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Stai leggendo: "Lala Land" di Quinto Moro

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Ore 18:00

 

Lala andò a sfogarsi con Sandy, la picchiò e la coprì d’insulti, scagliandola da una parte all’altra della stanza, poi si riebbe dallo sconforto e abbracciò la bambola chiedendole scusa. Sandy cercò di consolarla come meglio poteva, facendo lunghi giri di parole e dicendone alcune molto sagge. Anche la mamma glielo diceva sempre, quando Lala faceva o diceva qualcosa di sbagliato: cosa direbbe Sandy? Credi che si comporterebbe così? Come se la Sandy di plastica fosse più sveglia della Lala di carne e ossa. E a quanto stava succedendo, c’era proprio da crederlo.

Lala fissò l’orologio sulla parete del corridoio, la lancetta dei secondi non era mai stata tanto rumorosa. Allo scocco preciso delle sei ecco un altro scampanellio. Lala trasalì e trattenne il respiro, teneva le mani giunte all’altezza dello stomaco ma non come in preghiera, piuttosto come dovesse tamponare una ferita, trattenere un dolore che altrimenti l’avrebbe fatta piangere ancora.

Il campanello continuava a strillare, rapido e insistente, rivelando la voce della vicina ugualmente stridula e petulante. Chiedeva zucchero. Zollette-di-zucchero-per-favore, ché le aveva finite e il thè le si stava freddando e ne aveva un gran bisogno. Non poteva permettersi un calo di zuccheri. Non poteva permettersi neanche le zollette. Quella tirchia raggrinzita, puzzolente di formaldeide come un cadavere strisciato fuori dal laboratorio del Dottor Frankenstin.

Zollette di zucchero. La maniglia della porta ricordava il muso del postino, coi suoi denti gialli e incrostati, schiariti dalla sabbia zuccherina sminuzzata dai suoi incisivi lerci e storti. Non c’erano più zollette, non c’era più niente di dolce in casa. Lala rispose a quella voce insistente con tono ugualmente stridulo, e più selvaggio, come volesse scagliare una maledizione.

Lala non conosceva molti insulti, parolacce ne aveva sentite molte ma non gliene venivano in mente. Bastò ripeterne due, sempre le stesse, per scacciare la strega che infestava il pianerottolo. E quella se ne andò oltraggiata, lamentandosi tra sé e minacciando Lala di gravi conseguenze.

“All’inferno” disse Lala tra le labbra, e lo ripeté ancora e ancora. “All’inferno. All’inferno.”

Le sembrava di sentirlo, il caldo dell’inferno. A gridare insulti alla vecchia s’era tutta sudata ed alle piante dei piedi cresceva un formicolio, il solletico d’un satanasso pronto ad afferrarle la caviglia per trascinarla giù, nella voragine sul pavimento che si apriva dalle ombre sempre più lunghe proiettate dalla finestra.

Lala sapeva di meritarselo, l’inferno. Tante volte aveva desiderato che i fratelli tacessero, e scomparissero per un’ora, un giorno, un mese o per sempre. Quando Timmy la svegliava nel cuore della notte e voleva vivere in un’altra casa, ma lei era nata prima, che se ne andasse lui altrove! Magari da quelle zie zitelle a cui tanto piaceva, e che non avevano mai dovuto occuparsene.

Non aveva mai capito perché i genitori avessero fatto così tanti figli se non volevano più stare con loro, sparendo per ore alla maniera di suo padre, o la mamma che si lamentava di continuo, come se quei bambini glieli avessero appioppati a forza, dispendiosi gioielli che s’erano rivelati bigiotteria. Gioie scadenti, da lasciare in una stanza con Lala a far da guardia, e il valore di lei stessa ridotto a quello d’un anello da catenaccio per la porta di casa, non abbastanza robusto per tener lontani i ladri.

Tony s’era rimesso a piangere ma Lala non si alzò, per la prima volta quel pianto non era fastidioso, significava che almeno uno dei fratelli le era rimasto. Smise di piangere come aveva iniziato e solo allora Lala andò a guardare che non fosse svanito nel nulla. Lo prese in braccio e pesava una tonnellata. Le braccia le si erano svuotate d’ogni forza e si trascinò fino al bagno, cambiò il fratello e lo pulì con gesti lenti, automatici. Preparò un biberon di latte col biscotto sbriciolato e un cucchiaino di miele. Voleva coccolarlo, per una volta.

 

Ore 19:00

 

Tony dormiva. Anche Lala avrebbe voluto. Era stanchissima, le facevano male gli occhi. L’orologio sembrava avercela con lei, andando più lento del solito. Il papà avrebbe dovuto rientrare da un momento all’altro, per farsi trovare in casa quando rincasava la mamma. Lala, seduta sul suo sgabello in mezzo al corridoio, stava con l’orecchio teso, aspettando di sentire i passi del papà sul pianerottolo e la chiave nella toppa. Sette e cinque. Sette e dieci. Nulla.

Poi dei passi, e la porta: toc, toc, toc. Lala fece un sospiro di sollievo, poi le si raggelò il sangue, perché i genitori non bussavano. Un altro intruso dunque. Ma cascasse il mondo Lala non avrebbe più aperto né risposto a nessuno. Si chiuse in camera sua tappandosi le orecchie con le mani.

Un silenzio lungo cinque, dieci minuti, poi s’udì il chiavistello scattare e la porta aprirsi.

Lala voleva correre incontro ai genitori, ma cos’avrebbe detto della scomparsa dei due fratelli? Era tutta colpa sua. Sentì i passi avvicinarsi, pesanti come quelli del papà. Avrebbe creduto al suo racconto? L’avrebbe picchiata? Lala si nascose sotto il letto, appena in tempo per non esser vista. Se i genitori avessero creduto che anche lei era stata rapita non l’avrebbero incolpata di nulla.

C’era una merendina nascosta sotto il materasso, Lala la conservava per le emergenze ed era tutta spiaccicata ma non era il caso di fare la schizzinosa, l’importante era non morire di fame, almeno fino all’indomani. Nel frattempo i suoi fratelli sarebbero stati trovati, o così sperava, e riapparendo per ultima Lala contava in un’accoglienza di baci e abbracci, magari senza troppe domande.

Però strano che il papà rientrando non chiamasse a gran voce. Lala uscì da sotto il letto, abbassò pianissimo la maniglia e s’affacciò: in fondo al corridoio il portoncino era rimasto aperto. Sgusciò con passo felpato tra le stanze e vide che il papà non c’era. Niente giacca buttata sul divano, niente tintinnio di chiavi sul posacenere, niente rubinetto aperto nel bagno.

Lala ebbe un brivido e una fitta al petto, aveva preso un gran respiro e non riusciva più a fare uscire quell’aria raggelata nei polmoni. Il letto di Tony era sfatto e di lui nessuna traccia. Corse per la casa da una stanza all’altra, incapace perfino di gridare il nome dell’ultimo fratello. Il volto madido e rosso, le ginocchia molli pronte a piegarsi.

Lala s’aggrappò al suo sgabello ma non riuscì a sedersi. L’abbracciò posandoci la testa e fissando il suo nome a metà: Lala Land, la bambina che perse tre fratelli in un pomeriggio. Gattonò a quattro zampe fino a Sandy, le accarezzò un poco i capelli e se la strinse alla guancia, così che la piccola bocca della bambola potesse parlarle direttamente all’orecchio. Ma Sandy non aveva niente da dire, e Lala non sapeva se fosse un silenzio di sgomento o un severo giudizio. Quell’abbraccio le restituì comunque un po’ di forza, abbastanza per tornare a sedere al centro del corridoio, fissando il portoncino aperto, incapace di pensare a qualunque cosa. E aspettò.

 

Il pavimento del corridoio si fece giallastro, il sole si affacciava a tratteggiare più scura la sua ombra lunga, con la testa mozzata sulla soglia di casa.

Un rumore di passi su per le scale, una porta che scattava e si apriva sprigionando gli strepiti d’una vecchia che si lamentava del bordello infernale che per tutto il pomeriggio aveva animato le scale, accusando qualcuno di aver cresciuto malamente i suoi figli. Ci fu uno scambio di strilli e si sentì una porta sbattere. Quando Lala vide la sagoma comparire sulla soglia non riuscì nemmeno ad alzare lo sguardo, mentre addosso le si riversavano gli strilli irosi della mamma irritata da quello che, a quanto appreso dalla vicina, era stato il suo pessimo comportamento nel pomeriggio. La mamma avanzò a grandi passi verso Lala che nemmeno sentì lo schiaffo, notò soltanto che il corridoio s’era fatto storto, come urtato da un oggetto lanciato a gran velocità, ma era il suo collo ad essersi piegato.

“E poi perché la porta è aperta?” gridò la mamma. Erano le prime parole che Lala sentiva chiaramente, senza quel velo d’ovatta che le riempiva le orecchie da quando s’era seduta sullo sgabello.

Le scarpe del papà fecero capolino all’ingresso, ed entrò con passo incerto come ogni volta in cui sentiva la mamma urlare, e stava urlando perché non trovava i suoi maschietti. Chiamava Timmy, Terry e Tony. Li chiamava nelle orecchie di Lala e il papà, dopo aver cercato di mettere silenzio, s’era messo anche lui ad urlare, a stringere e scuotere Lala per le braccia, come un salvadanaio da cui cavare una moneta che non vuole uscire. Ed era così che Lala si sentiva, un involucro di terracotta pronto a spaccarsi sotto il colpo di un’altra mano, se quelle mani e braccia, come smaniose di colpirla tutte insieme, non si fossero intrecciate tra loro, litigando.

Lala non distingueva i genitori uno dall’altro, ne fissava le ombre schiacciate sul muro, agitate come una piovra impazzita. La mamma piangeva adesso, continuando a chiamare i suoi maschietti scomparsi.

 

Ore 20:00

 

I genitori sapevano. L’avevano saputo dunque. Il papà stava grugnendo al telefono parlando di postini e preti. Era stata Lala a dirglielo, ma non se n’era accorta subito, le lacrime erano sgorgate senza singhiozzi dopo aver udito la sua stessa voce confessare gli eventi del pomeriggio.

Colpevole. Stupida. Cercò di chiedere scusa, ma la sua voce non si levava abbastanza alta, e i genitori non l’ascoltavano più, non la guardavano nemmeno. Stavano litigando coi vicini adesso, che volevano silenzio.

Lala desiderò di venire picchiata, se lo meritava, ma nessuno badava più a lei. Era come se non fosse nemmeno lì.

Afferrò il suo sgabello piazzandolo davanti alla finestra in fondo al corridoio per guardare il tramonto. Lala era sudata, d’un sudore freddo e sgradevole. L’estate si affacciava all’orizzonte, da quella striscia arancio schiacciata tra i tetti dei palazzi di fronte e la cappa scura delle nubi. L’estate guardava severa e fredda in quel sole lontano e non si sarebbe fatta viva per molto tempo. Niente calde giornate al mare ad insegnare a Terry come fare castelli di sabbia, niente passeggiate al parco spingendo i passeggini insieme alla mamma. L’estate sarebbe rimasta lontana, a soffiare vento e gelo tra lei e i suoi genitori, a bagnare di pioggia le guance di tutti.

Lala salì in piedi sullo sgabello ed aprì la finestra per respirare meglio. Il sole era scomparso e il cielo s’anneriva nel sapore umido spinto su dalle marmitte delle auto che borbottavano tra i buchi sull’asfalto.

Lala guardò il marciapiede aspettando di vedere i tre Magi venuti a restituire i doni rubati. Ma lassù non c’erano stelle o comete a guidarli. Ne serviva una.

Era piccola, Lala, troppo per una bambina di otto anni, perciò dovette puntare i piedi sulla spalliera, scalando l’incisione incompiuta del suo nome. Lala. Land. Puntò il primo ginocchio sul davanzale e l’altro seguì veloce. Una piccola spinta. Un grande salto.

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Fine.

 

 

 

Nota:
Caro/a lettore o lettrice, grazie per essere arrivato/a fin qui. Se questo racconto ti è piaciuto ti consiglio anche "I mangiatori di patate crude" (titolo strambo, loso). Si basa sull'idea di come il mondo possa cambiare di colpo, appena qualcuno bussa alla porta, proprio com'è successo alla povera Lala. Lo puoi trovare QUI.

E se ti è piaciuta la storia di questa bambina gravata dalle responsabilità in un mondo pazzo, potrebbe interessarti anche "Nella Terra dei Cani Pazzi", il mio romanzo completo che puoi leggere su queste pagine.

Ricorda che i tuoi commenti sono ben accetti, belli o brutti che siano.

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