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Stai leggendo: "Scappati di casa" di Quinto Moro

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13.

Stavamo discutendo sul da farsi per il pranzo. Stefano voleva andare davvero a pranzo dai suoi futuri suoceri, io volevo finalmente realizzare il sogno della pesca alle trote col mio fido retino. Cercavo di convincerlo a venire a pescare con me, gli promisi che avrei fatto tutto il lavoro, e che lui non si sarebbe sporcato. Gli dissi che sarebbe andato a casa di Chiara in tempo per i compiti. Provò a farmi promette di tornare a casa quella sera stessa, io risposi che ci avrei pensato su se fosse rimasto a pranzo con me, anche se non ne avevo alcuna intenzione. Mi convincevo invece di andarmene più lontano e passare la notte altrove, perché non mi fidavo dei suoi probabili morsi di coscienza.

Se mai fossi tornato a casa, i miei dovevano essere abbastanza spaventati e distrutti da essere felici di rivedermi, anche se non era un pensiero lucido, né avevo un vero piano a riguardo. Non l’avevo mai avuto.

Io e Stecchino stavamo per salutarci quando sentimmo l’urlo.

“Ci hanno trovati!” dissi “nasconditi dentro, io vado a vedere chi è”

Non ho mai capito perché mi comportai in quel modo. Fu come uno scherzo. Stefano cercò di convincermi a uscire allo scoperto, io invece insistetti per restare nascosti, perché lui si nascondesse.

“Aspettami qui” dissi, accostando la porta della baracca “se non torno tra un’ora esci e torna a casa”

“Ma devo andare da Chiara!”

Ricordo chiaramente il modo in cui lo disse, con un urlo sottovoce, piano per non farci scoprire e forte per l’urgenza.

“Mezz’ora al massimo, dài, fidati di me! Magari non è nessuno e te ne vai subito”

Fidati di me. Ricordo bene anche il modo in cui lo dissi. È il ricordo in assoluto più nitido di tutta la storia, ed è così misero.

Stefano si fidò di me.

“Vai a sederti sul letto” dissi.

“Ma è sporco!”

“E allora stai in piedi”

Urlavamo sottovoce, concitati, quando arrivò un altro urlo, più lungo e profondo del primo. Più vicino. Più animalesco e pure inequivocabilmente umano. Spinsi la porta della baracca fino a chiudere l’uscio. Era pesante, con la maniglia di chiusura all’esterno. La lasciai aperta, andando incontro all’urlo.

Non c’era niente da controllare. Niente di cui aver paura. L’avevo riconosciuto subito, il verso del gallo di Ruggero. Il gallo-drago, il ruttofago, il verso del cane ingrifato. Lo faceva quand’era più cotto del solito, specie in presenza di minigonne e tette abbondanti, tanto che immaginavo fosse venuto con qualche amica.

Ne aveva tante di amiche, nel suo borsone arancio, più scuro sul fondo per l’umidità del ghiaccio che si scioglieva sul fondo, a tener in fresco ogni genere d’alcolico.

Fece per salutarmi ed io misi la mano davanti alla bocca per zittirlo, con un gesto di complicità.

“No fare casino” dissi “c’è mio cugino alla baracca”

“Ma chi?”

“Stecchino”

“Quello secchione?”

“Eh. Non ne ho altri di cugini. Dai che ci divertiamo” dissi “facciamo piano e lo chiudiamo dentro, così si caga addosso”

Ci avvicinammo di sottecchi, mentre Stefano infrangeva la promessa chiamando già il mio nome. Forse ci sentiva avvicinarsi. Controllai che la porta fosse ben appoggiata e feci scattare la maniglia con un rumore sordo, rugginoso. Era chiuso dentro.

Lo sentimmo chiamare, bussare, spingere. Io e il Ruvido ci pisciavamo sotto dalle risate, sforzandosi di farlo sottovoce. Ci arrampicammo sul fianco della baracca, come avevamo fatto io e Stecco meno di un’ora prima. Affacciati dalla botola sul soffitto prendemmo a canzonarlo. Vidi nei suoi occhi prima il sollievo e poi la rabbia. Prese a urlare e insultarci. Diceva un’esorbitante quantità di parolacce per un cuore di mamma. Ne disse di tutti i colori. Ruggero, ch’era su di giri e invasato mezzo cotto per qualche bevuta precedente, gli rispondeva a tono. Di tanto in tanto Stefano si appellava alla parentela, alla fratellanza dell’ora e mezza appena trascorsa insieme. Vederlo agitarsi là sotto, sempre più furioso e rosso in volto, a calciare l’immondizia che riempiva la baracca, mi sembrava divertente. Fatemi uscire, gridava, calciando e buttando a terra tutto quello che gli capitava. Era stato divertente, per qualche minuto.  La comicità nasca dalla tragedia, ma qualche volta è il contrario. Da lì a qualche anno non avrei trovato più divertenti le cose che facevano ridere tutti gli altri. Non avrei riso per le commedie al cinema, e pochi cabarettisti sarebbero riusciti a strapparmi più di qualche sorriso amaro. Ero un tipo divertente da ragazzino. Uno che faceva ridere i compagni, gli amici, le ragazze. A volte pure i grandi, e loro – gli adulti – avrebbero poi detto che quella fuga era stata la cosa che mi aveva fatto cambiare, che m’aveva reso più giudizioso e adulto, senz’avere idea di che cazzo parlavano. Da quel giorno, non più Renton o Begbie sarebbero stati i miei eroi, ma il Sick Boy singhiozzante davanti al cadavere di un neonato.

 

Io e Ruggero c’eravamo fumati con calma una sigaretta a metà, passandocela da bocca a bocca. Il Ruvido miscelava vodka e succo ace, travasando dalla bottiglia dell’uno a quella dell’altro, entrambe colme, sbrodandosi sulle dita per poi spompinarsele cercando di evitare lo spreco d’alcol. Gli ci volle un quarto d’ora per dare un po’ di colore alla vodka, e per velocizzare la miscelazione Ruggero si mise a fare gargarismi col succo di frutta, spruzzandolo sulla botola aperta a dissuadere il mio cuginetto a cercare un modo per arrampicarsi.

Non ero abituato alla vodka, mi salì velocissima facendomi ridere ad ogni cazzata uscita dalla bocca del Ruvido. Stefano piagnucolava e ci malediceva per il mancato incontro con la sua amata. Fece il nome di Chiara e Ruggero lo canzonò più forte. Sdongiato, gli dissi che Chiara era la sua ragazza, o una specie, e il Ruvido trovò la cosa divertente: Chiara doveva essere una lesbica per mettersi con una femminuccia come lui. Poi Ruggero ficcò i piedi nella botola, e vi scivolò dentro con la fluidità di chi non poteva chiamarsi ruvido. Mise le mani sulle spalle di mio cugino Stefano detto Spaventato E Stranito, mentre Ruggero gli passava le mani sulla faccia, stringendogli il collo facendolo girare di forza, buttandogli la faccia contro il mucchio d’immondizia sul tavolo della baracca. Gli torse un braccio dietro la schiena. Le urla di Stefano detto Straziato, amplificavano la nitidezza della scena offuscata ai miei occhi alcolizzati. Mi ci volle l’infinità di un minuto per capire che Ruggero gli aveva calato i pantaloni e stava calandosi i suoi. Ricordo ancora la mia risata unita alla sua, perché sembrava ancora divertente, ancora uno scherzo.

 

14.

Rimasi a guardare. Non riuscivo a pensare a niente. Non è che la mente si svuota, è che a volte gli occhi riempiono la testa d’immagini che hanno bisogno di tempo, pure anni, per riprendere forma e farsi parole. Non c’è spazio per niente che non sia il tuo spazio, quello che occupa il tuo corpo in quell’istante, ed è già troppo. E’ come stare sott’acqua o sotto gelatina, diventi carne bollita troppo fino a indurirsi, smembrata e costretta in un vischio che appanna la vista e tappa la bocca che non riesce a dire, urlare.

Guardavo mio cugino agitarsi sotto il corpo più massiccio del Ruvido. Le risa sopra e le grida sotto. Gambe che scalciavano e brandelli di pelle nuda e striata da graffi e sudore. La torsione innaturale dei corpi.

Ero rotolato lungo il tetto piano della baracca, giù verso la porta per fare prima, invece di calarmi cauto dal fianco coi mucchi di sporcizia, mattoni, legna marcia e rampicanti che facevano da scala alla parete verso la botola. Caddi a faccia in giù, davanti a quel portello di ferro rugginoso che avevo chiuso con le mie stesse mani, per scherzo. Dentro, qualcosa di vetro andava in pezzi, poi cori d’urla miste e suono di ferraglia. All’esterno, tentavo di schiodare il dannato maniglione del container-baracca.

Lo stridio dei ganci finalmente aperti liberò una spinta dall’interno, come lo sbuffo di una bestia che tratteneva il respiro. Un amalgama di tessuto e pelle m’investì e rotolò fuori, sulla terra e sull’erba, rantolante. Stecchino non più stecchino con quel corpo grassoccio e goffo, mezzo nudo e stravolto da un grido diverso da quello prima, soffocato come le voci maschie d’un coro domenicale. Espirava litri di disperazione dai polmoni e dallo stomaco che vomitava a vuoto.

Dentro, il Ruvido si torceva nella maglietta tinta d’un liquame color ruggine. Lattine, viti, chiodi, stracci, schegge di mattonelle, cacciaviti, arance. E carne umana immobilizzata e sussultante sopra un punteruolo arrugginito, un ferro che gli spuntava dalla schiena facendone una gobba ispida e viscida, brillante nella penombra della baracca. La sua bocca schiumava bava marrone, come un rigurgito di birra scura mista a sangue, ed era esattamente quello. Ruggero guardava verso di me ma non sembrava vedermi, come quando si fa una fotografia a qualcuno, e quello sta guardando da un’altra parte. Ruggero s’era rovesciato a pancia in su, cercando un respiro che non poteva più acchiappare. Se ne stava coi pantaloni calati e l’uccello al vento che iniziava a sgonfiarsi, unica parte ancora animata del suo corpo esanime, quando anche la schiuma sul mento s’era fermata.

Rimasi a fissarlo a lungo prima di voltarmi verso mio cugino. Stefano detto Strillone che respirava forte con la faccia sull’erba, espettorando in una confusione di odori e suoni che mi ingarbugliavano i sensi.

Quando riuscii ad avvicinarmi, Ste scattò ritorto su se stesso, gli occhi chiusi strizzati, il respiro furioso fra i denti stretti, una via di mezzo tra quelli d’un cane e d’un bambino che tiene duro per una puntura. Mi spinse via e corse più in là, inciampando a faccia in giù sull’erba alta irta di spine. Mi venne da ripensare a quella pasquetta di un’altra vita e un altro mondo, quando lui m’aveva spinto col culo sulle spine. Dovevo aiutarlo. Dovevo aiutare lui, mio cugino, non Ruggero, ché doveva stare bene, immobile e bizzarro col cazzo incorniciato tra pezzi di vetro e lattine di birra accartocciate. Non poteva essere morto. Doveva stare bene, solo stupito dalla foga del mio innocuo cugino, com’era successo a me mille anni prima.

Stavo chino con le mani sulle spalle di Stefano, incapace di dire qualcosa che fosse di conforto o d’accusa. Guardando indietro, alla porta socchiusa del container, non riuscivo a vedere il corpo di Ruggero ma il culo graffiato e nudo di Stefano. Non riuscivo a fare altro che tenergli la mano a metà tra la spalla e il collo. La sua maglietta stracciata e la schiena madida che rimbalzava nei singhiozzi d’un pianto e si attenuava, come se il respiro lo stesse abbandonando. Sembrava stesse morendo, e solo allora, terrorizzato dall’idea della morte, presi a scuoterlo per farlo tornare in sé.

Stefano tirò su i pantaloni e strisciò via dalle spine. Lo guardavo schiaffeggiarsi i piedi e le gambe per scacciare le formiche che l’assalivano. Alzò lo sguardo alla cosa che attendeva nella baracca e che non era più Ruggero.

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