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Stai leggendo: "Scappati di casa" di Quinto Moro

​

15.

“Lo buttiamo nel fiume?”

Le parole m’erano uscite dalla bocca senza permesso. La nausea mi salì forte a sentirle pronunciare, e le avevo dette io. La paura, strana e rivoltante, mi assaliva.

Anni più tardi, da grande, avrei sentito e sopportato quelle fregnacce da talk show sul lutto, su come si affronta e come ci si dovrebbe sentire, assistendo e partecipando allo squallore della gara masochistica a chi si sente più in colpa. I funerali sono sommesse ammucchiate, risse silenziose in cui qualcuno ha incassato un brutto colpo, duro e crudo allo stomaco e ai denti, e una pletora di wrestler impegnati nella pantomima della sofferenza. C’è la gara a chi si sente più in colpa, giusto per sentire d’aver avuto un qualche ruolo nell’esistenza del de cuius. Così era il mio senso di colpa mentre guardavo il cadavere ancora caldo di quel ch’era stato il mio amico Ruvido. Non ero stato io a farlo cadere su quella ferraglia rugginosa che gli aveva sfondato il petto da parte a parte. Non ero stato io a sentirmi schiacciato e quasi stuprato dal suo ammasso di carne sudaticcio e sporco. Ero quello scappato di casa. Quello che li aveva portati lì. Quello per cui Andrea era venuto a portare pane duro, quello per cui mio cugino era venuto a portare un walkman con una cassetta pirata dei Litfiba, quello per cui Ruggero aveva portato birra e patatine. Ero il Cristo ingrato e stronzo coi suoi tre Re Magi. Se non fossi scappato loro non sarebbero mai venuti al fiume. Se Ruggero non fosse cresciuto per strada alcolizzato dai dieci ai quindici anni. E se Stefano non fosse cresciuto mammone e femminuccia, Ruggero non gli avrebbe calato i pantaloni per fargli fare quello che pensava fosse il suo ruolo. E se non mi avessero sospeso. E se fossi tornato a casa la notte prima. E se non avessi chiuso mio cugino in un container sotto le risa e gli insulti del novello pederasta ch’era stato uno dei miei migliori amici. E se un sacco di cose.

La chiazza scura che cresceva sotto il Ruvido non era ombra ma sangue impastato a terriccio, e fissandola volevo prendermi la colpa e scapparne via e assolvermi.

“Lo lasciamo qui” disse Stefano.

Stavo per dire cose tipo: lo troveranno, ci accuseranno. Ma non ero stato io ad ucciderlo.  Anche se il peccato originale era il mio, avrebbero accusato lui, Stefano detto Stiletto di ferro arrugginito tra le scapole di Ruggero detto il Ruvido.

Lo buttiamo nel fiume? Quelle parole presero a bruciarmi la lingua, ad agitarmi rigurgiti di succhi gastrici su e giù per l’esofago, a farmi sentire orribile. Ruggero era mio amico. Non un grande amico ora che lo vedevo morto, ora che aveva cercato di farsi mio cugino. Fosse scomparso da un giorno all’altro, senza sapere come o perché, a me sarebbe mancato più che agli altri. Certo non sarebbe mancato ai suoi cosiddetti amici degli uliveti, che gli davano addosso per la famiglia derelitta e perché scroccava tutto quel che poteva dalle sigarette in su. Perché s’alcolizzava come nessuno alla sua età. Perché ruttava e provocava tutte le ragazze che gli passavano davanti, e di qualunque età. Perché stava giorni senza lavarsi e c’erano giorni in cui puzzava di cane bagnato.

“Torna a casa” disse Stefano. Io sarei scappato ancora più lontano, e stavolta per davvero. Lontano dal paesino lercio e la famiglia lercia. Dalle colpe lerce di quel pomeriggio.

“Torniamo a casa” ripeté Stefano. Era irriconoscibile, la faccia stravolta da troppo caldo o troppo freddo, con chiazze rosse nel pallore generale, i capelli disordinati e cadenti, gli occhi scavati e le labbra bianche. Sembrava lui il cadavere, ostinato a restare in piedi. Ruggero invece sembrava addormentato dopo una sbronza.

Stavo dicendo cose, non ricordo se a me stesso, a mio cugino o all’amico che non poteva più rispondermi. Stefano fissava pure lui il corpo, poi me, con sguardi simili a quelli di mio padre quand’era irritato dalla mia voce. Stefano mi venne vicino. Lo sguardo trasformato in una smorfia implorante. Era di nuovo il secchioncello mammone, quello che non si sarebbe mai difeso con troppa convinzione in una rissa, che non avrebbe risposto agli insulti, tirando dritto per la sua strada mentre incassava palline di carta e sputo sulla nuca e sorprese di catarro e moccio tra le pieghe di libri e quaderni. Mi venne da abbracciarlo e lui si lasciò abbracciare, immaginavo sarebbe esploso in un pianto dirotto invece si ricompose e s’allontanò a passo spedito. Ciascuno doveva tornare a casa per conto suo, senza essere visto in compagnia dell’altro.

 

16.

Meno di trenta minuti a piedi. Tanto m’ero allontanato da casa nella grande fuga. Mi avrebbero poi detto dei posti lontani dove mi avevano cercato. C’è qualcosa di naturale nel nascondersi vicino casa. Qualcosa che agli sbirri non deve entrare bene in testa se pure i superlatitanti vengono beccati dopo vent’anni nel loro vecchio quartiere. Se devi nasconderti lo fai nei posti che conosci meglio, dove sei cresciuto e conosci tutte le case abitate e disabitate, i cortili vuoti e quelli abitati da cani che sbraitano, i flussi di gente che si fa i cazzi suoi o non sa farseli. È dove puoi contare sulla complicità di chi è cresciuto con te dall’altro lato della strada, o sul vecchietto che t’ha visto crescere nelle fogne, e lui che sa – o immagina – quali bocconi di merda hai dovuto ingoiare. L’idea di casa va oltre le sue stesse mura, si estende sull’asfalto e i marciapiedi, i cancelli e portoncini dei vicini. Dove ti pizzica il naso per un sasso fuori posto. Dove ci metti un mese ad abituarti se il vicino ridipinge la facciata. È dove conosci i tempi, i movimenti, gli odori. Gli incroci e le stradine d’accesso, coi loro sensi unici e le macchine parcheggiate di giorno o quelle che vedi solo di notte. Tutte cose che non devi studiare, ti entrano nella pelle con gli odori del vicinato e nemmeno sai di saperle finché non ti servono.

Mi aspettavo macchine blu e lampeggianti davanti all’ingresso di casa come in un telefilm. Era invece un pomeriggio come tutti gli altri, con la Renault R5 bianca del vicino parcheggiata con due ruote sul nostro marciapiede. Sembrava lo facesse apposta per far incazzare mio padre, ché quel parcheggio doveva essere il nostro. Gli sputai sul vetro come regalo di bentornato.

La finestra della cucina era aperta col rumore della tv. Ricordo d’esser rimasto fermo sulla porta una manciata di minuti, immaginando tutte le urla, le sberle, le punizioni e la vergogna. C’era qualcosa di liberatorio nelle urla e negli schiaffi, quello spazio vuoto che mi si apriva in testa, senza suono, come una spaccatura col suo spazio nero che ti arriva addosso di colpo. Prendere uno schiaffo cancellava per un istante tutto quel che c’era stato prima. Lo shock del contatto rapido e duro che ti lascia addosso quella sensazione di sgomento, come svegliarsi senza sapere dove ti trovi.

Avevo chiuso gli occhi per bussare alla porta, avrei distinto con le orecchie gli strilli di mia madre o con la faccia le mani di mio padre. Non chiesero nemmeno chi è. La porta si era aperta nel rumore più forte della tv. Silenzio, poi un suono e un tocco nuovo, che mi prendeva per la testa e guaiva come un cane prostrato, amalgamandomi la testa e i capelli in un confuso abbraccio alla sua maglietta appiccicaticcia e sudata. Era mio padre che piangeva, soffocandomi contro il suo rigonfio stomaco da birra e le ruvide mani da factotum. Era un verso che non avevo mai sentito, un uggiolare affettuoso e disperato.

Poi arrivarono i guaiti di mia madre, le sue urla e i pianti, misti a insulti e poi gementi vezzeggiativi tra i singhiozzi. Ringraziamenti alla Madonna, a un Cristo da invocare senza nessun’altra fede che la necessità, e l’immeritato sollievo della grazia ricevuta.

Nemmeno uno schiaffo. Un’inaspettata infornata di carezze e rimproveri, poi il giro di telefonate, i lampeggianti degli sbirri fuori di casa, finalmente. Frasi fatte. Clemenza. Ed io stavo muto per una vergogna diversa da quella che loro immaginavano. Poi l’ora di cena, la tavola da sparecchiare, e l’istigazione alle punizioni da parte di mia madre che cadevano nel vuoto, mio e di mio padre, troppo stanchi per aggiungere altro a quel giorno.

Non c’era più traccia di quello ch’era successo alla baracca. Non in superficie. Non nei pensieri lucidi. Mi sembrava di tenere un cane stretto e schiacciato tra le coperte, girando la testa dall’altra parte per non sentirne la puzza, con la mano ficcata nella sua bocca pur di non farlo abbaiare, a costo di farmela scorticare.

Ricordo d’essermi alzato nel cuore della notte, col vento che ululava fuori dalla finestra. Una di quelle tempeste di vento che scoperchiano i tetti delle vecchie mansarde e tirano giù alberi e pali della luce. Ero sudato e m’ero reso conto d’essermi andato a coricare senza una doccia. Non mi lavavo da tre giorni e puzzavo da fare schifo. Avevo la maglietta sporca e le mutande zuppe. Mi spogliai gettando i vestiti in un angolo della stanza. Spingevo le fantasie verso lo sfogo di una sega, ma il ritratto del culo nudo di mio cugino mi saltava agli occhi al posto di quella vacca ripetente della 3°B su cui tutti facevamo battute sconce e fantasie. Al posto dei suoi boccoli crespi e unticci, del trucco da battona, mi si gonfiavano in testa gli zigomi rossi e gonfi di mio cugino, striati di lacrime e graffi. I respiri furiosi mentre si dibatteva, le urla da mattatoio e poi il sangue. Avevo sentito soltanto i rumori mentre cercavo di aprire la porta, ma la scena mi si era scolpita in mente con quella chiarezza che appartiene solo alla fantasia. Vedevo Ruggero girarsi in una piroetta al rallentatore, inciampando a lungo prima di cadere a terra, come un soldatino che muore in una recita d’asilo. O un amico che si porta le mani al petto dopo che gli hai sparato con le dita urlando bang! nel cortile dell’asilo, e le suore che ti sgridano da lontano perché non si gioca ad ammazzarsi a vicenda. Ma puoi cavartela se sei stato tu a piegare il pollice e sparare, puoi fuggire ai neri sudari che s’avvicinano gonfi d’indignazione, ché ti tirano su e ti sculacciano solo se eri tu a fare il morto, perché non si gioca a farsi ammazzare e non ci si deve sporcare il grembiule. Così gli assassini la fanno franca e il morto si prende tutte le colpe.

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