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Stai leggendo: "Una storia di scheletri e giganti" di Quinto Moro

 

3. Andata e ritorno

 

Il tempo passava. I segni sul muro dicevano che Ninni era diventato più grande, ma si sentiva sempre minuscolo al cospetto di Pastrocchio, che aveva preso l’abitudine di mordicchiarlo piano, senza strappar via la carne, come a misurarne la succulenza, lo spessore attorno alle ossa. Ninni aveva paura di vedersi staccare di netto ora un braccio ora una gamba, ma Pastrocchio era un esperto, e si limitava a lasciare il segno dei denti, come promemoria per i punti migliori da cui staccare.

Pastrocchio sembrava rimpicciolito in altezza ma aveva guadagnato centimetri al girovita benché sembrasse deciso a far dieta, aspettando il momento giusto per consumare Ninni. Di Marmaglia intatti non restava altro che lo scheletro. Marmaglia non aveva più pelle. Le ossa si tenevano insieme a stento. Non aveva più neanche gli occhi e Ninni doveva far da guida come un cane per ciechi. Pastrocchio le aveva mangiato pure il cervello e la lingua anche se, per mancanza di forze, Marmaglia aveva smesso di parlare da tempo. Senza più polmoni, senza corde vocali, senza labbra, si esprimeva a gesti. Per un po’ era riuscita a fischiare l’aria tra i denti e il teschio, poi neanche quello. Le restava solo un pezzetto di cuore avvizzito, ancorato nella parte più interna del torace. Batteva una volta ogni tanto, per provare che nel corpo c’era ancora vita, o era soltanto un movimento riflesso, di nostalgia e abitudine del muscolo. Quando pulsava, lasciava cadere una goccia residua a macchiare le ossa, e le rianimava un poco. Quel pezzetto di cuore, Marmaglia lo difendeva d’istinto dalla fame del gigante, che comunque aveva smesso di accanirsi visto che non c’era più niente di appetitoso in quel corpo, tranne forse il midollo nascosto tra le ossa. E il cuore, che quando batteva dava l’illusione d’essere ancora succulento, almeno quanto una prugna. Una notte, nella disperata difesa da un ultimo assalto del gigante, Marmaglia s’era infilata le braccia sotto il costato, incastrandole tra le costole. Nel tentativo di afferrare il cuore Pastrocchio le aveva spezzato un braccio. L’osso scheggiato lo ferì e lui si lamentò tutta la notte, maledicendo l’universo intero.

La stessa notte, Ninni cercò di rimettere insieme il braccio rotto e si accovacciò sul ventre vuoto di Marmaglia per proteggere l’accesso al cuore. Continuò a farlo per qualche giorno, ma non c’era più niente a tenere insieme Marmaglia. Non si alzava più. Non camminava più. Alla fine, il peso dell’abbraccio di Ninni la fece cedere, e Ninni si svegliò sopra un mucchio d’ossa. Ninni era diventato troppo pesante e sentì ch’era morta per colpa sua. Pianse, e nei polmoni gonfiati dal pianto, sentì il corpo espandersi come un mantice. Più si gonfiava e più l’aria della caverna lo soffocava. Il puzzo in cui era cresciuto era diventato insostenibile per polmoni così capaci e spaziosi, e li sgonfiò a suon d’urla che svegliarono Pastrocchio. Il gigante prima lo rimproverò, poi lo picchiò e quando vide il mucchio d’ossa e capì perché piangeva, andò ad aprire la caverna.

Andasse a frignare al freddo, a ululare coi cani, ché lui voleva dormire.

Vista da fuori, la caverna era una casa come tutte le altre e sembrava impossibile potesse viverci un gigante. L’idea che dalle case intorno potessero uscire altrettanti giganti gettò Ninni nello sconforto, facendolo urlare più forte. Si aprì una finestra e un uomo lo coprì d’insulti. Un uomo a grandezza normale. Bastò la sola vista a farlo tacere, il tempo di far spurgare i polmoni dall’aria lercia che l’impregnava, poi riprese a gridare, non scomposto ma con calma, all’uscio della sua caverna.

“Pastrocchio!” gridava “Pastrocchio!”

Quando Pastrocchio uscì per coprirlo pure lui di insulti, Ninni vide che era sì un gigante, ma meno di prima. Poi fece un passo indietro, e vide che rimpiccioliva ancora. E ancora, di passo in passo, finché tutto si rimpicciolì abbastanza da non veder più Pastrocchio né la sua caverna.

 

Quando Ninni tornò a casa, Pastrocchio ci viveva ancora. Era il 1993. Ninni indossava un bomber con la serigrafia dell’azienda di costruzioni in cui aveva lavorato nell’ultimo anno. L’avevano appena licenziato. Non per sue mancanze. Last in first out. Così aveva detto il capocantiere. A qualcuno doveva toccare, e lui era l’ultimo arrivato. Ma non era in pena. Aveva conquistato la fama di bravo ragazzo, un po’ tardo ma rispettoso e puntuale. Di lui s’era parlato bene tra gli amici dei colleghi, e qualcuno osava fargli sperare in un altro lavoro a breve. Ninni poteva cavarsela, aveva messo qualche soldo da parte per i momenti difficili. Quei risparmi potevano bastargli per un anno intero e forse più. Tirava avanti a pane, uova e patate. Costavano poco, riempivano la pancia, e non gli andavano mai a noia. Con olio, sale e qualche spezia, si poteva dar sapore a tutto. Il lavoro l’aveva irrobustito ma il fisico era asciutto. La muscolatura non si intuiva dagli indumenti abbondanti, di seconda mano.

A Ninni non dispiaceva avere un po’ di tempo libero. Non aveva intenzione di oziare. C’erano delle cose da fare, perciò tornava alla casa paterna. Non per chiedere aiuto. Non per viverci. La realtà e i ricordi erano scollati nella stortura dell’infanzia, ed era tornato per imparare la forma e i confini della sua vecchia casa. Si sentì meno stupido ad averla considerata una caverna, poiché era evidente non fosse progettata come abitazione, più simile a un box auto. Lo diceva la forma e l’altezza a cui stavano le uniche due finestrelle basculanti, schiacciate e alte trenta centimetri per sessanta di lunghezza.

Per una settimana, mentre Pastrocchio era fuori casa, Ninni studiava il vecchio quartiere. Non solo le misure della casa, di porte e finestre, ma anche le facce che passavano su un lato e l’altro dei marciapiedi. Molte case erano abbandonate, coi cartelli vendesi sbiaditi e consumati. I cani randagi passeggiavano ingaggiando duetti d’abbai e duelli a distanza con quelli rinchiusi nei cortili delle case abitate.

Ninni faceva avanti e indietro a notte tarda, trasportando a braccia il materiale necessario all’impresa, elaborando lentamente, e correggendo di giorno in giorno le criticità del trasporto. Ninni era venuto su tardo, ma non stupido. Proprio perché il quartiere e le strade vicine non erano tanto animate che un passante poteva spiccare agli occhi, specie se girava con un bastino carico di mattoni anche se, in una zona di ruderi, aveva senso.

L’ora più deserta, in cui tutte le luci si spegnevano e le strade zittivano, era tra l’una e le quattro del mattino. Oltre alla tranquillità delle tenebre, muoversi la notte serviva ad abituare gli occhi all’oscurità e invertire i ritmi circadiani, così da non arrivare stanco al giorno stabilito per il lavoro.

Lungo la strada, i lampioni spenti gli restituivano quell’abbraccio di oscurità che lo riportava al passato, che restava oscuro, spoglio da forme e contorni, ma si chiarificava nello scopo, nella necessità suo compito.

Ninni aveva scelto uno spiazzo dietro una casupola abbandonata, con l’erba altissima a nascondere i mattoni e le tavelle. L’erba zittiva e suoni, lasciandolo libero di sperimentare le forme, facendo prove di composizione, studiando l’incastro dei mattoni perché non ci fossero irregolarità e non dovesse tagliarli o romperli. La rogna peggiore era l’umidità delle ore notturne e la rugiada mattutina, nemiche acerrime della malta. Aveva speso il doppio per acquistare i sacchetti più piccoli, da cinque o dieci chilogrammi, anziché da trenta e cinquanta. Ogni sacchetto andava avvolto con cura nei teli di plastica per evitare l’indurimento della malta coi conseguenti grumi, e la scarsa qualità della resa e del fissaggio. Il trasporto della sabbia era stato assai più massacrante, poiché non ne aveva trovata in sacchi adatti al trasporto a spalla. Era stato costretto a farla scaricare in una piazzola lungo la strada, e portarla al cantiere un paiolo alla volta.

Non aveva mai sgobbato tanto. Arrivava all’alba sfinito e, per non far vedere la sua faccia di giorno, dormiva rannicchiato nella vasca da bagno della casa abbandonata, avvolto in un sacco a pelo. Teneva il coltello a serramanico stretto sul petto, ché la casetta era stata certo meta di barboni e tossici nel corso degli anni, anche se non c’erano tracce di attività recente. Non c’era nemmeno puzza, se non di muffa e polvere. Il tempo aveva cancellato ogni olezzo, e pure il bagno era incredibilmente inodore.

Ninni scelse un sabato sera per mettersi al lavoro. Per primo tagliò i fili del telefono, anche se non era sicuro che la linea fosse attiva. Per la corrente invece avrebbe aspettato il mattino, nel caso Pastrocchio si fosse svegliato cercando di accendere la luce. Si era esercitato a lavorare in silenzio, col fiato sospeso e l’orecchio teso ai rumori della caverna. Impastò la malta e la sabbia e fece avanti e indietro per tutta la notte, a portare mattoni da piazzare docilmente a chiudere la porta d’ingresso prima e i finestrini sul retro poi.

Pur assodato che Pastrocchio non era più un gigante, Ninni preferì prendersi il sicuro, piazzando i mattoni in orizzontale per ispessire il muro, con la malta grassa perché asciugasse prima, e applicando tavelle e tavelloni a meglio sigillare il lavoro. Alle prime luci dell’alba aveva pure dato una mano d’intonaco, e solo allora si curò di staccare la corrente e, da ultimo, chiudere la saracinesca dell’acqua. E piazzare, un po’ sbilenco su di un paletto improvvisato, un cartello “Vendesi” con un numero di telefono inventato.

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