, venuti a prendermi per il collo e trascinarmi a casa, o in caserma. Tenni il fiato sospeso, aspettando che rinunciassero. Ma non rinunciavano. Sbam. Dong. Sbam. Dong. La porta finalmente si aprì, ma fuori era troppo buio. La sagoma sembrava enorme, gridai il mio più selvaggio vaffanculo, lanciandogli addosso la prima cosa che mi venne sottomano.

“Oh coglione!” urlò “cazzo fai, sono io”

Era la voce di Andrea. Stavo per scusarmi, ma lo insultai di rimando, ché poteva dirlo prima.

“Stavo chiamando un’ora!”

“Eccheccazzo vieni di notte?”

“T’ho portato il pane coglione, bel ringraziamento di merda”

Andammo avanti a insulti un paio di minuti. Ero ancora sdongiato dalla birra, con la bocca impastata e un’arsura micidiale. Chiesi aiuto ad Andrea perché mi tenesse per la maglietta mentre bevevo dal fiume. Aveva portato una bottiglietta d’acqua che scolai in un minuto, e volli comunque buttare la faccia nell’acqua. Il terrore di cadere e annegare mi fece da sveglia. La notte era chiara. Fuori dalla baracca e dall’ombra degli alberi, la luna illuminava il fiume. Andrea si teneva la spalla, inzuppando la maglietta nell’acqua e tamponando per tenerla al fresco.

“Se mi prendevi in faccia mi ammazzavi”

Stavo per scusarmi, ma dissi solo: “pensavo fosse mio padre”

“Ti sta cercando dappertutto. È venuto anche a casa mia, era incazzato come una bestia.”

Risposi con un rutto.

“Gli ho detto che non sapevo niente, che chiedevo in giro e ti cercavo anch’io”

“Non devi dirgli un cazzo!”

“Non gli dico un cazzo, però lo sa anche Ruggero”

“Il Ruvido non parla”

“Per due birre leccherebbe pure le palle del prete e canterebbe messa venerdì sabato e domenica. Cioè, siamo amici, ma non è che ti puoi fidare”

“Vedrai che non parla”

“Tanto anche se parla non si capisce”

Risate. Andrea rimase a farmi compagnia per il resto della notte. Avevo già dormito e passarono molte ore prima che potessi chiudere occhio un’altra volta. Trascorremmo buona parte della notte fuori, a classificare mentalmente le ragazze della scuola in base alla taglia del reggiseno, e a farci massacrare dalle zanzare. Andrea mi lasciò accendino e sigarette. Gli feci promettere di non dire nulla e non tornare prima di domenica, nel caso non l’avesse seguito qualcuno. A lui il compito di dissuadere pure il Ruvido da ulteriori visite. Forse mi sarei mosso, più in profondità verso i terreni con le serre abbandonate.

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