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Stai leggendo: "Scappati di casa" di Quinto Moro

​

7.

La strada del fiume era una sterrata affogata tra le canne e i cespugli. Non si sentivano altri rumori che quelli del fiume e delle foglie. Arrivato alla baracca ero di buonumore, anche se i morsi della fame che cominciavano a farsi sentire e non erano ancora le due.

La baracca era un prefabbricato di lamiera, un container verniciato di bianco con le chiazze di ruggine che rosicchiavano la tinteggiatura mostrando una colorazione più vecchia, d’un rosso più vivo. Sulla parete in fondo erano state aperte due finestrelle e sul soffitto una botola. Dentro c’erano attrezzi rugginosi, un tavolo ricavato da scarti di falegnameria e due scaffali di lamiera. Le sedie erano uguali a quelle delle scuola, e c’era pure uno dei vecchi banchi, quelli con la buccia verde tutto rigata e bucherellata. In fondo stava un materasso di gommapiuma. Secchi pieni di lattine di birra vuote e sbiadite, bottiglie di vetro, immondizia e ragnatele completavano l’arredamento. Eppure non mi sembrava più terribile di casa mia. Nella mia cameretta avevo una branda senza spalliera, un cassettone di legno tarlato con due cassetti bloccati, una finestra di legno che fischiava e spifferava d’inverno. Sul pavimento c’erano tre buchi per altrettante mattonelle saltate. Gli strati di tinta venuti giù dalle pareti disegnavano cartine geografiche di colori più scuri e vecchi. Certe volte la porta della camera strisciava sul pavimento gonfiato dall’umidità, così restava socchiusa per quei dieci centimetri che lasciavano entrare la puzza dei resti della cena, i rumori della tv troppo alta o delle ciance dei miei, togliendomi il gusto d’una sega in santa pace.

La baracca era sorprendentemente priva di odori. Non c’era quel puzzo di cane bagnato che a volte sentivo in casa, quando mia madre se ne stava tutto il giorno a inzuppare il divano di finta pelle col suo sudore e l’aroma di sigarette al mentolo, il cui puzzo così impastato somigliava ad erba bruciata mista a merda da di cavallo.

Sì, la baracca era sporca e rugginosa, coperta di ragnatele e polvere, coi mucchietti di terra e foglie secche agli angoli del pavimento. Ma non aveva l’ostilità d’una casa lercia abitata da personaggi grotteschi e rabbiosi. Era un posto abbandonato, pregno d’una tranquillità e silenzio che mettevano in secondo piano la bruttura generale. Feci un inventario di quel che avevo e che mi serviva. C’era abbondanza di secchi di ferro e plastica, cassette per la frutta, fil di ferro e cacciaviti, un martello. Il letto di gommapiuma era abbastanza comodo. Il cuscino era una coperta arrotolata, che avrei potuto usare in un modo o nell’altro, ma almeno non puzzava e non c’erano tracce di merda di topo, altra cosa che faceva guadagnar punti alla baracca rispetto a casa mia.

Il pavimento era coperto da uno strato di fango secco e spaccato come un mosaico di piastrelle marroni. In basso, le pareti erano striate dalle tracce degli allagamenti invernali. Il livello dell’acqua non doveva salire più di dieci o venti centimetri, ma non poteva essere un buon rifugio per l’inverno.

 

Il ricordo di quelle prime ore alla baracca è riemerso più nitido negli anni, con le sue fantasie svanite al finire di quella storia. Avevo quasi scordato come e perché ero finito là. Sulle ragioni della sospensione, così futili, non avevo rimuginato un solo minuto. Né mi ossessionava l’ira funesta di mio padre se fossi tornato a casa, molla buona per farmi scattare e nulla più. Il senso d’avventura, così vivido nelle prime ore, oscurava tutto il resto.

Andrea si fece vivo a pomeriggio inoltrato, con un panino alla mortadella e una coca già calda per il viaggio. Passammo le ore a chiacchierare di tette e sport, e di tutti i cocktail che dovevo ancora provare.

Ce ne stavamo sdraiati sull’erba, con la testa rivolta al fiume dietro di noi e il sole in faccia.

“Ti cagherai sotto a dormire qui stanotte, vedrai che prima di mezzanotte torni a casa”

“Non dire stronzate o ti cago in testa”

“Io non resto a farti compagnia” disse lui.

“Chi te l’ha chiesto” ringhiai “a casa non ci torno”

Mi venne ben chiara in mente la scena, io che bussavo alla porta e mio padre che mi bussava sulla faccia. Allora mia madre sarebbe apparsa con la bocca sporca di briciole, gridando di non picchiarmi. Se invece fosse stata lei ad aprirmi, avrebbe ringhiato aizzando l’ira di mio padre perché mi desse la giusta punizione.

No, non ci sarei tornato a casa.

“Si che ci torni, tanto quanto puoi resistere? Non ti posso mica portare il pranzo tutti i giorni”

“E chi te l’ha chiesto”

Pesci, arance, fichi, carciofi. Mi vedevo circondato da ogni ben di Dio, tranne uno. “Ce l’hai una sigaretta?”

Andrea rise mentre me ne allungava una.

“Si può bere l’acqua del fiume?” gli chiesi.

“Ti fa venire la cagarella e muori” rispose lui. Mio padre mi aveva detto qualcosa del genere, o forse m’ero inventato un ricordo che confermasse quell’idea. Morivo di sete ma non l’avrei mai detto. La coca m’aveva lasciato quel retrogusto dolciastro e ci voleva una sigaretta per spegnerlo.

Andrea prese la strada di casa, per un tratto l’accompagnai e s’era convinto che pure io stessi tornando. Il sole iniziava a calare, restavano una o due ore di luce ma non avevo paura. Avevo già dormito fuori di casa, accucciato sulle panchine dell’anfiteatro dopo il concerto della festa del paese, e una volta a petto nudo sopra la tettoia del cortile perché l’odore di spinello non riempisse la stanza e s’attaccasse ai vestiti. Alla baracca avevo un tetto e un letto.

Ricordo d’essermi fermato all’incrocio, davanti al cartello di stop rugginoso e sbiadito, come fosse stato messo lì per me. Andrea andò avanti, fermandosi due volte per farsi raggiungere. Lo convinsi ad allungare il viaggio di ritorno passando a lato del canale. Accettò.

La muraglia dei cipressi aveva già oscurato il sole che illuminava scorci di paese in lontananza. Il freddo che mi rizzava i peli sulle braccia – stavo a maniche corte, come sempre – e la vista del ponticello sul canale mi tirava dentro al ricordo di un altro freddo. Cominciai a raccontare, un po’ per esorcizzare il marasma che mi riempiva la testa, un po’ perché il ricordo m’era piombato addosso vivido.

 

8.

“Ci correvo con la bici, in fondo al canale. Quando ero piccolo avevo un cross, aveva tre marce e le gomme chiodate, gli ammortizzatori sulla forcella e sotto il culo, minchia troppo veloce.”

Minchia era il superlativo per eccellenza. La combinazione minchia troppo era una garanzia di verità superiore al giuramento sulla testa di tua madre, che nel mio caso non valeva granché. All’inizio del racconto mi sentivo piccolo e infantile, ma con Andrea sapevo di potermi fidare, era più grande e avrebbe potuto zittirmi con una parola facendomi sentire un bamboccio, ma non lo faceva mai.

Allora avevo un cane che si chiamava Trunks. Nessuno si sarebbe mai sognato di criticare la scelta del nome, nemmeno i ragazzi più grandi in piena sbronza agli uliveti. Dragon Ball era il nostro Vangelo, Goku un Gesù Cristo col senso dell’umorismo e Trunks un San Giovanni Apostolo dall’aura potentissima. Trunks aveva visto l’apocalisse, aveva ammazzato Freezer in due minuti e aveva per mamma la regina delle milf. Trunks era un figo, ed eravamo tutti concordi che avrebbe dovuto uccidere Freezer ficcandogli quella spada su per il culo. Mio cugino Stefano detto Stecco, aveva fatto un intero album di disegni con Trunks che apriva Freezer in due a partire dal culo. Cosa che poi gli era toccata l’indignazione delle maestre e lo sputtanamento per il sospetto di tendenze omosessuali, se gli piaceva disegnare ragazzotti muscolosi che penetravano con oggetti contundenti tizi pelati altrettanto muscolosi, con grintose espressioni facciali.

“Trunks era un bastardino bianco e nero, mio padre l’aveva trovato in campagna proprio lì, vicino al canale, mezzo morto e cieco da un occhio, mischino. Aveva pure un orecchio storpio, per come l’avevano buttato in strada. Aveva la parte sinistra della testa un po’ storta, forse l’avevano buttato dalla macchina senza fermarsi – in effetti somigliava più a Freezer dopo la battaglia, che al figaccione Trunks. Aveva la pelle dura perché poi si era ripreso ed era cresciuto, e sembrava una specie di incrocio con un labrador. La testa era da labrador, il corpo e le zampe da bulldog. Troppo storpio, però era bravo.

“Da grande non si fidava a venire in questa strada. Forse si ricordava che c’era quasi morto da piccolo. Quando uscivo in bicicletta mi seguiva. Venivamo a fare le gare in fondo al canale, però Trunks si avvicinava, infatti mi incazzavo e lo mandavo via oppure lo prendevo per il collo e lo tiravo. Ci avevo messo un casino a convincerlo a seguirmi. C’era riuscito Ruggero la prima volta, l’aveva tirato su per il collare, così che poteva camminare solo sulle zampe di dietro ed era costretto a seguirlo. Me l’aveva quasi strangolato quel giorno, poi avevamo imparato ad attirarlo con un pezzo di pane o di formaggio.

“Un giorno stavamo facendo le corse con le bici in fondo al canale, verso ferragosto. Non aveva neanche piovuto, quindi nessuno se lo aspettava. A un certo punto sentiamo questo rumore. Anzi non avevamo sentito un cazzo, l’abbiamo solo vista: questa cazzo di cosa verde gigante che ci veniva in faccia. Era più o meno la stessa ora di adesso, tipo le otto di sera, ce ne stavamo andando, non mi ricordo chi c’era. Un paio erano già su in strada ma io ero ancora nel canale con la bici. C’erano Bernardo detto Bubbone col fratello, Carlo Cannabis e un altro che non conoscevo. Abbiamo fatto in tempo a salire per un niente, Bubbone bastardo è riuscito a salvarsi pure la bici, io invece non ho fatto in tempo a riprenderla. Sono salito scivolando, mi stavo cagando addosso, mi sono visto l’acqua nei piedi e si è portata via tutto. Si è portata via la bici, e si è portata via Trunks che era lì con me, vicino alla bici, quando è arrivata l’acqua. Acqua e un mucchio di merda, immondezza e rami. L’onda che arriva quando spurga il fiume è tutto fango e merda. Non ho neanche capito subito che si era presa Trunks. Ricordo che ho sentito i versi, ma ci sono arrivato dopo, perché c’erano le grida di tutti che ci dicevano di risalire.”

Andrea era rimasto in silenzio almeno un minuto prima di dire l’unica cosa che poteva dire. “Balordo” disse, l’esclamazione naturale in risposta ad ogni minchia troppo degno di nota.

“E tuo padre? È quella la volta che ti ha buttato giù i denti?”

Non era una frase fatta. Mio padre mi aveva davvero buttato giù i denti. I molari. Gli ultimi tre molari da latte. Mi aveva dato un paio di sberle che mi avevano fatto gonfiare la bocca, dal di dentro, e l’indomani avevo sputato tre denti tutti insieme. A raccontarlo faceva più effetto di com’era stato in realtà. Due di quei molari mi si muovevano già, ma sentirsi pulsare le gengive come se dovessero esploderti in palloncini di sangue non è qualcosa che ti dimentichi. Specie se poi ti svegli la mattina presto con qualcosa che ti danza in bocca, sassolini viscidi, avvolti in uno vischio di bava e sangue.

E comunque no, non era stata quella volta. A mio padre non avevo detto niente del canale. Iniziò a chiedermi di Trunks qualche giorno più tardi e mi dava fastidio il modo in cui lo faceva. Non lo capiva, il nome che gli avevo dato. Non gli piaceva chiamarlo Trunks, così mi chiedeva solo “dov’è il cane?”

Gli dissi che non lo sapevo. Mia madre non mancò di dire che l’avevo sciolto e portato io a passeggio l’ultima volta. Giurai un paio di bugie sull’averlo riportato a casa. Mi ci vollero un paio di giorni per rendermi conto quanto mio padre ci tenesse a quel cane. A lui ci vollero un paio di settimane per rassegnarsi alla fuga del cane. Della bicicletta seppe solo mesi più tardi. Gli dissi che l’avevo persa. E lui perse la testa quando dissi che avevo perso la bici, perché come cazzo si fa a perdere una bici? Fece il suo numero migliore, tirandomi su per il colletto, gridandomi e sputazzandomi in piena faccia.

“Balordo” disse Andrea, di nuovo. Poi ci salutammo alla nostra maniera, imitando il gesto di Willy e Jazz, il cinque alto e il gesto del pugno indietro, facendo il suono di una birra appena stappata: tump-tchiszh!

Passai la notte in bianco, sognando i guaiti di Trunks che affogava. Sveglio nel cuore della notte, fantasticavo sulle liti tra i miei genitori che si accusavano su chi aveva più colpa della mia fuga.

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